di Arianna Destito
Ci sono luoghi che abiti e che sei certo di avere scelto.
Ma, se ci pensi, ti accorgi che non sempre è così. Certi intrecci della vita ti portano a scoprire e a conoscere posti che mai avresti pensato di attraversare, di vivere o addirittura di amare. Certi luoghi ti scelgono, anche per poco, anche se non lo sai, anche solo per darti un segno.
A me è capitato così. Ho abitato in un quartiere che per circa dieci anni mi aveva scelto. Vivevo in una casa piccola e accogliente sulla collina di Albaro. Un luogo che le mie finanze mai avrebbero potuto permettersi, ma che circostanze fortuite, e soprattutto una proprietaria indulgente e generosa, mi hanno fatto incontrare.
In quel periodo lavoravo a Rivarolo e facevo la spola tra i due quartieri. Due mondi molto diversi, ma entrambi caratterizzati da una forza comune: l’orgoglio di appartenenza.
La mia casa si affacciava sulla via principale, la strada più tipica di Albaro. Tra negozietti e palazzi storici, con le luminarie a Natale il conservatorio a pochi passi, le ville e vasti parchi verdi. Come dimenticare i tigli di viale Causa, la strada che porta alle sedi della facoltà di ingegneria? Ci si abitua facilmente alla bellezza e alle comodità. Ogni tanto mi affacciavo alla finestra del primo piano e osservavo la via, trafficata e brulicante di vita (ma solo a certi orari, beninteso).
Un luogo che da subito mi ha messo allegria. Anche il mio appartamento era caratteristico, con le pareti verde mela e una luce particolare che trasmetteva una bella carica di energia positiva. Di fronte a me avevo lo storico negozio di biancheria per la casa “Odone in Albaro”. Potevo affacciarmi sui più bei palazzi d’epoca, edifici storici dalla facciata barocca e con il retro scarno, da casa popolare. Tipico genovese.
Anche Villa Byron, che ospitò il celebre poeta prima della sua partenza per la Grecia, dove partecipò alla rivoluzione e morì. Intrecci, luoghi, suggestioni. Vite che si incontrano, nella storia e nel presente.
Mi avevano avvertito, “guarda che questo è un quartiere classista, abitato da gente con la puzza sotto il naso”.
Gli albarini ti osservano da capo a piedi, per vedere se fai parte del clan, della tribù. Altrimenti resti un parvenu, un nuovo arrivato.
Avevo imparato a distinguerli alla prima occhiata, quelli così: dal completo impeccabile, confezionato in alta sartoria, la cravatta regimental e le scarpe abbinate. L’imprenditore con il loden verde che fingeva di non riconoscerti e non salutava, anche se ti incontrava ogni giorno alla stessa ora. L’esercito di avvocati, medici, commercialisti, eredi di prestigiosi studi con spocchia annessa. Erano così prevedibili nei loro comportamenti quotidiani! Ne ho visti tanti posteggiare il Suv in doppia fila e in doppio petto con l’aria spavalda del professionista in carriera.
E poi vedevo lui, un omone grande e grosso. Se ne stava appoggiato al muro, tra il mio portone e il panificio. Si chiamava Tariq e ogni giorno, con qualunque condizione atmosferica − pioggia, gelo, vento o caldo torrido − lui se ne stava lì, ritto in piedi, con la sua mercanzia riposta in una cassetta di frutta: vendeva calze di cotone da uomo, guanti, sciarpe, cappelli, ombrelli, accendini, tovaglie e qualunque articolo gli venisse richiesto. Ma il suo lavoro non si esauriva qui: controllava le auto in doppia fila e avvisava i proprietari quando erano d’ingombro, ricordava ai residenti di non posteggiare nei giorni di pulizia della strada, accompagnava qualche anziana signora fino a casa reggendole la sporta della spesa. Se qualcuno tirava dritto senza salutarlo si limitava a dire: “Compra qualcosa”, senza mai diventare invadente o fastidioso. Arrivava ogni giorno da Rivarolo con il suo carico di speranza. Ci incrociavamo al mattino, quando uscivo per andare a lavorare nel suo quartiere, mentre lui arrivava nel mio.
