di Arianna Destito
Fino a che punto si può sopportare?
C'è un limite alla tolleranza?
Esiste un segnale, un gesto o una parola in codice per dire che il gioco è finito?
Quella mattina ero uscita più tardi del solito. Avevo aspettato che lui se ne andasse sbattendo la porta, come sempre. Mi ero infilata nel trench nero e avevo stretto in vita la cintura, avevo sceso i cento gradini con fatica, una pesantezza che mi sentivo addosso da tempo, come se i miei piedi e le mie gambe fossero fatti di pietra. Giravo per il centro storico in cerca di qualcosa che rendesse giustizia a quella giornata, o forse a tutta la mia vita. Da troppo tempo ristagnava in quella casa sospesa tra i vicoli, un groviglio labirintico che può proteggere in caso di fuga, ma anche intrappolare se non sai trovare la direzione giusta. E non puoi trovarla finché non la cerchi. Questa era l’ultima volta, e non sarei andata oltre. Dicevo sempre così.
Ma ero davvero arrivata al limite.
Il cielo plumbeo appesantiva i miei pensieri e improvvise e spesse gocce di pioggia iniziarono a cadere e a colpirmi la testa come per scuotermi. Un ratto grigio e stanco era spuntato dalla crepa di un caruggio sporco e puzzolente di piscio e mi stava tagliando la strada. Sembrava incerto su quale direzione prendere. Di sicuro c’era cascato: aveva divorato un'esca avvelenata. Fesso. E ingordo. Mi faceva quasi pena. Dalla repulsione di essergli così vicina mi formicolavano i piedi negli anfibi. Diedi un colpo secco a terra con lo stivale per farlo allontanare ma con scarsi risultati.
Se ne stava lì, intontito. Come se nulla fosse. Gli passai accanto, aveva delle chiazze su tutto il corpo come se gli avessero scorticato la pelle. Morire avvelenati deve essere una vera tortura.
Mi trovai senza accorgermene in via San Bernardo, all’altezza della drogheria Torielli, dove gli odori dei vicoli si trasformano improvvisamente in profumi speziati di curcuma, sandalo, curry, maggiorana, mirra e ambra. Fu lì, in mezzo a quei profumi che effondono qualcosa di magico nell’aria, che accadde qualcosa. Mi fermai proprio davanti alla vetrina e vidi la mia immagine riflessa. Rimasi bloccata, incredula.
La donna che mi stava di fronte non ero io. Feci un balzo indietro. Scrollai la testa e cercai di mettere meglio a fuoco. In pochi attimi tutto intorno si era fatto scuro e la scossa elettrica di un fulmine scaricò la sua energia vicino, molto vicino, e lo schianto del tuono mi rimbalzò nelle viscere.
Mi specchiavo nella vetrina della drogheria più antica di Genova e vedevo il volto di mia nonna Apollonia. Capelli neri come la pece raccolti e ondulati. I grandi occhi scuri da donna del sud, così diversi dai miei verde acqua, mi guardavano con severo cipiglio, come a volermi redarguire e comunicare che era finalmente giunto il momento.
“Cosa aspetti?”
In quell’istante tutto mi fu chiaro. Mi sarei salvata la vita con una cena. Ne sarei uscita vincitrice, dopo anni di soprusi e vessazioni. Dopo l'umiliazione di non essere creduta da nessuno, nemmeno da chi avrebbe dovuto salvarmi da quelle violenze. Se ne deve andare, dicevano gli esperti. Come se non ci avessi provato. Mi era costato un pugno in piena faccia, due denti rotti e una mandibola lussata che mi duole ancora adesso quando cambia il tempo. Bella roba. Sono tutti bravi a dare istruzioni quando si tratta della vita degli altri.
Spalancai la porta del negozio ed entrai nella piccola drogheria dove il tempo sembra essersi fermato. Mi sentivo forte e combattiva e cominciai a fare la spesa per la cena. Avrei preparato la specialità di nonna Apollonia: la pasta ripiena, come lei chiamava il timballo al forno calabrese. Certo, avrei operato qualche piccola variante. Dettagli di poco conto, anzi un solo dettaglio: l'ingrediente speciale. Quello lo avrei aggiunto io. E non potevo certo acquistarlo in drogheria, dovevo rivolgermi al vicino emporio-ferramenta, dove si trovava di tutto. Anche l’ingrediente speciale.
L'immagine del ratto barcollante era stata una suggestione troppo ghiotta per lasciarmela sfuggire.
In un solo colpo avrei steso il mio aguzzino e reso felice mio marito con una delizia gastronomica. Del resto, non si dice che gli uomini vanno presi per la gola?
Solo l'idea mi aveva euforizzato l'anima. Sentivo gorgogliare le bollicine, come fosse una flûte di champagne. Mi muovevo leggera per i vicoli, del tutto indifferente a quella pioggerella fastidiosa che non sapeva decidersi se scrosciare in un acquazzone o restare a punzecchiarmi i capelli e i pensieri.
