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  • Immagine del redattoreRedazione TheMeltinPop

La stanza che non c'è




di Miriam Sassani


La piccola sala da tè, con le pareti dai colori pastello, una diversa dall'altra, era in penombra e al suo interno si sentiva solo un brusio indistinto. All'ingresso, poco più largo di un corridoio, un lungo bancone addossato alla parete sorreggeva i recipienti in vetro colmi di decine di qualità di tè, tisane, caffè, provenienti da ogni parte del globo, o almeno così lasciavano intendere.

Il mobilio povero, recuperato e portato a nuova vita con una semplice mano di pittura, accoglieva i visitatori insieme ad una ricca collezione di vinili che, più del tè, attiravano gente alla ricerca di un passato prossimo e tuttavia perso per sempre, nella speranza di rivivere, sia pure solo durante il tempo di ascolto di un vecchio LP, atmosfere di una parte di vita trascorsa.

In quel posto un po' strano e vagamente misterioso, quasi fuori dal tempo e dallo spazio, avevo appuntamento con mia madre e la aspettavo con un infuso caldo tra le mani.

Non la vedevo da anni, da quando avevo deciso di scappare da quella piccola città che mi aveva reso claustrofobica con le sue chiusure mentali, con le sue miserie di provincia, con il suo interesse per l'apparenza e la sua smania di apparire.

Da ragazzina non avevo mai fatto capire a mia madre quanto avessi bisogno di lei, anzi. Le avevo sempre contrapposto quello che io chiamavo la mia libertà, senza comprendere che tutto ha un prezzo, tutto si paga, e che in quel caso il prezzo era la solitudine delle radici, come una pianta strappata dal suo giardino e rinvasata in un recipiente di terracotta troppo piccolo, con le radici che si arrampicano fino ai bordi per prendere aria. Quando avevo rinvasato me stessa non avevo pensato alla misura del vaso, che non faceva arieggiare a sufficienza le mie radici.


In quel periodo ero stata costretta a tornare in quel paesone con velleità di città per mettere a posto questioni economiche o, come diceva mia madre, "per parlare di soldi".

"Ciao Pietro!"

"Adriana, che piacere, sei sempre la benvenuta!"

Mia madre era arrivata, aveva salutato il proprietario e la sua voce squillante insieme al suo profumo ne annunciavano l'arrivo a me e alle altre persone sedute ai tavolini di legno grezzo.

Come sempre, mia madre non passava inosservata e anche a settant'anni monopolizzava l'attenzione, come quando da bambina la osservavo mentre si truccava e, dietro le mie insistenze, faceva finta di passarmi il mascara sulle ciglia.

Avevo dovuto prendere le distanze da lei e dal suo mondo, e fino al quel momento ero convinta di esserci riuscita, di aver vissuto una vita vera solo mia. Appena la vidi, le mie certezze crollarono e ritornai ad essere la bambina insicura che venerava la bellezza, il fascino e le capacità affabulatorie di sua madre.

"Lisa, amore, finalmente! “ mi salutò.

" Ciao mamma... "

" Non puoi immaginare il traffico che c'è per arrivare fin qui, sembra che tutti gli abitanti di questa città siano usciti nello stesso momento per andare nello stesso posto!"

Non ci vedevamo e non ci parlavamo da anni, a parte gli striminziti messaggi di auguri in feste e ricorrenze varie, e lei si rivolgeva a me come se ci fossimo viste il giorno prima per fare la spesa insieme.

In quei tanti anni di lontananza, che sembravano una manciata e che in realtà erano quasi dieci, le avevo scritto centinaia di lettere, ma non ne avevo spedita nemmeno una. Avevo pensato ogni sera di telefonarle per raccontarle di me, della mia giornata, dei miei umori e dei miei amori, delle mie insicurezze, ma non l'avevo mai fatto. La paura e l'invidia me lo avevano impedito. Pensavo che solo la distanza, solo il distacco fisico ed emotivo mi avrebbero consentito di vivere senza sentirmi giudicata e continuamente paragonata a mia madre.

O almeno, era quello che pensavo.

Non c'ero riuscita, rimanevo convinta che mia madre avesse tradito, con il suo mancato inquadramento nel ruolo sacro, le mie legittime aspettative di figlia ed io volevo punirla con la mia assenza, volevo che soffrisse come avevo sofferto io nel non trovarla in ogni momento in cui ne sentissi il bisogno. Io la conoscevo bene, più di chiunque altro, più di mio padre che la idolatrava, più del suo ambiente che la ammirava sempre e comunque. Solo io sapevo di che pasta era fatta, solo io riconoscevo le sue piccole meschinità, il suo voler piacere a tutti e a tutti i costi, solo io percepivo il suo egoismo mascherato da finta generosità, pronta com'era a defilarsi alla prima concreta richiesta di aiuto.

Me ne ero andata anche per lasciami alle spalle tutta quella ipocrisia, e per arginare la marea di sofferenza ero diventata un'esperta di storie d'amore a lieto fine: bastava concludere una relazione al momento giusto, scappare quando tutto andava bene e il desiderio dell'altro era al massimo.


"Allora, come stai? Sei bellissima....".

La voce di mia madre mi riscosse dal vortice di pensieri che mi aveva avvolta. Le sorrisi.

"Grazie mamma, sto bene e anche tu sei in gran forma, come al solito."

Lei finse di schernirsi, ma in realtà adorava i complimenti. Mi sorrise a sua volta, inclinando leggermente la testa da un lato, irresistibile come sempre, come quando da piccola mi chiamava se aveva bisogno di qualcosa, che so, una piccola commissione, un cioccolatino, un tè. A volte, per sfuggire a lei e alle sue richieste, mi nascondevo nella stanza che non c'è. Poteva essere un posto qualsiasi, dentro l'armadio, sotto il letto, nello sgabuzzino: era il mio luogo segreto, scintillante di luci e con un divano enorme solo per me, per guardare i cartoni alla tv. Ancora oggi, quando voglio sottrarmi al mondo, mi chiudo in me stessa e immagino una sala di lettura, una spiaggia deserta, una Spa, un bosco profumato. Allora volevo essere, e diventare, invisibile. Ancora oggi, a volte, voglio essere, e diventare, invisibile. Ma, qui e adesso, chi è mia madre, chi è la donna che mi ha messo al mondo e che mi ha sempre detto di amarmi sopra tutto? Come faccio, oggi, a diventare adulta, a staccarmi da lei, ad esistere senza di lei? Forse, dopo aver distrutto il suo totem, considerandola un essere umano, fallibile come tutti? Forse abbracciandola per fondermi con lei in un unico essere?

Mio malgrado, richiamata da mia madre, stavo compiendo questo viaggio all'indietro con l'obiettivo di fare pace con lei e soprattutto con me stessa, di lasciare che le cose accadano e al tempo stesso non smettere di cercarle, fare attenzione alle piccole cose che succedono e che, più degli tsunami, segnano e indirizzano la nostra vita.

Sulla mia pelle stavo capendo quanto sia difficile entrare nella vita dei figli in punta di piedi, quanto sia complicato fare un passo indietro quando vorresti entrare a gamba tesa. Sulla mia pelle di madre, segnata e guarita dai figli.




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