di Bruno Morchio
La vigilia di Natale, di un anno bisestile qualunque, il ragionier Arnoldo Giuffré si alzò di buon’ora, anche se era sabato e l’ufficio dove lavorava come capo contabile – Premiata ditta Giobatta Sciaccaluga & Figli, dal 1964 accessori e ricambi per auto − era chiuso. Entrò in cucina e, senza accendere la luce, si portò alla finestra. Albeggiava e il cielo, da nero che era, sfumava verso un promettente blu indaco. Colse gli ultimi palpiti d’una stella prima che si dissolvesse fino a scomparire e avvertì una stretta al cuore. Pensò che quello era il destino di tutte le cose. Svanire è la ventura delle venture, aveva letto da qualche parte, forse in una poesia, tanti tanti anni prima. Il grande appartamento della Circonvallazione a monte era silenzioso e deserto, tutti se ne stavano rintanati al calduccio sotto le coperte. Sua moglie Carla, impiegata comunale; suo figlio Cesare, studente universitario al quarto anno di economia, con soli sei esami all’attivo e una sconfinata passione per le serie TV; e infine la piccola Gioia, nata quando lui e sua moglie non si aspettavano più figli né sussulti di passione, ma si sentivano uniti da un affetto profondo come il colore di quel cielo mattutino.
La ragazza aveva sedici anni, frequentava il terzo anno del liceo scientifico, ascoltava tutto il giorno musica metallara a palla, vestiva rigorosamente di nero e sbatteva di frequente le porte di casa, inclusa quella della sua stanza.
Fece colazione, si lavò, si vestì di tutto punto e, attento a non fare rumore, sgattaiolò fuori quando i lampioni stradali erano ancora accesi
Un freddo vento di tramontana batteva il corso e componeva mulinelli festanti di foglie giallognole e marroni sotto i tigli denudati. Quel vento lo accompagnò per tutta la giornata, dedicata all’acquisto dei regali natalizi. Ogni anno era la stessa storia: sotto Natale il lavoro diventava spasmodico e non gli lasciava il tempo di occuparsi d’altro, costringendolo a relegare le incombenze familiari all’ultimo giorno.
Girovagò tra le vie della città ottocentesca e i carruggi del centro storico, tornando più volte sui suoi passi, e spese l’intera mattinata e mezzo pomeriggio per completare gli acquisti. E come sempre, per quanto infreddolito e affamato, alla fine si sentì soddisfatto. Sapeva che alla cena della vigilia, secondo tradizione, ci sarebbero stati anche i suoceri. Brave persone, che lo avevano accolto − lui orfano di madre e con un padre un po’ ubriacone e un po’ puttaniere – come si accoglie un figlio. Aveva scelto una magnifica borsa griffata per Carla, un costoso cofanetto contenente otto stagioni d’una serie americana non ancora uscita in Italia per Cesare, tre CD di musica Heavy Metal per Gioia, suggeriti dallo stesso Cesare dopo una delle rare conversazioni con sua sorella. La complicità tra quei due, infatti, non era sostanziata di parole, ma di comunicazioni molto più primitive, quali occhiate, schiaffi e qualche grugnito. Ai suoceri comperò, su indicazione di Carla, un set di coltelli di ceramica che gli costò una fortuna.
Finalmente, quando cominciava a rabbuiare, si avviò alla funicolare che lo avrebbe riportato a casa. Sapeva che Carla, previdente come sempre, aveva provveduto ai regali natalizi per tempo e aveva dedicato l’intera giornata ai fornelli; ma sapeva anche che non gli avrebbe portato rancore per la sua assenza, perché conosceva bene l’andazzo del lavoro alla “Giobatta Sciaccaluga & Figli”.
Il portone era aperto. Quando si ritrovò sul ballatoio, davanti alla porta di casa, si accorse di non avere in tasca le chiavi. Le aveva forse dimenticate sulla mensola, uscendo di fretta al mattino come un ladro? Suonò il campanello e, quando la porta si aprì, sulla soglia comparve Gioia. Arnoldo stava per entrare, ingombro di pacchi e sacchetti come un albero della Cuccagna, quando la ragazza lo respinse decisa. Lo guardava come si guarda uno sconosciuto.