Avevo fatto la spesa nei migliori negozi del centro storico. Per ultima comperai la passata di pomodori dai due fratelli di via San Bernardo. "Come stai bene oggi", mi dissero entrambi.
È sorprendente come solo l'idea del cambiamento regali una nuova luce. Portavo i sacchetti della spesa con una levità che non avevo mai provato prima, almeno negli ultimi anni. Da quando lui si era trasformato in una bestia. Non era più l'uomo che avevo amato. Chi avessi amato non lo sapevo più.
Ci sono storie che cambiano rotta senza che tu te ne accorga. Il tempo d’un respiro e ti ritrovi stropicciato in un rapporto consumato da troppe centrifughe. Non ne potevo più di giustificare e di attendere che lui tornasse in sé. Non c’era speranza, più aspettavo e più lui sembrava mettermi alla prova.
Detestava vedermi felice. Detestava vedermi ridere. Detestava vedermi.
Voleva trascinarmi nel suo vortice delirante di angoscia, violenza e frustrazione. All'inizio pensavo che la sua cupezza fosse dovuta al tormento per la sua arte. Quella che diceva di coltivare in segreto. Aveva molti talenti, questo è vero, ma tutti sprecati, senza nessuna volontà di metterli a frutto. L'ultimo era quello della scrittura. Da tempo teneva un manoscritto nel cassetto. “Lavoraci sopra”, gli dicevo, “mostralo a qualcuno. Ora tutti pubblicano romanzi, è il momento buono!”
“Ma cosa vuoi saperne, tu che non capisci un cazzo”.
Liquidava tutto così.
Già, non avevo capito. Fortuna che ora era tutto limpido come l'acqua di una sorgente.
Sul tavolo di cucina avevo disposto gli ingredienti che mi servivano. Sul fuoco la passata di pomodoro doveva cuocere per mezz'ora buona, come raccomandava nonna Apollonia. Nel frattempo, avevo fritto le polpettine. Il profumo di cibo che si propagava per casa era rassicurante. La discreta rappresentazione d’una famiglia felice.
Avevo preso la teglia rotonda e dopo un primo strato di sugo ne adagiai uno di pasta, pennette rigate molto al dente, e iniziai il rituale ossessivo della nonna: posizionai a eguale distanza una polpettina, un pezzo di provola, una fetta di prosciutto cotto e un quarto di uovo sodo; sovrapposi un altro strato di pasta e così via, fino all’ultimo ripiano. Ricoprii il tutto con altro sugo di pomodoro e molto parmigiano. Prima di inserire la teglia nel forno introdussi le mie varianti, spolverai un po' di spezie sulla pasta, che aveva ormai tutte le sembianze di una torta, ma soprattutto distribuii con parsimonia l'ingrediente speciale. Chiusi lo sportello e programmai venti minuti di cottura.
Era fatta. Era quasi pronto.
Non restava che apparecchiare. Avevo usato i piatti più belli di porcellana inglese blu e bianchi e sistemato in tavola le posate d'argento, quelle grandi; lui non le avrebbe nemmeno notate, ma facevo tutto per me, e ogni cosa doveva essere perfetta. I bicchieri per l’acqua, i calici da vino e la caraffa di cristallo.
A un tratto sentii la chiave nella serratura e la porta si aprì. Di solito, dal modo in cui entrava in casa, capivo subito di che umore fosse. E qualcosa mi disse che quella sera non sarebbe andato tutto come avevo previsto.
"Prego si accomodi."
Stava parlando con qualcuno. Non era mai successo. Non aveva amici, non frequentava nessuno. Chi poteva essere?
"Tesoro, sono a casa, abbiamo un ospite a cena".
Doveva essere davvero una persona importante, e quando voleva lui era bravo a fingere modi gentili e cordiali che non gli appartenevano; del resto, anche Jack Torrance in Shining chiamava la moglie “tesoro”. Di cosa mi stupivo?
Il panico si impossessò di me e le gambe iniziarono a tremare. Rivolsi l'attenzione al forno e a quello che stava cuocendo. Dovevo fare subito qualcosa.
"Che profumino. Non mi dire che hai preparato da mangiare! Sarebbe un evento. Sa, mia moglie non cucina mai, è una pessima donna di casa".
Ovvio, del resto, secondo lui cosa sapevo fare?
"Ti presento l'editore. Forse pubblicherà il mio manoscritto. L'ho convinto a fermarsi a cena per parlarne" disse con aria tronfia, come se avesse già in saccoccia il contratto.
"È una notizia fantastica! Perché non mi hai avvisato prima?" replicai prendendo tempo e aggiustandomi gli occhiali che mi erano scivolati sulla punta del naso.
Dovevo trovare al più presto una soluzione a una situazione che si stava facendo molto complicata.
"E a cosa sarebbe servito? Come cuoca non sei un gran che e anche per il resto..."
Se la ghignava da solo, come se avesse fatto la battuta del secolo, cercando con lo sguardo la complicità dell'editore che non sembrava molto convinto di assecondarlo.
"Adoro deluderti" sussurrai a denti stretti, mentre barcollavo e cercavo appoggio al tavolo.
