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LIQUIDAZIONE TOTALE


di Antonella Sica


Foto di Elina Krima da Pexels

L’ultima volta che era andata a trovare i suoi, sua madre le aveva dato un volantino pubblicitario di un mobilificio fuori città che liquidava tutto. Sara aveva bisogno di un armadio. Da quando lei e Michele si erano trasferiti nel nuovo appartamento, tenevano i vestiti su uno stand di alluminio, di quelli che si usano nei negozi per tenere in vista la merce. Avevano rimandato l’acquisto perché Sara non voleva comprare in quei negozi che promettono il mondo a prezzi stracciati. “Sembrano belli come i mobili di marca per i primi mesi” diceva a Michele “poi cominciano le prime magagne: si stacca qualche rifinitura qua e là, le ante non si aprono più bene e tu hai una casa che sembra una casa e invece è solo una cosa che non funziona!”

Per Michele non era così importante la storia dell’armadio. L’importante era che lei fosse contenta.

Ogni momento libero Sara lo dedicava al suo appartamento. Misurava, immaginava e più spesso di quanto Michele avrebbe voluto, cambiava la disposizione di tutti i mobili. L’unica cosa che Sara non toccava era un grande tavolo di legno intarsiato che le aveva regalato la Signora. Una grande fortuna per Michele visto che per spostarlo ci volevano almeno due uomini. Il tavolo era opera di un artigiano che lo aveva realizzato seguendo i gusti severi e un po’ barocchi di certa borghesia degli anni Cinquanta. La Signora non ricordava nemmeno come fosse capitato nella sua casa di campagna, ma quando si accorse della grande passione che suscitava in Sara non le parve vero di potersene liberare compiendo allo stesso tempo una azione generosa nei confronti della sua giovane e fedele donna di servizio. Chi entrava per la prima volta nell’appartamento era invitato dalla padrona di casa ad ammirare la grossa base a forma di anfora del tavolo e le ricche decorazioni floreali in bassorilievo che l'avvolgevano. Sara adorava quel tavolo e trascorreva volentieri del tempo a spolverare le decorazioni in rilievo con un fine pennellino.



“Più tardi potremmo andare a dare un’occhiata a quella liquidazione” disse Sara mentre sgombrava il tavolo dai resti del pranzo. Michele annuì, concentrato sulla radiocronaca della partita della Sampdoria. “Perché non vai di là a sentire la radio” aggiunse Sara aprendo il rubinetto “Faccio rumore con i piatti.” “Non importa” disse Michele ”Ti faccio compagnia”.


Appena salirono in macchina cominciò a piovere. Le strade brillavano sotto le luci gialle dei lampioni. Michele accese l’autoradio. Sara guardava fuori dal finestrino ascoltando distrattamente i commenti sulla partita. Pensava a come avrebbe voluto l’armadio. Ne aveva visti tanti sulle riviste che le regalava la Signora. Armadi le cui ante massicce scorrevano fluide sui binari, dotati di luci interne che si accendevano servizievoli al momento dell’apertura. Sara lavorava dalla Signora da quando aveva sedici anni. A casa erano sei fra fratelli e sorelle e il padre di Sara faceva il trasportatore, come Michele, suo marito. La madre faceva le pulizie presso alcune famiglie, ma i soldi non bastavano mai. Sara era l’ultima e non aveva mai avuto niente di veramente suo. Le scarpe e gli abiti che indossava erano già stati sformati dai suoi fratelli. Una volta, poco prima di lasciare la scuola per prendere servizio dalla Signora, si era lamentata di non poter avere uno zaino firmato come molti dei suoi compagni. Sua madre le aveva detto che lei e suo padre avevano fatto tutto quello che potevano per i figli, che lei non si comprava un vestito nuovo da anni per poterli mantenere dignitosamente. Sara aveva provato rabbia verso se stessa per aver costretto sua madre a dire quelle cose, ma quando aprì bocca per rispondere disse: “non è colpa mia se avete figliato come conigli” e se ne andò, lasciando sua madre impietrita sulla sedia della cucina. A sedici anni smaniava la sua indipendenza; una camera tutta sua, un paio di scarpe tutto per se, un cappotto nuovo.

