Mi chiamo Anna e di mestiere faccio nascere i bambini.
Ho desiderato diventare ostetrica da quando avevo otto anni.
Fu quando vidi la prima donna partorire: avevo accompagnato mia
madre al lavoro, quel giorno. Le regole erano chiare, io potevo giocare
con Rachele, la figlia dei signori che l’avevano assunta ma non
dovevo fare nessun danno perché la signora Agnese doveva riposare.
Presto avrebbe messo al mondo un altro figlio, ma nessuno si
aspettava che quel giorno fosse già arrivato.
La porta della sua stanza era spalancata e lei si contorceva sul letto in
un groviglio di lenzuola.
Il suo ventre era rotondo come la terra.
“È troppo presto!” la sentii gridare più volte mentre mia mamma
allungava la mano sul telefono per chiamare un’ambulanza.
“Signora, non deve spingere...” le suggeriva “i soccorsi saranno qui
tra poco!”
Mia madre mi vide e mi ordinò di allontanarmi ma io le disobbedii
Le vene della signora Agnese si gonfiavano a ogni gemito e mia
madre si inginocchiò davanti a lei e le sollevò la camicia da notte.
Poi, vidi la testa, ne sono certa e ricordo di essermi messa sulle punte
per osservare anche le spalle che si facevano strada e ascoltare la
signora Agnese che smetteva di gridare.
Poi le mani di mamma cullavano un bambino e io lo trovai bellissimo.
“Avevi fretta di conoscerci eh?” gli disse appoggiando il piccolo tra le
braccia della madre che lo guardava con tutto l’amore del mondo.
Quando mi voltai mi accorsi che Rachele era fuggita terrorizzata,
quello spettacolo l’aveva così impressionata che non parlò per giorni.
Lei, poi, è diventata una giornalista culturale molto stimata mentre io
sono diventata ostetrica.
Mi chiamo Anna e di mestiere faccio nascere i bambini.
Intendiamoci, questo lavoro l’ho desiderato da sempre ma ho imparato
a farlo davvero bene solo dopo aver dato alla luce Andrea, dodici anni
fa, proprio in questo stesso ospedale dove lavoro ancora oggi.
Quel giorno dopo essermi accertata che tutto fosse andato bene provai
una sola vergogna: avevo i capelli appiccicati sulla fronte, degli
orribili segni scuri sotto gli occhi ed ero così sudata che a nessuno
sarebbe venuta voglia di farmi una carezza, neanche a mio marito
credo.
Sì, lo so, vi sembrerà sciocco ma è per questo che sono diventata
davvero brava nel mio lavoro perché, non appena inizio il mio turno,
invece di passare subito nella sala del personale a farmi ragguagliare,
infilo il corridoio e vado immediatamente dalla paziente con la quale
ero il giorno prima e mi offro di stare con il suo neonato mentre lei si
concede una doccia, mette in piega i capelli e si trucca un po’.
Non è molto, lo so. Le donne non hanno bisogno di imparare a
diventare madri, ma non dovrebbero dimenticare di rimanere ragazze.
Mi chiamo Anna e di mestiere faccio nascere i bambini.
Quella sera erano passate le dieci, lo so perché avevo guardato
l’orologio e controllato se la luna fosse piena.
Volevo accertarmi che Gianna, la signora della stanza 3, fosse riuscita
a mettersi in piedi dopo il cesareo e se la sua compagna di stanza fosse
riuscita ad attaccare al seno il suo piccolo.
Non ci sono mai arrivata alla stanza 3.
È stato come avvertire un peso sulle spalle così pesante da non riuscire
a stare in piedi. Poi, la sua stretta intorno al collo ha iniziato a
togliermi l’aria.
“Procuramelo o ti ammazzo!”
Non riuscivo a rispondergli.
“Procuramelo o ti ammazzo!”
La verità è che non ho proprio capito cosa volesse, non conoscevo
quel farmaco o forse era lui che aveva storpiato il suo nome, l’unica
cosa di cui ero certa era che in quel reparto si trovavano solo mamme
e bambini appena nati.
Quando mi ha trascinata nella stanza degli infermieri ho sperato che la
presenza di qualcuno lo spaventasse, ma ci siamo ritrovati soli, io e
lui, io che singhiozzavo in cerca d’aria e lui che camminava in tondo
battendosi i pugni sulla testa.
Ho cercato di rialzarmi e di raggiungere la porta ma lui è stato più
veloce di me e mi ha scaraventata contro un mobile e poi ancora
contro il muro.
Non c’era bisogno di tutta quella forza, io sono solo una donna.
Non ricordo molto di quello che è accaduto dopo, so solo che non
riuscivo più ad aprire gli occhi.
Mia madre teneva ancora in braccio il primo bambino che avevo visto
nascere e mi sorrideva dicendomi di avvicinarmi ma che dovevo fare
piano.
Poi, qualcuno ha fatto il mio nome e ho sentito parlare di urgenza, sala
operatoria e di poco tempo a disposizione.
Non parlavano di un parto, di questo sono certa, perché per quelli non
bisogna mai avere fretta. È la prima regola: tutto accade esattamente
come deve...ma allora, se non c’era un bambino da fare nascere,
perché mi stavano tutti intorno?
Poi, l’ho capito.
Mi chiamavo Anna e di mestiere facevo nascere i bambini.
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