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Cronache di… DUE INCOSCIENTI

Immagine del redattore: Redazione TheMeltinPop Redazione TheMeltinPop


di Daphne Squarzoni


«Fai attenzione» mi avverte Raf dal fondo della trincea. Scavalco l’ammasso di pietra davanti ai miei piedi e lo raggiungo camminando sulle foglie rosse e gialle dell’autunno. Sopra di noi gli alberi del bosco sibilano smossi dal vento e la luce del sole trapela a malapena tra le fronde. Rabbrividisco nella giacca a vento.

«Doveva essere tutto coperto qui», mi indica Raf facendo cenno ai corridoi di pietra davanti a noi. «Quindi stavano al buio», deduco. Il mio moroso annuisce. La terra sotto i nostri piedi è bagnata e fangosa e ad ogni passo rischiamo di incappare in una ragnatela.


Il bosco è silenzioso mentre esploriamo la prima linea del fronte carsico diventata un museo a cielo aperto. «Hanno usato delle grotte naturali integrandole nella trincea» mi spiega Raf indicando le insenature con appositi cancelli.

«Non c’è il lucchetto», noto avvicinandomi alla grata rovinata. Tiro il blocco del cancello e il ferro scricchiola tra le mie mani lasciandoci libero accesso alla grotta.

«Andiamo!» s’entusiasma Raf.

Io lo guardo inclinando la testa di lato. «C’era scritto di non entrare nelle grotte da soli e senza luce», gli faccio notare citando il cartello a inizio percorso. Raf mi sorride.

«Noi non siamo da soli e abbiamo i telefoni». Ovvio.

«Se vuoi puoi stare qui», mi propone. Scuoto la testa e lo seguo nel buio completo. Una targa di pietra incisa ci svela il nome della grotta naturale, la prima a essere inglobata nella trincea. Raf scende i primi gradini bagnati puntando il cellulare nel buio. Lo seguo. I nostri passi rimbombano tra le pareti rocciose. Mi tengo forte alla corda rossa attaccata ai versanti e faccio attenzione a dove metto i piedi per non scivolare. Non si vede niente. La temperatura è calata drasticamente e i nostri respiri sono quasi troppo rumorosi in questo buco umido.

«Dammi una pietra», mi dice Raf.

«Per far che?», chiedo ancorata alla corda che sparisce nella grotta.

«Voglio lanciarla sul fondo per spaventare eventuali animali».

«Tipo?» chiedo preoccupata.

«Non ne ho idea. Tassi? Volpi? Meglio non rischiare».


Raccolgo una roccia schivando ragni e altri strani insetti che non riesco a identificare. Raf la lancia nel vuoto. Trattengo il fiato. La pietra si schianta con un suono sordo che rimbomba tra le pareti. Nessuno dei due dice niente mentre tendiamo le orecchie. Silenzio assoluto. Raf scende ancora qualche gradino. Io non riesco a vedere oltre a lui. Ruoto la torcia del telefono attorno a noi e non c’è altro che roccia umida, fango e buio. «Te lo immagini stare qui durante la guerra?» sussurro mentre continuiamo a inabissarci.

«Probabilmente avevano un sistema di illuminazione», mi fa presente il mio moroso.


L’ingresso alla grotta è un puntino luminoso in lontananza e comincio ad avere paura. «Guarda!», mi richiama Raf da una specie di terrazzo roccioso. «Questo poteva tranquillamente essere un magazzino: è abbastanza in profondità per conservare cibo al fresco ed eventuali bombe che non sarebbero esplose se avessero colpito la trincea».

Mi avvicino al bordo del terrazzamento e sotto di noi la grotta procede al buio pesto. «Scende ancora», dico. Raf mi guarda e sorride. La sua espressione non mi piace per niente. «Andiamo a vedere», dice rimettendosi sulla scala che diventa sempre più umida e stretta.

Il cuore mi batte all’impazzata. «Io avrei un po’ di paura», gli confesso.

«Torna su. Io voglio vedere dove va a finire».

Alzo gli occhi al cielo. «Potrebbe andare avanti ancora un bel po’ e non sai cosa ti aspetta in fondo». Da qualche parte devo aver letto che la parte del cervello maschile che dovrebbe avvisarli del pericolo è sensibilmente più piccola rispetto al cervello femminile… Non faccio fatica a crederlo.

«Giusto. Dammi un’altra pietra!».

Ma davvero?


«Non possiamo ritornare in superficie?», propongo. Raf mi fissa con la torcia del telefono stretta in mano. L’ingresso della grotta è sempre un punto luminoso in lontananza e ho paura che qualcuno passi per la trincea, noti il cancello aperto e decida di chiuderci quaggiù dove il telefono, ovviamente, non prende.

«Scendo solo un altro po’, tu puoi risalire o aspettarmi qui, ok?». Mentre lo dice riprende a scendere i gradini appoggiandosi al muro viscido della grotta. Lo guardo sprofondare nel buio. Che faccio? Lo aspetto qui? Torno su? Vado con lui? Comincio anche io a scendere la scala: se incontrasse un animale o scivolasse preferirei esserci per dargli una mano. La roccia sotto le mie dita è fredda e bagnata e sospetto che non sarebbe molto utile se scivolassi davvero su questi gradini screpolati. Continuiamo a scendere lungo le scale e penso a cosa potesse essere la guerra qui sotto. A cosa vuol dire patire il freddo e la fame, vivere nel fango tra gli insetti senza sapere se sopravviverai. Rabbrividisco. «Arrivati», mi informa Raf facendo ruotare la torcia in uno spiazzo fangoso. La luce del telefono non basta a illuminare ogni angolo di questo fondale, ma non sono minimamente curiosa di scoprire cosa nasconde questa grotta. I nostri respiri rimbalzano tra le pareti.