Un sabato mattina − era un’afosa giornata di luglio e tutte le finestre di casa erano spalanacate – avevo appena fatto colazione e stavo provando un abito da cerimonia che avrei indossato la sera per andare a una festa. Uno di quegli abiti di seta anni cinquanta, uno schianto di vestito color rosso fuoco. A un tratto udii una voce di donna fastidiosa provenire dalla strada. Dapprima non prestai troppa attenzione. Ma la voce si faceva sempre più forte e stridula. Blaterava insulti e frasi sconnesse, ma non capivo con chi ce l’avesse. L'unica minaccia che riuscii a cogliere fu: “Chiamo i carabinieri”. Mi affacciai, incuriosita. Vidi una donna piuttosto anziana e male in arnese inveire contro Tariq. Gridava e puntava il dito contro il marocchino che, contrariamente al solito, era seduto su un piccolo sgabello. "Torni al suo paese!" ripeteva infuriata. “Nessuno vi vuole qui!” Ora cominciavo a intuire quello che stava succedendo. La donna sembrava invasata e ripeteva le stesse frasi, come un disco rotto. Tariq se ne restava seduto e non rispondeva.
Senza pensare troppo chiamai il mio fidanzato, che quella notte aveva dormito da me, e bastò uno sguardo d’intesa per decidere di scendere in strada, così abbigliati, lui in bermuda e ciabatte e io avvolta nel mio lussuoso abito rosso fuoco anni cinquanta. Scoprimmo di non essere stati i soli ad avere l’idea. Si era formato un capannello di persone intorno ai protagonisti della querelle. Alcuni vicini di casa avevano raggiunto Tariq, i negozianti erano usciti dalle loro botteghe. Sembrava prepararsi uno scenario da mezzogiorno di fuoco.
"Cosa è successo?" domandammo.
"Quest'uomo non deve restare qui."
"E perché mai?"
“È disonesto"
"Tariq disonesto? Cosa le ha fatto?"
"Deve tornare al suo paese!"
"Signora, di chi sta parlando?" intervenne la elegante proprietaria del negozio di antiquariato.
“Di questo qui!”
"Ma lei conosce quest’uomo? E’ Tariq E io mi fido di lui".
"Come sarebbe a dire?" sbottò la donna, interdetta.
"Certo, gli lascio le chiavi del mio negozio quando vado in pausa.”
"E quando ha bisogno tiene la merce nella mia edicola" intervenne il giornalaio.
"E, se proprio vuole saperlo, io ho tanta fiducia in Tariq che gli lascerei le chiavi di casa" affondò il colpo il professionista con gli occhialini, quello che non salutava mai e con l’aria sulle sue che io avevo scambiato per supponenza.
" Ma..." cominciò a balbettare la donna, accerchiata da tutti noi.
" Ma..." Era rimasta a bocca aperta, guardandosi intorno e guardandoci a uno a uno, come se fossimo alieni scesi da un altro pianeta.
" Ma come? Vi siete messi d’accordo? State tutti dalla sua parte? Difendete un marocchino? E comunque sappiate che mi ha risposto male."
"Si è presa il mio giornale" intervenne Tariq.
"Non è suo! Sono giornali di tutti!" replicò indicando un dépliant pubblicitario di compravendita immobiliare, di quelli distribuiti dalle agenzie.
"Lo stavo leggendo io. Cosa vuole da me? È lei che lo ha preso senza chiedere".
Cominciava ad agitarsi, Tariq, e sembrava provato. Il caldo gli faceva scendere il sudore sugli occhi.
"Tariq stai bene?" gli chiesi mentre si tamponava la fronte con un fazzoletto di carta.
" Sono un poco stanco. È iniziato ramadan e sono a digiuno."
" Ma... continuate a difenderlo?" L’anziana donna sembrava non sentire ragioni. E sembrava quasi essersi dimenticata del perché ce l’avesse tanto con il marocchino. Ripeteva a pappagallo la stessa solfa, senza variazioni.
"Certo che lo difendiamo!"
"Chiamo i carabinieri"
"Ma la smetta"
"E a me non pensate? Chi mi difende?"
Continuava a cercare intorno un’offerta di complicità che nessuno sembrava concederle. Forse era il caso che chiamasse davvero i carabinieri, per se stessa: sembrava confusa, quasi avesse perso la via di casa e il senno. Appariva anche affaticata e si muoveva con difficoltà, per via del caldo e della sua mole robusta. Sbuffava e con ciò che restava del giornalino conteso a Tariq si faceva aria.
Fu in quel momento che dal portone uscì il direttore di banca, con il completo di lino bianco, il panama in testa e un sigaro tra le labbra. Con faccia serafica e un’espressione sorniona, alla Hemingway, sorrise, ci lanciò un’occhiata di compassione
"Davvero volete continuare a discutere?"
Ci stringemmo nelle spalle. Non c’era bisogno di rispondere.
Scosse il capo, prese la signora sottobraccio e cominciò a parlarle fitto fitto sottovoce. Alla fine disse: "Venga con me, cara, andiamo a prendere un buon caffè."
E si allontanarono insieme verso il bar più vicino.
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