«Ciao, amore», sbottò con un sorriso complice. «Sono intirizzito dal freddo, non mi fai entrare?»
«Mi scusi», rispose seria la figlia, «ma lei chi è?»
Fin dalle scuole elementari Gioia aveva dimostrato un autentico talento per il teatro.
«Via, Gioia, sono stanco morto, smettila…»
Il volto della ragazza si tinse di una sfumatura di preoccupazione. «Come conosce il mio nome?»
«O bella. Tu sei mia figlia.»
«Aspetti un momento…» replicò lei sgranando i grandi occhi neri. E, volgendo il capo verso l’interno dell’appartamento, gridò: «Mamma, puoi venire per favore?»
Al ragionier Arnoldo Giuffré parve di cogliere, nella voce della ragazza, un sottile tremito che gli procurò una fitta al cuore. Voleva bene a Gioia e in quella vibrazione avvertì paura, o addirittura sgomento.
Nel corridoio comparve Carla, avvolta in un grembiule rosso sul quale strofinava le mani bagnate.
«Che succede, tesoro?»
«Il signore afferma di essere papà…»
«Cosa?» domandò incredula sua moglie, scrutandolo dalla testa ai piedi, con un misto di derisione e disprezzo.
«Ciao, Carla», farfugliò Arnoldo, che cominciava a dubitare che quella, per quanto ben congegnata, fosse solo una recita.
«Come sa il mio nome?»
«Ma, amore», azzardò nuovamente il ragioniere. «Non mi riconosci? Sono tuo marito!»
«Come si permette! Bestemmiare la vigilia di Natale!»
«Ho qui i vostri regali», balbettò Arnoldo. «Anche il set di coltelli per mamma e papà…»
«Coltelli?» replicò Carla. «Intende forse minacciarci?»
A quel punto si voltò in direzione della stanza di Cesare e lo invitò a gran voce a raggiungerle. Il ragazzo, con la sua solita andatura, pigra e dinoccolata, si fece sulla porta. «Che avete da gridare?» bofonchiò con l’aria d’essersi appena svegliato.
«Questo signore», rispose pronta Gioia, «afferma d’essere papà.»
Cesare, com’era nella sua natura, la prese piuttosto bassa. «Papà?» ripeté socchiudendo gli occhi e grattandosi la testa. «Ma se è morto dieci anni fa!»
Il suo tono, tutt’altro che drammatico, contrastava con quello, quasi isterico, delle due donne.
«Ciao Cesare», tentò per la terza volta il povero ragioniere. «Almeno tu mi riconosci?»
Il ragazzo scosse il capo. «No», borbottò, quasi scusandosi. «Chi è?»
«Ma come... Sono tuo padre!»
«Mio padre?»
Intanto a Carla scappò detto: «Chiamo la polizia.»
«Sì, tuo padre», insisté l’uomo. «Arnoldo Giuffré!»
«Arnoldo Giuffré?»
«Come fate di cognome tu e tua sorella?»
«Giuffré», rispose candidamente il ragazzo.
«Eh, no! È troppo comodo!» intervenne Gioia con un’espressione cattiva. «Il cognome è scritto sulla targa della porta!»
«Ci mostri i documenti!» aggiunse Carla in tono perentorio, pensando così di supplire alla latitanza della polizia.
Fu allora che il povero ragionier Arnoldo Giuffré, frugandosi in tasca, si accorse che, oltre alle chiavi, aveva dimenticato anche il portadocumenti.
Stava per giustificarsi, protestando la sua buona fede, quando fu preso da uno sconforto senza rimedio. Sussurrò un flebile «Scusate», e girò sui tacchi, avviandosi verso le scale.
La porta di casa era rimasta aperta, e Carla Gioia e Cesare, affacciati sulla soglia, lo osservavano allontanarsi, impietriti.
Prima di infilare le scale, si augurò di sentire alle sue spalle una sonora risata e la voce dei suoi figli che lo richiamavano indietro.
Invece sentì la porta richiudersi. E fu avvolto da un silenzio gelido, più freddo di quella gelida viglia di Natale.
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