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Resti

di Alessandro Gianetti




Fammi il piacere di calmarti. Arianna non aveva alcuna intenzione di darle retta. Era una scrittrice, e in fondo essere una scrittrice significa convincersi del fatto che l’unica cosa importante a questo mondo, la sola per la quale si sia disposti a prendere in considerazione la possibilità di un ammaestramento, di un gioco volontario, per farla breve di un’educazione, è il governo autarchico dei propri maledettissimi nervi. Nessuno poteva permettersi di dirle quando chiudere gli occhi o fare uscire il fumo dalle orecchie, era uno dei principi fondamentali sul rispetto del proprio corpo, tra le altre cose. E poi Arianna viveva all’estero anche per questo, per non sentirsi ripetere frasi fatte e luoghi comuni i quali, passato un certo limite, smettono di suscitare in chi li sopporta il benché minimo effetto. Fammi il piacere di calmarti, nel paese in cui Arianna viveva, si diceva Willst du dich endlich mal beruhigen! Sarebbe suonato ugualmente tedioso e insignificante se in quel paese ci avesse trascorso l’infanzia e, soprattutto, l’adolescenza, l’età che convince chi ci è destinato ad andarsene lontano.


All’inizio non è un progetto, non è neppure un’idea, è soltanto una premessa: si smette di prestare attenzione a ciò che accade intorno e ci si lascia scorrere per i rivoli dell’inesperienza fino a ritrovarsi come tronchi tarlati alla mercé di un fiume. Arianna era questo che provava, la sensazione di una lunga deriva, terminata nell’unico modo in cui poteva finire, con un approdo di fortuna. Per lei quell’approdo aveva il nome di Berlino, Petersburger Straße 42, dove nell’estate del 2003 aveva affittato una camera in cui aveva finito per trascorrere i successivi quattro anni. Dell’Italia era arrivata a odiare quasi tutto, immobilità e scaltrezza, certo, ma anche storia, ora di religione e cartelli autostradali. Un appartamento, un quartiere e una nazione dove a nessuno sarebbe mai venuto in mente di dirle Fammi il piacere di calmarti. Le avrebbero rivolto, al contrario, centinaia di frasi di cui avrebbe potuto ignorare anche la coercizione più innocente: meandri di parole sconosciute nei quali vagare alla ricerca di un significato assolutamente slegato dall’interpretazione giovanile del mondo. Per un anno Arianna aveva lavorato come cameriera in una pizzeria italiana, poi aveva reciso anche quell’ultimo cordone ombelicale: impiegata in un’azienda che organizzava percorsi culturali nei musei. Dopo aver cambiato una decina di fidanzati si era messa a scrivere, che poi era anche una maniera molto più convincente di perdere il suo tempo, visto che non si sarebbe mai sposata. Pubblicava storie illustrate per una casa editrice tedesca, specializzata in libri per bambini.



Con Elena la discussione era cominciata proprio da lì, Perché non scrivi in italiano? Arianna le aveva risposto Perché, sarei tenuta a farlo? Ma intanto pensava che la sua ex compagna di appartamento non aveva il diritto di chiederle certe cose, il suo rapporto con la lingua era troppo intimo per renderne conto così, mentre si tagliano i pomodori per fare il sugo in una cucina aggettante sull’aperta campagna di San Gimignano.

L’agriturismo lo avevano prenotato su internet, un bel casolare di cinque stanze con caminetto in pietra e bighe in bella vista, una vigna di uve rosse e un grande prato perimetrale, che avrebbero usato solo a metà. L’altra ex compagna di università, Emma Pintucci, sarebbe arrivata nel pomeriggio. Arianna ed Elena preparavano le riserve che gli avrebbero permesso di nutrirsi per due giorni senza fermarsi di nuovo a cucinare, il tempo sarebbe stato interamente dedicato ai resoconti delle rispettive vite arzigogolate. Il termine “arzigogolate”, sia detto per inciso, valeva in modo particolare per Arianna ed Emma. Elena era un’altra storia, questo lo sapevano fin dai tempi in cui condividevano l’appartamento in via Pantaneto, a Siena. Affettavano patate, cipolle, pomodori e basilico da circa un’ora, sedute al tavolo davanti alla finestra incorniciata in legno. Al di là del prato il vigneto declinava verso la valle, una dolce pendenza per gli occhi ma dura per le gambe chi ci dovevano lavorare. Poi altre colline, la bellezza e la fatica che si ripetevano, illuminate dallo stesso sole che in quel momento toccava il vertice dell’arco lanciando verso il basso i raggi che imbrillantavano i viticci.


