L'AMICO AMERICANO.
STORIE D'OLTREOCEANO
di Emanuele Pettener
Ero giovane, studiavo negli Stati Uniti da oltre un anno, e seguivo questo corso: “The novelist as intellectual”. Fra i libri da discutere, ricordo una raccolta di saggi di Baldwin, una di Joan Didion, un paio di romanzi pallidi, la traduzione inglese di Respiracion Artificial di Ricardo Piglia e dei racconti di Borges.
In classe c’era una signora irlandese, poteva avere 70 anni, più facilmente 75: era bianca, tutta bianca, i capelli candidi e il sorriso dolcissimo e mansueto, e le guance paffute erano rosa come un fiore di pesco sulla neve. Aveva una figura in carne ma senza curve, vestita spesso con lunghi grembiuli a fiori, e un indimenticabile accento britannico. Era una nonna, corporea e incorporea, poteva essere Miss Marple, chi lo sa, e aveva idee sulla letteratura assolutamente antiquate e mi piaceva enormemente, ne ero ipnotizzato: era la nonna vittoriana che avevo sempre sognato.
Per lei la letteratura doveva proporsi uno scopo morale – doveva avere un messaggio – e un libro senza un insegnamento morale, dotato di personaggi immorali, rifletteva automaticamente un autore immorale. Mi faceva impazzire. Rispondevo che la letteratura doveva essere assolutamente amorale, non proporsi uno scopo morale né nessun altro che non se stessa, che un qualsiasi fine didattico – qualsiasi tesi morale, religiosa, politica eccetera – rovinava inevitabilmente l’opera d’arte, e che infine giudicare la moralità di un autore dai propri personaggi significava giudicare Shakespeare cattivo perché aveva creato Iago. Se avessi avuto vent’anni, o se lei avesse avuto vent’anni, l’avrei distrutta col fiele del mio sarcasmo più crudele, con l’arroganza spietata che si ha quando si è giovani, o nei confronti dei giovani. Ero invece delicato, temevo di offenderla anche minimamente – era la mia nonna irlandese, del resto, mica potevo pigliare mia nonna a pesci in faccia – e poi il suo sorriso soave, quasi ferito che il suo nipotino si macchiasse d’immoralità filosofica, mi squagliava il cuore. Ma soprattutto: gli anni erano passati, avevo smaltito la rabbia dell’adolescenza, e proprio la letteratura (assieme a qualche sano sberlone assestatomi dalla vita) aveva medicato la mia arroganza e mi aveva insegnato l’importanza del rispetto.
Infatti, non ho cambiato idea sul fatto che la letteratura debba essere scevra da intenti pedagogici, coloriture sociologiche, scopi educativi. E tuttavia ora aggiungerei: tutta la letteratura, quando è veramente tale (e per essere veramente tale, uno dei punti di partenza è non imporre un qualsivoglia messaggio) può diventare implicitamente insegnamento morale. Ovvero, per dirla in soldoni, ci dà l’opportunità di migliorarci come esseri umani. Frequentare la letteratura, soprattutto da lettori, ci dovrebbe rendere meno vili, più nobili. E cercherei di addurre almeno due motivi per ciò. In primo luogo, la letteratura necessita e forma un habitat che induce a un confronto con la nostra coscienza. Avvicinarsi a un’opera d’arte significa isolarsi, ritrovare solitudine e silenzio. La letteratura non ammette il fracasso della vita moderna. Significa quindi rallentare, riabituarsi ad altri modi e ad altri tempi, ampie porzioni di giorni o notti in cui possiamo tornare a discutere a meditare, riflettere, addirittura perdonare (noi stessi e gli altri). In secondo luogo, la vera letteratura ci dà modo di capire meglio gli altri e noi stessi. I buoni libri ottengono un effetto morale a prescindere dall’intento. Presentandoci deliziosi inferni, ce ne rendono consci e pronti a combatterli. Il più antivittoriano dei romanzi, Il Ritratto di Dorian Gray, ha una morale bella e buona (Oscar diceva che era l’unico difetto del libro). Con Iago, Shakespeare ci fa un ritratto così spaventoso e profondo dell’invidia, che non si può non desiderare altro che essere il più possibile diversi da Iago (soprattutto nel momento in cui si capisce che Iago potenzialmente è dentro ciascuno di noi).
Ad ogni modo, ieri sera vado a messa, e chi ti trovo? La mia amica irlandese! Eran quindici anni che non la vedevo! Francamente credevo fosse morta, invece non è morta: s’è trasferita a Philadelphia. È uguale uguale a 15 anni fa, dal che deduco che allora ne aveva 60 portati malissimo o adesso ne ha 90 portati benissimo, o semplicemente è un personaggio immaginario immaginato da qualche poeta celtico, una nonna candida e immortale e quindi senza età, e infatti dopo che l’abbraccio mi presenta suo marito, e anche lui appartiene evidentemente alla mitologia irlandese, è stupendo, occhi azzurro cielo, rughe scolpite, sembra Beckett. Gli chiedo: “Anche lei è irlandese?!” Mi risponde serafico, con voce da mago: “E chi non lo è?”
[Originariamente pubblicato sul blog “Priamo” il 10 febbraio 2015]
Emanuele Pettener, nato a Mestre, insegna Lingua e Letteratura italiana alla Florida Atlantic University (Boca Raton, Florida), dove nel 2004 ha conseguito un Ph.D in Comparative Studies. Ha scritto numerosi articoli e racconti apparsi su riviste statunitensi e italiane. È autore dei romanzi È sabato mi hai lasciato e sono bellissimo (Corbo, 2009), Proust per bagnanti (Meligrana, 2013), Arancio (Meligrana, 2014), e Floridiana (Arkadia, 2021). Ha pubblicato il saggio Nel nome del padre del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante (Cesati, 2010) e, in inglese, la raccolta di brevi racconti A Season in Florida (Bordighera Press, 2014, traduzione di Thomas de Angelis).
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