Sara aveva conosciuto Michele in discoteca. Era un ragazzone silenzioso e gentile. Lei si persuase che l’estrema pacatezza dei suoi modi fosse manifestazione di una forma di determinazione, della capacità di ottenere qualcosa di più della vita a cui entrambi sembravano destinati. Comunque era molto diverso dai ragazzi rozzi e chiassosi che aveva conosciuto fino ad allora. Michele la faceva sentire speciale. Si sposarono appena fu possibile. Lui aveva ventiquattro anni. Lei ventuno.



L’entrata al mobilificio era preceduta da grandi cartelli pubblicitari. “Liquidazione Totale. Mobilificio Leone chiude.” La vista di quelle enormi scritte rosse procurò a Sara una leggera tachicardia ansiosa. Scese dalla macchina facendo bene attenzione a non sporcare il cappotto con il fango delle pozzanghere. Era un cappotto color cammello di ottima fattura che la Signora non metteva più; lo aveva leggermente modificato e ora le stava a meraviglia.

Sara si molleggiava ansiosa sui tacchi aspettando che Michele chiudesse la macchina. Lo osservava mentre le veniva incontro lentamente. Ma perché non si era messo la giacca blu che lei gli aveva regalato a Natale? Si ostinava a indossare quella vecchia giacca di pelle che aveva un aspetto così consunto! La giacca blu gli piaceva, le aveva detto, ma con la vecchia giacca di pelle si sentiva più a suo agio, soprattutto se non dovevano vedere nessuno e se ne stavano per i fatti loro. Michele la raggiunse poggiandole una mano sulla spalla con leggerezza. Le si accostava sempre con molta attenzione, quasi avesse paura di farle male.

Entrarono nel mobilificio guardandosi intorno per orientarsi. Molte delle pareti in cartongesso che dividevano in zone la vasta area espositiva, erano oramai a vista. Sara cominciò a seguire le indicazioni per il reparto notte. Superò velocemente il settore dedicato alle cucine per raggiungere un’area desolatamente vuota.

Un guardaroba mezzo smontato era l’unico indizio che avevano raggiunto il reparto destinato agli armadi.

Non era rimasto niente.

Sulle pareti erano visibili i segni del lavoro di dismissione. Qualche anta accatastata, buchi, sporcizia, mucchietti di chiodi ad espansione e cordini di plastica abbandonati sul pavimento.

Un commesso si avvicinò a Sara dedicandole una gentilezza ostentata. “Avete bisogno?”

“Cercavamo un armadio.”disse Sara

Il commesso abbassò leggermente la testa sorridendo compiaciuto “Guardi, con i prezzi che avevamo gli armadi sono andati via subito…”

Sara provò acuta antipatia per quell’uomo che sembrava quasi soddisfatto nel dirle che non aveva niente per lei. “Non importa, grazie. Tanto non avevamo fretta di comprare. Era così, per vedere” disse sorridendo “Facciamo un giro per dare un’occhiata”. E si voltò prima ancora che il commesso dicesse “prego”, invitandoli a proseguire.



Sara cominciò a vagare senza meta per il capannone. Il battito nervoso dei tacchi sul cemento nudo manifestavano la sua insoddisfazione. Una coppia di sedie accatastate in un angolo attirò la sua attenzione. Non che proprio le piacessero ma le aveva già viste sfogliando un numero speciale di Brava Casa dedicato ai mobili di design. Il sedile e lo schienale erano costituiti da piccoli dischi di pelle imbottita color fuxia. Mentre le guardava con attenzione, Sara cercava di immaginarsele nel suo appartamento. Certo erano un po’ strane ma potevano dare un tocco di originalità al suo arredamento. Sollevò il biglietto del prezzo che pendeva dallo schienale di una delle sedie. La scritta SCONTO DEL 50% era evidenziata con un arancione sgargiante, mentre sul prezzo originario di 800 euro, segnalato da un’etichetta con codice a barre, era stata fatta una grossa X con un pennarello nero. Il prezzo scontato era stato scritto a mano su uno spazio bianco dell’etichetta.