A Berlino Arianna aveva realizzato ciò che in Italia aveva a malapena intuito, cioè che l’esistenza aveva a che fare con qualche tipo di dissonanza rispetto a quel che si sarebbe aspettata da fuori, quando immaginava lo sviluppo di una situazione rispettosa della santa quiete e dell’immacolata buona creanza. Non avrebbe permesso a nessuno di riportarla a una falsa armonia che non teneva conto del suo bisogno di emancipazione. Se il risultato di tutto questo doveva essere il caos passeggero di una discussione con Elena, non si sarebbe tirata indietro: altre ne sarebbero venute. Maledisse l’ex compagna di università e contemporaneamente pregò che il destinatario delle sue imprecazioni fosse in quel momento distratto da faccende più urgenti. Ci sarebbe tutto un discorso da fare sulla noncuranza con la quale la Provvidenza accoglie le nostre richieste più crudeli e immorali, ma non è questo il momento opportuno. Elena aveva sempre dettato il ritmo delle sue giornate universitarie, fissando con lei appuntamenti a un quarto alle nove, a un quarto alle undici o a un quarto alle sei, secondo l’orario delle lezioni da seguire. Poi la riportava a casa per mettere in bella e ripassare gli appunti. Era sempre stata così precisa, così metodica, e la sua organizzazione così votata al bene che Arianna non se la sentiva di protestare. Perché mai avrebbe dovuto farlo, se poi si divertivano anche, insieme? Soprattutto se con loro c’era Emma Pintucci. La sera, quando le sue due compagne di appartamento andavano a letto, Arianna faceva una sortita al bar più vicino; sedeva accanto a una botte e lasciava correre i pensieri: immaginava posti più liberi dove vivere, con persone più libere con cui parlare. Talvolta, tra i frequentatori del bar, qualcuno sapeva affettare tutta la libertà che Arianna sognava per se stessa, e allora si svegliavano insieme il mattino seguente. Dove si trovasse quella disarmonia che cercava non lo sapeva ancora, e rispondeva in modo educato a tutte le domande che le si ponevano.


Devi schiarirti, disse Elena accompagnando i resti di un pomodoro lungo l’asse del tagliere. Cosa voleva dire? Schiarirsi le idee, il carattere, la pelle forse? La polisemia di certi suoi commenti, Arianna non l’aveva mai assecondata. “Polisemia”, a proposito, era un termine che avevano imparato un pomeriggio di marzo, mentre preparavano l’esame di Semiotica del Testo, prima avrebbero detto semplicemente “doppio senso”. Doppio senso però ha una strada sbagliata che conduce sempre allo stesso doppio senso, perciò si erano divertite a ripetere quel vocabolo, “polisemia”, vero e proprio baluardo della più ampia apertura mentale che si erano guadagnate con gli studi universitari. Un’apertura mentale, polisemica per l’appunto, che gli consentiva di definire la poca chiarezza senza pensare per forza al sesso. La polisemia di certi miei pensieri denota una poesia involontaria, diceva Emma, e si sfiancavano dalle risate. Dopo la prima sessione di esami il termine aveva perduto la ribalta che si era guadagnata all’inizio, ma era rimasto nel vocabolario del piccolo gruppo di ragazze, come una di quelle espressioni che, al di là del significato enciclopedico, vorrà sempre dire qualcosa di diverso, di più personale: insomma, avevano reso davvero polisemico il termine “polisemia” e questo le aveva rese più amiche di prima. Cos’è, in fondo, l’amicizia – si chiese Arianna – se non una comune interpretazione dei valori più importanti, attorno ai quali far girare tutti gli altri? Niente, le suddette operazioni sono condizioni “sine qua non”… per usare un’altra espressione sulla quale avevano ricamato parecchio, quell’anno; ma si trattava già di un altro esame, Arianna non ricordava esattamente quale e poi era latino, una lingua che aveva il presentimento le sarebbe servita a poco.


