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Negroni



di Miriam Sassani


Era pieno inverno, l'aria fuori dalla finestra era livida come un sudario, nemmeno gli uccelli avevano il coraggio di cantare. Il traffico era quasi inesistente perché era domenica e io volevo dormire fino a tardi, senza che nessuno venisse continuamente a vedere come stavo, soprattutto non volevo che venisse Ada, mia moglie, e si accorgesse del mio hangover. Volevo dormire soprattutto per non vedere lei e per non farmi vedere da lei.

La sera prima ero stato a un addio al celibato e avevo esagerato coi Negroni, fino a ridurmi uno straccio. Volevo dormire fino al lunedì, volevo cessare di esistere fino al lunedì, nascondendo la testa sotto il cuscino come un bambino che non vuole andare a scuola. Mi capitavano spesso giornate così, con la voglia di non esistere e di rifugiarmi nel sonno che non ristora ma che mi nascondeva al mondo e alle sue brutture. E soprattutto, le giornate trascorse a letto mi consentivano di non parlare con mia moglie.


Con lei ero stato felice, così felice da decidere di metter su famiglia insieme. Era bellissima, allegra, sfrontata. Amavo la sua voce, la sua risata. Subito dopo che ci eravamo sposati, è andata in fissa con l'idea di un figlio e sono stato declassato a toro da monta. Dopo la nascita del bambino, non sono esistito più se non come il padre della creatura, se non come il collaboratore alla sua idea di famiglia: più niente, non sono stato più niente. Stop. Dicono che succede e che si deve accettarlo, anche soffrendo.

Poi ci si abitua, ma quando le abitudini prendono possesso del tuo spazio e del tuo tempo, tutto agonizza e muore. Quando il desiderio di essere uniti e complici viene sostituito dalla finta necessità di fermarsi al lavoro ben oltre il tempo necessario tutti i santi giorni, l'agonia è finita e tutto è già putrefatto. Succede, e quando te ne accorgi è troppo tardi per uscire dall'ingranaggio. Anche se cerchi di vendere il cuore per un attimo in più, un attimo che potrebbe cambiarti la vita, quell'attimo che però diventa inafferrabile. Certo, gestire due studi specialistici in città diverse non è facile, bisogna spaccare con precisione i minuti da dedicare ai pazienti dell'uno o dell'altro. Pazienti speciali, i miei, che non possono aspettare i miei comodi.


Sono uno psicoterapeuta, uno di quelli che ti fa sdraiare sul lettino e ti fa parlare senza guardarti in faccia e senza interromperti mai.

Mio padre era un operaio, mia madre una casalinga, e da quando mi sono iscritto al liceo mi hanno chiamato dottore, anche se sono sempre stato attratto dalle parole e dalle righe dei romanzi, dalle grandi storie che raccontano le vite degli altri. Mi piaceva, e mi piace, osservare le persone, non spiarle, no, osservarle, guardare come sotto la lente di un microscopio come parlano, si muovono, piangono, ridono. Mi piaceva, e mi piace, immaginare quello che pensano e cosa sognano, e poi scriverlo.

Poi però mi sono iscritto a medicina e specializzato in psichiatria. I miei sono stati felici e orgogliosi di me. Io un po' meno, anche se sono stato fortunato, e forse anche bravo. Ora ho due studi in città diverse e mi barcameno tra lavoro, famiglia, amici, tennis e amanti, tante. E soprattutto, beccheggio sulla noia su cui da anni galleggia la mia anima.


Ho sempre pensato che non c'è salute senza salute mentale. Ma per ironia della sorte, sono uno strizzacervelli che dice a suoi pazienti cosa fare e che non è capace di essere felice. Vero, è un controsenso, ma il problema è che io mi annoio. Sempre. Mi annoio al lavoro, con mia moglie, in famiglia, con gli amici, mentre gioco a tennis. Mi annoio anche con le mie amanti, per questo le cambio così spesso, le sostituisco quando capisco che potrei innamorarmi per poi annoiarmi di nuovo. Ma prima o poi, bisogna camminare per il mondo fino a consumare le suole delle scarpe, prima o poi, si deve scendere dal palcoscenico e rientrare nella propria vita: i miei letarghi erano propedeutici a questo, e io ancora non lo sapevo. E anche se in definitiva la vita è una commedia in cui si piange e si ride, bisogna scegliere chi e cosa essere, quando piangere o ridere con sincerità. Avevo deciso, il lunedì successivo sarei uscito di casa per non tornare mai più, avevo abbastanza soldi per sparire. Il mio avvocato si sarebbe occupato dei particolari. Io avrei scelto un posto esotico dove pensare solo a prendere il sole e fare surf. Senza complicazioni, senza pensieri, senza malattie. Senza nessuno. Soprattutto, senza tempo.

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Oggi è lunedì, devo sbrigarmi, ho i pazienti che mi aspettano. Il surf può aspettare, in fin dei conti, la mia non è una brutta vita.

Il futuro non esiste, il presente è l'unico tempo. Ed è nostro.

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