400 euro.

Ognuna.

Con lo sconto del cinquanta per cento quelle sedie costavano 800 euro.

E l’indicazione del nuovo prezzo, scritta senza cura con un pennarello, a Sara parve quasi offensiva.

Michele la raggiunse.

“Perché non andiamo a fare un giro da Ikea?”

Lei annuì ma era arrabbiata.

Michele lo leggeva chiaramente nelle piccole rughe che le serpeggiavano sulla fronte. Non disse altro. Le prese la mano e insieme uscirono dal capannone.

“È l’ultima volta che metti questa giacca” disse Sara tutto di un fiato. Da quando era salita in macchina non aveva aperto bocca.

“È sporca, consunta. Ti fa sembrare un barbone.” Aggiunse con cattiveria.

Michele non rispose.

“La devi smettere di trattarmi così. Ti sto parlando, perché non dici niente.” La voce di Sara si era fatta improvvisamente stridula.

“Perché non ho voglia di litigare” disse calmo Michele.

“Sono stufa della tua gentilezza del cazzo. Stufa. Mi tratti come un’idiota, non mi rispetti.”

Grosse lacrime le rigavano il volto.


Improvvisamente Michele accostò e scese dalla macchina sbattendo la portiera. Una pioggia finissima lo accolse, provocandogli un brivido di freddo lungo la schiena. Il pianto di Sara divenne irrefrenabile. “Bastardo” urlava “bastardo, sei uno stronzo bastardo”. Michele si allontanò per non sentirla e si accese una sigaretta. Sara lo seguiva con lo sguardo continuando a singhiozzare disperatamente. Michele camminava davanti ad un bidone dell’immondizia. Sembrava si sgranchisse le gambe. Ad un certo punto fece un tiro profondo trattenendo il fumo nei polmoni, gettò con decisione la sigaretta per terra, si tolse la giacca e la gettò nel cassonetto. Sara smise di piangere. Guardava Michele con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Scese dalla macchina e si mise a correre sotto la pioggia, aprì il bidone e riprese la giacca.

“Mi dispiace” disse “Mi dispiace davvero”.

Michele la guardava inespressivo. Lei gli afferrò la mano e cercò di tirarlo verso la macchina.

“Mi dispiace” disse ancora “Andiamo via adesso”. Michele si lasciò condurre alla macchina. Salirono e se ne rimasero un po’ lì, al buio. Ogni tanto Sara tirava su con il naso. Michele stringeva forte le mani sul volante e seguiva con lo sguardo le luci delle macchine che li superavano deformate dalle gocce d’acqua che scorrevano sul vetro. Cercava di concentrarsi sul rumore ripetitivo dei pneumatici che scivolavano sull’asfalto bagnato. Per calmarsi.

Sara prese la giacca e la ripose con cura sul sedile posteriore, aprendola per farla asciugare. Senza dire una parola Michele mise in moto e riprese la strada.