Quelle parole la legavano a Elena malgrado le loro esistenze fossero sempre state così diverse, da un punto di vista embrionale, s’intende, ma anche adesso che le differenze erano, per così dire, sbocciate. Elena lavorava in un’agenzia di marketing e stava comprando casa, praticamente sposata col suo compagno di allora: una storia lineare, con un prevedibile lieto fine che attendeva i due giovani protagonisti. Arianna invece non aveva che la sua disarmonia alla quale aggrapparsi, la cocciuta resistenza a essere come le altre, che aveva trovato il modo di concretizzare vivendo nel paese più diverso dall’Italia che si potesse immaginare: la Germania, quella specie di mostro dal cuore caldo. Petersburger Straße 42, dove la sua scrivania aspettava la stesura di storie che non avrebbero fatto male a nessuno, una volta tanto. Tutto era così ovattato, nei disegni che le preparava la sua amica Katrine, che Arianna trovava naturale completarli con frasi che avrebbe desiderato per la propria infanzia, e che invece immaginava per sconosciuti bambini tedeschi in età prescolare.


Che ne sapeva Elena di cosa voleva dire scrivere e sognare in tedesco? Le bozze che riceveva in un pacco con il codice postale di Amburgo, le frasi gentili con le quali Katrine le accompagnava nel biglietto, le dita che immaginava vergare sul cartoncino quei convenevoli così educati. Perché Elena si permetteva adesso di avanzare uno spillo capace di far scoppiare l’unica bolla che fosse mai riuscita a costruirsi attorno? Katrine era biologa ma nel tempo libero disegnava. Viveva in un bilocale che Arianna aveva visto in fotografia, proprio sul porto di quella città ancora più lontana dall’Italia, vicina al Mare del Nord, un nome che la faceva star bene solo a pronunciarlo. Le avrebbe fatto visita di ritorno dalle vacanze. Katrine non aveva molti amici, glielo aveva confessato per telefono, si sentivano un paio di volte a settimana: Devo solo rivedere due vecchie amiche, le aveva risposto Arianna, poi vengo a trovarti. S’immaginava già l’arrivo, la conoscenza della ragazza tante volte fantasticata durante le ore di scrittura, le passeggiate e poi le birre che avrebbero bevuto insieme sul terrazzino, osservando le banchine del porto.


Non riesco davvero a capire come fai a scrivere in una lingua diversa dall’italiano. Insistette Elena, il cui reale centro di attenzione erano in realtà le foglie di basilico, che spezzettava in dadetti piccolissimi. Sei troppo opportuna per immaginare qualsiasi cosa di anormale, le avrebbe voluto ribattere Arianna. Si conoscevano da anni, ma a un tratto fu come se non sapessero niente l’una dell’altra, come se non ne avessero mai saputo un bel niente. Forse trovi il tedesco più “polisemico”? Cercò di smorzare la ponderata Elena; Arianna però era stizzita, imbronciata, come se temesse di affrontare certi temi personali, soprattutto con lei. Quando penso in tedesco la mia mente è autonoma dal sentimento, e spicca il volo. Questa era la frase che avrebbe spiegato tutto, ma l’avrebbe pronunciata solo in presenza di Katrine, se l’era in un certo modo asserbata, e usarla in sua assenza sarebbe stato uno spreco. E poi Elena era davvero troppo convenzionale per capire certe cose.