«Ci pensi a quanti respiri ha ascoltato questo posto? Quante lacrime. Quante parole. Quante bombe», chiedo sottovoce. Raf annuisce. «Stiamo camminando sulla disperazione di tanta gente», commento.

«Non solo. Stiamo camminando anche sulla pipì di tanta gente, sul sangue, forse anche su pezzi decomposti di soldati, su escrementi e chissà che altro», mi fa notare. È un pensiero disgustoso.

«Già – dico – grazie che me lo ricordi». Raf sorride. «Sono seria. Romanticizzare la guerra è fin troppo facile. Io ci casco spesso perché so pensare solo al dolore, con il rispetto e la reverenza che porto al dolore della gente. Per questo ti ringrazio. La guerra fa schifo in senso letterale: sono chili di cacca, di pipì, di corpi decomposti e puzzolenti, di fango, di cibo marcio che dovevi mangiare lo stesso, di gente che si trascina in trincea amputata. La guerra è puzzolente oltre che tragica. È disgustosa. Antigienica e tutto il resto. Se la pietà non basta a farci passare la voglia di combattere forse potrebbe farlo il disgusto». Raf alza le spalle. Un suono stridulo rimbomba della grotta.

Spalanco gli occhi con il cuore a mille. «Direi che possiamo risalire», dico voltandomi di scatto. Raf non protesta e mi segue su per le scale. Prima di uscire dal buio raccolgo un sasso da terra e lo stringo nella mano. Raf chiude il cancello della grotta alle nostre spalle.


«Guarda», gli dico aprendo il palmo sporco di terra con al centro il piccolo frammento di roccia.

«Un sasso», nota Raf perplesso.

«Sì, dal fondo della trincea. Questo sasso sa più cose di me sulla vita e sulla morte e ho deciso di farlo diventare una calamita. Un promemoria direttamente dal 1918». Avvolgo il sasso in un fazzoletto e mi pulisco la mano. Il sole dietro gli alberi sta tramontando lanciando dardi rossi e arancioni sulle foglie. Davanti a noi le trincee si snodano come ferite profonde mai cicatrizzate e per qualche secondo mi manca il respiro. Mi tornano in mente le parole di Giani Stuparich nel suo diario di guerra: «Vita di stenti, senza orizzonti; tutto duole dentro di noi e tutto, fuori di noi, ci affligge. S'aggiunge il malessere della sporcizia e, più umiliante ancora, un senso disperato d'inerzia». Che schifo.

Raf mi prende la mano e mi riporta alla realtà: «Dobbiamo andare: fra poco farà buio».

Annuisco e lo seguo camminando a ritroso nelle trincee. Tutto attorno a noi camminano i fantasmi dei soldati ricoperti di propaganda, eroicizzati, martirizzati, nascosti dietro una narrazione che ha permesso alla guerra di tornare ancora e ancora. Cosa stiamo sbagliando?


 

«Siete due incoscienti!», ci sgrida Emma dopo aver letto l’episodio delle cronache. Raf e io ci stringiamo nelle spalle. «Non posso più lasciarvi girare da soli», si lamenta la mia amica. Ops. Federico la agguanta da dietro cercando di placarla con un po’ d’affetto.

«Non è successo niente», le fa presente Raf. Gli faccio cenno di tacere e decido di cambiare argomento.

«Sapete cosa mi ha colpita di più delle trincee?». I miei amici mi guardano invitandomi a parlare. «Il silenzio. Soprattutto in Slovenia nelle trincee del monte Kolovrat c’è stato un momento in cui tutto era avvolto dalla nebbia e le trincee erano tanto ben conservate da riportarci indietro alla battaglia di Caporetto. Però non si sentivano le bombe. Non si sentiva niente». Raf al mio fianco annuisce: «Un giorno dobbiamo andarci tutti insieme: sono le trincee meglio conservate che io abbia mai visto». Mi appoggio alla sua spalla e ripenso a quel giorno, a quelle trincee e a un piccolo fiore rosa che sbucava nel fango perché «dai diamanti non nasce niente, ma dal letame nascono i fiori».



 




Daphne Squarzoni, nata nel 1999, laureata in Studi Storici e Filologici e in Filologia e Critica Letteraria. Dal 2019 porta avanti numerosi progetti didattici nelle scuole

elementari insieme all'associazione Siderea e alla casa editrice Isenzatregua, con cui collabora attivamente e con cui ha pubblicato nel 2022 Piccolo diario della guerra europea del 1914-1915, nel 2023 Epsodi e nel 2024  Scri(vi)viamo i quaderni di Daphne. Heartbeat e Scri(vi)viamo. I quaderni di Daphne. Heartbreak.

 



 

Per chi è incuriosito dalle vicende di Clio e dei suoi giovani amici universitari di "Cronache di un'universitaria"e vuole recuperarle, le può trovare tutte nella sezione dei Racconti della domenica di themeltinpop.com.


 

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