L'editore si avvicinò e mi fece sedere.
"Si sente bene signora? Mi sembra provata."
Sono anni che sono provata, sai che novità, avrei voluto rispondere. Invece dissi: "Non è niente, solo un capogiro, soffro di pressione bassa."
" Senti senti: una volta tanto che cucini e fai la brava massaia ti piglia pure male?”
Quel tono sarcastico, preceduto dal ghigno che conoscevo bene, mi fece ribollire il sangue. Ma avevo imparato a mantenere la calma mentre dentro le viscere tremavano di rabbia.
"Non si faccia impressionare. È sempre così» disse rivolto all’editore per fare lo splendido. “Sa come sono le donne.”
"Come sono le donne?" chiese l'uomo, visibilmente seccato.
"Isteriche. Pazze. Mia moglie è più donna delle altre. Ogni tanto fa un po' di sceneggiata. È per attirare l’attenzione, vero, amooore?"
Pronunciò quella parola con il tono di chi avrebbe voluto uccidermi.
Il timer del forno trillò e attirò la sua attenzione.
Ecco, ora ero davvero fottuta.
Mi avvicinai lentamente allo sportello. Con le presine di silicone afferrai la teglia ancora rovente.
Non mi restava altro che un’unica mossa, far precipitare rovinosamente la preziosa cena sul pavimento. Era l'unica soluzione. La mia liberazione avrebbe dovuto attendere.
Restai per un attimo immobile, tra le mani la teglia che emanava un profumino invitante. Il mio sguardo rimbalzava dall’editore a mio marito. Eravamo tutti e tre in piedi come se aspettassimo che accadesse qualcosa, senza sapere che cosa.
Stavo per muovermi e buttare tutto all’aria quando mio marito sbottò di colpo.
"Cosa diavolo stai aspettando? Sei cretina? Vuoi forse rovinarmi la serata e la vita? Non vuoi che pubblichi, che diventi uno scrittore? Avanti, ammettilo che ti dà fastidio l’idea che io abbia successo!"
La sua voce cresceva in un delirio cieco di furia.
"Ora basta!” lo zittì l'editore. “Non intendo ascoltare oltre. Che modi sono di trattare sua moglie, non si vergogna? E poi si metta in testa una cosa: il fatto che io decida di pubblicarla, non l'autorizza a pensare d’essere diventato uno scrittore. Non basta pubblicare un libro per esserlo. Bisogna farne di strada e non pare che lei abbia l’umiltà di capirlo. Comunque, più la conosco e più mi pento di averla assecondata."
"Veramente, mi era sembrato..." attaccò a balbettare.
"Le era sembrato cosa? Sono mesi che mi perseguita col suo manoscritto. Oggi è piombato in redazione e mi ha supplicato di seguirla fin qui, a casa sua. È stato un grave errore, sa? Per quanto mi riguarda, ho visto e sentito abbastanza. Un uomo che si comporta in questo modo non merita alcuna attenzione. La saluto”.
Girò i tacchi e si diresse verso la porta di casa mentre mio marito continuava a imprecare contro di me e contro il mondo intero. Appoggiai d'istinto la teglia fumante sul tavolo, afferrai il trench nero al volo e mi precipitai giù per le scale dietro all’uomo. Una volta fuori, nel vicolo sotto casa, lo raggiunsi per ringraziarlo. Stava nervosamente accendendo una sigaretta.
"Non deve ringraziarmi. Piuttosto, come fa a sopportare quel troglodita?"
Non sapevo cosa rispondergli e, dal silenzio e dall’espressione del mio viso, lui capì che non doveva chiedere altro.
"Del resto, avrei dovuto intuirlo subito: quando veniva nel mio ufficio, in via Priaruggia, la Lilla gli ringhiava contro. I cani le sentono certe persone. Non so come ho fatto a farmi infinocchiare”.
“Pensi che a me ha infinocchiato per anni. Forse avrei dovuto prendere un cane.”
“Per fortuna non gli ho pubblicato nulla, sai che palla al piede? A proposito, non è che a lei andrebbe di scrivere? Si, insomma, di raccontare una storia? La sua storia?"
"Ne avrei da scrivere..."
“E dunque, cosa aspetta? La mia porta è sempre aperta.”
“Non ci ho mai pensato, nella vita mi sono sempre occupata di mio marito…”
"Ragione di più per allargare i suoi orizzonti. Pensi se scrivesse come cucina…” Rimase qualche secondo in silenzio, assorto nei suoi pensieri. Quindi domandò: “A proposito, mi tolga una curiosità. Cosa c'era in quella teglia? Mi ha stuzzicato un appetito che non immagina."
"Una specialità di mia nonna Apollonia: la pasta ripiena"
"Accidenti! Dev’essere davvero buona."
"Da morire."
Il racconto La pasta di nonna Apollonia fa parte della terza antologia di racconti in memoria di Marco Frilli, Tutti i sapori del noir (FratelliFrilli editori) con la prefazione di
Maurizio de Giovanni
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