Emma arrivò quando il sole si spezzava sui crinali della campagna. L’auto su cui era a bordo fece scricchiolare la ghiaia sotto le ruote e poi si fermò, si aprì, generò una figura sorridente e se ne andò. Arianna ed Elena abbandonarono la farina e le uova sul tavolo, ancora da impastare per fare la crostata di mele, allargarono le braccia e i loro grembiuli fiorati caddero a terra. Emma portava una maglietta violacea e dei calzoni da camminatrice. Autostop? Chiese subito Arianna, felice di rivederla. Da Siena, facile facile. Entrarono nel casale ed Emma posò lo zaino prima di sedere sul divano, di fronte al caminetto; gettò un’occhiata attorno e vide la legna tagliata, disposta in fastelli. Le sembrò ingeneroso non afferrare immediatamente un grosso tronco e circondarlo di rami, accartocciare le pagine di un vecchio giornale e sistemare la carta tra i legni: la carta s’incendiò lambendo i fuscelli più sottili. L’operazione non sarebbe tuttavia riuscita se Elena non avesse scovato un sacchetto di carbonella sotto il tinello della cucina, un vecchio trucco che decretò l’inizio di una calorosa riunione incentrata sull’ardente cavità del caminetto. Arianna cominciò a snocciolare la lista delle ricette già pronte, ma Emma non le prestava attenzione. Era più abituata ad apprezzare la prelibatezza di ciò che beveva, piuttosto che di ciò che mangiava. Non avrebbe mai dimenticato il famoso pranzo a base di scatolette Simmenthal, Philadelphia spalmabile e Brunello di Montalcino del 2002, tra le migliori annate della Denominazione di Origine, preparato per festeggiare il Diploma di Laurea. Stava pensando, Emma, dopo essersi accesa una canna che portava nell’astuccio del tabacco, che “Denominazione di Origine” era davvero uno di quei tesori linguistici pressati in una sigla ai quali non si presta la dovuta attenzione.


Allora, come state? Bene, direi – rispose Elena – ma Arianna non vuole dirmi perché diavolo scrive in tedesco. Perché ci mette tanta energia? Si domandò Arianna. Intendevo in generale. In generale lavoro come una scema e convivo con Filippo. Se non succede niente di drammatico ci sposiamo tra un anno. Mi dovete giurare che verrete al matrimonio. Io ci vengo di sicuro, e tu, Arianna? Cosa? Io vado ad Amburgo tra una settimana, ve l’avevo detto? E si ammorbidì in un sogno che risparmiava pochi elementi della stanza. Perché proprio ad Amburgo, se non sono indiscreta? Voglio conoscere Katrine, la disegnatrice dei miei libri. E Thomas, viene con te? Saranno due anni che non lo vedo. Che ti dicevo, Arianna ci nasconde qualcosa di grosso. Siete una bellezza quando discutete, come sempre del resto. Emma notò il taglio di capelli di Arianna, più corto di quello di un tempo, e la minore ricorrenza dei suoi sorrisi, che sembravano chiedere il permesso a uscieri più severi, prima di balenare. In Elena la magrezza aveva progredito nell’opera di rifinitura dei contorni, ma le mani erano sempre nodose e ben curate fino all’ultimo guizzo duro dell’unghia. Tutto sommato le sembravano molto cambiate dall’ultima volta. Emma prestava volontariato parzialmente retribuito in un’organizzazione che si occupava dell’integrazione dei migranti che arrivavano in Italia. Viaggiava spesso in Africa e in Sud America per conoscere le situazioni di partenza. Quello di non proporre gesti e parole che non scomodassero mai nessuno, oltre a un impegno volontario, era anche il suo mestiere. Con lei si era sicuri di poter contare su una corposa riserva d’inoffensività accumulata in un punto ben preciso dello spazio. Era come un cuscino, soffice e foderato. Non siete cambiate per niente, disse, un tentativo di disinnesco che per la verità venne ignorato, più per decenza che per dispetto.


La conversazione seguiva a sbalzi, come se avessero dovuto superare una lunga serie di dossi prima di arrivare su terreno pianeggiante, poi finalmente Arianna lo disse: Credo proprio di essermi innamorata, e l’aria le fuoriuscì dal petto prima che Emma potesse abbracciarla. Dobbiamo festeggiare, e sfoderò una bottiglia di Rosso di Montalcino come se al posto dello zaino avesse portato la magica borsa di Mary Poppins. Quando te ne sei accorta? Di cosa? Del fatto che sei terribilmente petulante? Subito, al primo anno di università, solo che pensavo ancora in italiano e non te l’ho detto. Risero a crepapelle, ma Elena era decisa a proseguire la sua meticolosa indagine, come faceva nell’appartamento in via Pantaneto, quando passava le ore a interrogarle sull’affascinante e incomprensibile monolite degli Altri, solo che stavolta il pettegolezzo riguardava una di loro. Non sono petulante, solo che non mi piace essere presa in giro. Arianna si trattenne, non era il caso di dare in escandescenze quando il piccolo gruppo era riunito, non faceva parte del protocollo della loro amicizia: le litigate dovevano prodursi in rigorosi faccia a faccia che non si riverberassero sull’atmosfera generale. E poi da una manciata di minuti provava una sensazione che non avrebbe esitato a definire “perfetta”, perché tra quelle che la vita ci mette a disposizione, la sensazione perfetta è quella che esclude la possibilità che possano esisterne di più belle. Non voleva sciuparla.


