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  • Immagine del redattoreRedazione TheMeltinPop

Mi chiamo Anna


photo pixabay

Mi chiamo Anna e di mestiere faccio nascere i bambini.


Ho desiderato diventare ostetrica da quando avevo otto anni.

Fu quando vidi la prima donna partorire: avevo accompagnato mia

madre al lavoro, quel giorno. Le regole erano chiare, io potevo giocare

con Rachele, la figlia dei signori che l’avevano assunta ma non

dovevo fare nessun danno perché la signora Agnese doveva riposare.

Presto avrebbe messo al mondo un altro figlio, ma nessuno si

aspettava che quel giorno fosse già arrivato.

La porta della sua stanza era spalancata e lei si contorceva sul letto in

un groviglio di lenzuola.

Il suo ventre era rotondo come la terra.

“È troppo presto!” la sentii gridare più volte mentre mia mamma

allungava la mano sul telefono per chiamare un’ambulanza.

“Signora, non deve spingere...” le suggeriva “i soccorsi saranno qui

tra poco!”

Mia madre mi vide e mi ordinò di allontanarmi ma io le disobbedii

Le vene della signora Agnese si gonfiavano a ogni gemito e mia

madre si inginocchiò davanti a lei e le sollevò la camicia da notte.

Poi, vidi la testa, ne sono certa e ricordo di essermi messa sulle punte

per osservare anche le spalle che si facevano strada e ascoltare la

signora Agnese che smetteva di gridare.

Poi le mani di mamma cullavano un bambino e io lo trovai bellissimo.

“Avevi fretta di conoscerci eh?” gli disse appoggiando il piccolo tra le

braccia della madre che lo guardava con tutto l’amore del mondo.

Quando mi voltai mi accorsi che Rachele era fuggita terrorizzata,

quello spettacolo l’aveva così impressionata che non parlò per giorni.

Lei, poi, è diventata una giornalista culturale molto stimata mentre io

sono diventata ostetrica.


Mi chiamo Anna e di mestiere faccio nascere i bambini.


Intendiamoci, questo lavoro l’ho desiderato da sempre ma ho imparato

a farlo davvero bene solo dopo aver dato alla luce Andrea, dodici anni

fa, proprio in questo stesso ospedale dove lavoro ancora oggi.

Quel giorno dopo essermi accertata che tutto fosse andato bene provai

una sola vergogna: avevo i capelli appiccicati sulla fronte, degli

orribili segni scuri sotto gli occhi ed ero così sudata che a nessuno

sarebbe venuta voglia di farmi una carezza, neanche a mio marito

credo.

Sì, lo so, vi sembrerà sciocco ma è per questo che sono diventata

davvero brava nel mio lavoro perché, non appena inizio il mio turno,

invece di passare subito nella sala del personale a farmi ragguagliare,

infilo il corridoio e vado immediatamente dalla paziente con la quale

ero il giorno prima e mi offro di stare con il suo neonato mentre lei si

concede una doccia, mette in piega i capelli e si trucca un po’.

Non è molto, lo so. Le donne non hanno bisogno di imparare a

diventare madri, ma non dovrebbero dimenticare di rimanere ragazze.


Mi chiamo Anna e di mestiere faccio nascere i bambini.


Quella sera erano passate le dieci, lo so perché avevo guardato

l’orologio e controllato se la luna fosse piena.

Volevo accertarmi che Gianna, la signora della stanza 3, fosse riuscita

a mettersi in piedi dopo il cesareo e se la sua compagna di stanza fosse

riuscita ad attaccare al seno il suo piccolo.


Non ci sono mai arrivata alla stanza 3.


È stato come avvertire un peso sulle spalle così pesante da non riuscire

a stare in piedi. Poi, la sua stretta intorno al collo ha iniziato a

togliermi l’aria.

“Procuramelo o ti ammazzo!”

Non riuscivo a rispondergli.

“Procuramelo o ti ammazzo!”


La verità è che non ho proprio capito cosa volesse, non conoscevo

quel farmaco o forse era lui che aveva storpiato il suo nome, l’unica

cosa di cui ero certa era che in quel reparto si trovavano solo mamme

e bambini appena nati.

Quando mi ha trascinata nella stanza degli infermieri ho sperato che la

presenza di qualcuno lo spaventasse, ma ci siamo ritrovati soli, io e

lui, io che singhiozzavo in cerca d’aria e lui che camminava in tondo

battendosi i pugni sulla testa.

Ho cercato di rialzarmi e di raggiungere la porta ma lui è stato più

veloce di me e mi ha scaraventata contro un mobile e poi ancora

contro il muro.

Non c’era bisogno di tutta quella forza, io sono solo una donna.

Non ricordo molto di quello che è accaduto dopo, so solo che non

riuscivo più ad aprire gli occhi.


Mia madre teneva ancora in braccio il primo bambino che avevo visto

nascere e mi sorrideva dicendomi di avvicinarmi ma che dovevo fare

piano.

Poi, qualcuno ha fatto il mio nome e ho sentito parlare di urgenza, sala

operatoria e di poco tempo a disposizione.


Non parlavano di un parto, di questo sono certa, perché per quelli non

bisogna mai avere fretta. È la prima regola: tutto accade esattamente

come deve...ma allora, se non c’era un bambino da fare nascere,

perché mi stavano tutti intorno?

Poi, l’ho capito.



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Mi chiamavo Anna e di mestiere facevo nascere i bambini.


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