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L’ultima notte di Alejandra





di Antonella Grandicelli


Spazio complesso, è la notte. L’aria ha fragranze di menta, di polvere, di gesso. Alejandra lo sente in bocca quel sapore e si passa la lingua sulle labbra, rapida come il volo di un passero. Adesso sono umide e può provare a fare un sorriso senza paura di strapparle. Ci prova, ma non è come quello che sperava. È una luce fioca che non riesce ad illuminare un desiderio di domani. Non riesce.

Alejandra la abita, la notte, da innumerevoli respiri e la conosce bene. Sa guardare in faccia ogni luna pallida che l’accompagna, un quarto, tre quarti, intera come una fetta rotonda di banana. Sa riconoscerne l’impronta in certe ombre velate agli orli, al centro profonde come laghi senza fondo. La notte ha bisogno di Alejandra e lei della notte. Gli amori si confessano così, nel puro bisogno. E lei lo sa.

Oggi è uscita dalla stanza dell’ospedale proprio per quello, per averne ancora una volta il gusto secco tra le gengive, tra i denti, per poterne spremere il succo esile tra le dita e macchiarsele così di quel buio che è finestra, stupore, irascibile rassegnazione. Ha fatto su i suoi vestiti, dentro c’era ancora la puzza del dolore, sudore di abbandono dopo fuochi di trincea. Non ha detto nulla al dottore, all’infermiera docile e severa, alla compagna con cui divideva le sigarette. Non ce n’è stato bisogno. A loro aveva già detto della notte, dell’amore, di quella gabbia insolente che è la luce del giorno, che è la vita. Loro sapevano che il suo era come tutti gli amori, osteggiato. Ha lasciato qualche parola seminata tra le lenzuola, così, per riconoscenza. La parola, fuori dalla notte, è solo moneta, baratto. Nell’oscurità diventa essenza, presenza, maternità. In questo modo ha lasciato quel ricovero fatto di promesse, che tutti sanno insincere, ma che sentono l’obbligo di fare. Guarirai Alejandra, sì guarirò. Ma chi vuole davvero guarire dall’amore? Chi vuole rinunciare ad affondare le proprie mani, il collo, il respiro nell’abbraccio che da sempre sogna, nel corpo che da incalcolabili passati anela? Alejandra ama la notte e nella notte ama. Per questo il portone a vetri smerigliati si è aperto al suo passo senza opporre resistenza. E il portinaio non l’ha fermata.


L’odore di chiuso è come un’assenza d’aria, come un ritratto privo d’espressione. Alejandra è entrata in casa e ha percepito subito che ogni cosa in essa l’aveva già data perduta. Sul tavolo un rosa di cipria sottile, sulle pagine spalancate dei quaderni, limatura delle ossa fragili dei giorni, passati senza la dittatura della sua forma vagante fra le stanze. In una ciotola sul lavandino, la faccia raggrinzita e stanca di una mela tagliata a metà.

Dalla finestra aperta un dolce fiatare di primavera ammorbidisce l’aria, inumidisce la stanza fino a farla lucida. Una stagione per sciocchi, la primavera, per uomini illusi che la memoria sia un campo da cui sradicare resti marci di passate verità per crescere nuovi raccolti. Trattiene il respiro, perché sa che quell’inutile sperare avvelena. Si siede e con gesto lento della mano libera la pagina da quel sonno di filigrana. La libera e la lascia a sé, tiene lontano le parole questa volta, non cadrà nella trappola: nessuna poesia la prenderà per mano, nessun indicibile segreto da raccontare con segni che sono capocchie di spillo, zampe d’uccello, crepe nel muro della sua solitudine attenta. L’ultimo bicchiere di vino le accompagnerà mute dentro alla sua gola, le impasterà con l’amaro gesso di complici pillole, le ridurrà a vaghe sembianze di volti. Così aspetterà Alejandra, ingoiando poesie mai scritte, cullandole nel sarcofago di un respiro quieto fino all’invisibile, chiudendo le palpebre sulla vita, dandosi intera alla notte.



 


Alejandra Pizarnik nasce a Buenos Aires, nel quartiere dell’Avellaneda, il 29 aprile 1936, figlia di immigrati ebrei di origine russa. Quella di Alejandra, il cui vero nome è Flora, è un’infanzia difficile, tormentata dai numerosi problemi: l’asma, la balbuzie, la sofferenza nel vedersi preferita la sorella maggiore e l’angoscia che la presenza delle ombre dei familiari morti nei campi di concentramento le conduce.


Giunta all’adolescenza il suo disagio s’intensifica: l’acne e la tendenza ad ingrassare ne fanno un oggetto di scherno da parte dei compagni e la portano al rifiuto del proprio corpo. Appaiono in questo periodo i primi cenni di quella depressione che non l’abbandonerà mai. Nel 1954 comincia gli studi universitari di Lettere e Filosofia, che abbandona per passare al giornalismo e all’arte. La sua irrequietezza si manifesta nei molti interessi – la letteratura, la filosofia, l’arte – che non riescono però a riempire il forte vuoto esistenziale che la attanaglia e che cerca di esprimere attraverso la poesia.


Nel 1955 esce La tierra más ajena, opera che subito disconosce, nel 1956 La ultima inocencia, pubblicata grazie al finanziamento del padre, e nel 1958 Las aventuras perdidas.

Nelle poesie Alejandra ribadisce il suo senso di perdita per un’infanzia mai

veramente vissuta, la sua difficoltà a vivere il presente, il suo rapporto con

la notte dell’anima e il tormento di sentirsi sempre lambita dalla morte. Nei

suoi lavori c’è però più che uno sfogo esistenziale: Alejandra, anche grazie

all’influenza delle molte letture di quegli anni (Rimbaud, Trackl, Nerval,

Baudelaire, Kafka, Hölderlin), si aggrappa alla parola come a una zattera e

si consuma sulla poesia in un lavoro incessante per accedere a quell’oltre

che intuisce al di là delle ombre.


Insoddisfatta nonostante i molti stimoli culturali da cui si circonda,

lascia Buenos Aires e tra il 1960 e il 1964 si trasferisce a Parigi. Qui lavora scrive e traduce per varie riviste di critica letteraria («Cuadernos» e «Les lettres nouvelles»), segue corsi alla Sorbona e frequenta la folta comunità di scrittori e intellettuali. È di queti anni la sua amicizia con Julio Cortazar, e Octazio Paz, che scriverà la prefazione della raccolta Arbol de Diana del 1962.


Ritornata in Argentina, continua il lavoro sulla poesia e si vede assegnare le

prestigiose borse di studio Guggenheim e Fullbright, che però non

sfrutterà. La sua depressione si aggrava, si richiude nuovamente in sé

stessa, lottando con problemi d’insonnia e scrivendo. Appartengono a questo periodo le raccolte Los trabajos y las noches (1965), Extracción de la piedra de

locura (1968) e El infierno musical (1971) e l’opera in prosa La condesa

sangrienta (1971).


Nel frattempo le crisi si fanno sempre più forti. Dopo la morte del padre Alejandra tenta il suicidio e nel 1972 viene ricoverata in un ospedale psichiatrico. È durante un permesso ricevuto per un breve ritorno a casa nel fine settimana che, il 25 settembre del 1972, all’età di 36 anni, Alejandra inghiotte una forte dose di tranquillanti e si uccide.

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