Entrarono da Ikea che mancava un’ora alla chiusura. Mentre salivano le scale d’ingresso Michele prese la mano di Sara e la strinse leggermente, ma non la guardò. Insieme si incanalarono fra i reparti, senza cercare niente di particolare ma con la speranza di trovare qualcosa. Anche il figlio della Signora, Massimiliano, il più giovane, aveva arredato casa con mobili Ikea. La settimana prima la Signora aveva chiesto a Sara di dare una sistemata all’appartamento del figlio. La sera avrebbe fatto una festa con gli amici per festeggiare la laurea. La casa era veramente carina, e tutta arredata con mobili Ikea! Tranne l’armadio e il letto, naturalmente. La Signora le aveva detto che i mobili Ikea erano carini per la casa di un giovane, ma l’armadio e il letto sono cose importanti e non bisogna badare a spese. Quando Massimiliano era andato a vivere da solo in uno degli appartamenti di proprietà della madre, la Signora gli aveva regalato un bellissimo armadio e un letto con un materasso in puro lattice, di ottima qualità. Sara si chiese per quanto tempo i mobili Ikea sarebbero stati adatti per Massimiliano e quando sarebbe venuto il momento per lui di cambiarli.

“Che belli questi bicchieri colorati. Ti piacciono?” disse Sara. Michele prese il bicchiere che Sara gli porgeva, un calice rosso, e lo rigirò fra le mani, guardando l’immagine deformata della moglie attraverso il vetro.

“Sì, sono carini. Vuoi prenderli?”

“Davvero ti piacciono?”

Michele annuì “prendili.”

Sara gli sorrise. Scelse sei bicchieri e li infilò con cura nella scatola di imballaggio, poi prese a braccetto suo marito e si alzò sulle punte dei piedi per raggiungere la sua guancia e dargli un bacio. “Grazie, amore”.


Michele rispose, suo malgrado, con un sorriso tirato, di cui Sara sembrò non accorgersi. Girarono ancora per un po’ comprando piccoli oggetti per la cucina; uno spremiaglio, un macina spezie, un cucchiaio per il gelato. Alle otto meno dieci una voce dall’altoparlante avvertì che Ikea era in chiusura. Mentre Michele faceva la coda per pagare, Sara comprò un sacchetto di patatine e un paio di birre svedesi nel reparto gastronomia. Uscirono abbracciati, Sara appoggiava la testa sotto la spalla di Michele, aggrappandosi al suo braccio come arresa, senza pensare a niente.


Entrarono in macchina e uscirono dal parcheggio. Per qualche minuto non parlarono, concentrati sulla lunga coda di automobili che avanzava lentamente nel traffico.

“Chissà se arriveremo in tempo per il telegiornale” disse Michele.

“A che ora parti domani?”

“Alle cinque. Porto un carico a Benevento. Torno dopodomani” Michele strinse forte le grosse mani sul volante.

“Che ne dici…Ci mangiamo le patatine?” disse Sara aprendo il sacchetto.

“Perché no! La birra e abbastanza fresca?”

“Sì. Si può bere”

Mangiarono le patatine con la birra mentre avanzavano a passo d’uomo nel traffico del rientro domenicale. Finalmente raggiunsero il semaforo dell’incrocio che rallentava il transito delle automobili. Sara guardava fuori dal finestrino. Mentre la macchina ripartiva il suo sguardo venne attratto da una donna rimpicciolita dalla vecchiaia. Infagottata in abiti approssimativi, se ne stava quasi appallotolata sullo scomodo sedile di una pensilina, in attesa del tram. Sola. Sara si strinse nel cappotto abbassando lo sguardo, riempiendosi gli occhi con il lembo di sciarpa rossa che le pendeva dal collo, ma l’immagine della vecchia, l’evidenza di quel volto segnato dal quotidiano, le piccole mani tozze strette sulla borsetta, persisteva immobile sulla retina. Chiuse con forza gli occhi fino a quando non riuscì a trasformare l’ombra della donna in una innocua macchia senza contorni.


Aprì gli occhi e guardò Michele. Lui non fece niente, immobilizzato da quello sguardo famelico, pieno di richieste senza nome. Avrebbe potuto poggiarle una mano sul ginocchio, per consolarla. Ma non lo fece. Lei voltò lo sguardo verso la strada. “Adesso si va più veloci” disse “Fra qualche minuto saremo a casa”.

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