Cominciarono a cenare gli spaghetti al sugo di pomodoro, ma Emma si fece seria, non parlava e guardava la scodella davanti a sé. Le altre due continuarono per un po’ a litigare, ma non potevano far finta di niente in eterno. Fuori dalla finestra la notte si era impadronita di tutto e non si vedevano più né il prato né il vigneto, sostituiti da un’ambivalente oscurità che li conteneva. Sono andata in Zimbabwe con Nyasha, quest’estate, diceva di volermi presentare la sua famiglia. Che bello lo Zimbabwe! Esclamò Arianna, un po’ rincretinita dalla canna. Appena atterrati mi ha preso i soldi dal portafogli, dicendo che a casa sua li teneva lui. Abbiamo preso un taxi dall’aeroporto e non mi ha rivolto nemmeno la parola. Poi, quando siamo entrati in casa sua, mi ha subito spedito in cucina a preparare il pranzo con le altre donne. Gli ho fatto notare che non era esattamente un comportamento carino, nei miei confronti, ma a quel punto Nyasha ha alzato una mano per darmele, la sua grossa mano nera, e giurerei che me le avrebbe date di santa ragione, se non mi fossi messa a urlare. Era come un corso accelerato di sottomissione, un incubo. Si era mai comportato così? Interrogò Elena. Ma no, in Italia è un angioletto. E in ufficio, hai detto nulla? Non voglio che lo licenziano, ma ovviamente non ci vediamo più. Che stronzo, sussurrò Arianna, immersa nei suoi pensieri.


Emma non aveva certo condotto studi esaustivi sull’argomento, ma era convinta che l’insonnia fosse legata alla sua testardaggine, a un qualche tipo d’ingordigia, una specie di punizione per quello che considerava il meno grave tra i sette vizi capitali. Le succedeva quando si ostinava a non abbandonare la vita cosciente per riprendere il filo della bella, inutile vita dell’inconscio. Quella notte era così contenta di aver bendato certe ferite che avrebbe proprio voluto continuare a farlo, se senza mai smettere. Forse sarebbe addirittura riuscita a trasformarle in piacere, ma non poteva perché le sue due amiche dormivano, a quell’ora, e così se ne rimase sveglia da sola, a pensare che era stata davvero una sciocchezza fidarsi di un tipo come Nyasha. Le cose però a volte sono difficili da prevedere. Chi avrebbe mai immaginato che Arianna si sarebbe innamorata di una biologa tedesca col vezzo del disegno a china? Nessuno, come nessuno avrebbe saputo anticipare che Nyasha fosse un perfetto doppiogiochista, remissivo in Italia e prepotente in Zimbabwe. Era successo, non ci si poteva fare assolutamente niente. Capita anche con la morte, si vorrebbe continuare a vivere in modo normale, quasi anodino, ma non si può, e in fondo il sonno non è altro che una morte addomesticata fra quattro mura. Per questo la mattina si è così contenti, perché si è anche un po’ risorti, come dei collezionisti che mettono insieme miniature dell’inevitabile. Arianna dormiva mentre Emma pensava queste cose, ed Elena aveva chiamato Filippo, come ogni giorno: Tutto bene, sono sempre le stesse, e tu come stai? Senz’aspettarsi granché dalla sua risposta.





Alessandro Gianetti (Firenze, 1976) è uno scrittore e traduttore che vive da anni in Spagna. Dopo il suo esordio con La Guida di Giuda, i 76 bar più temibili di Madrid (Miraggi Edizioni, 2012) ha partecipato al romanzo corale Il postino di Mozzi (Arkadia, 2019). Traduttore di Ricardo Piglia, Roberto Arlt e Federico García Lorca, collabora con l'editore Casimiro Libri alla collana Leggere l'arte,mentre dal 2019 coordina Xaimaca-Jarama, la collana di narrativa dedicata alla letteratura in lingua castigliana e catalana di Arkadia Editore.

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