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IL GIORNO CHE VINSI IL NOBEL

di Mirko Addesa




Foto di Free-Photos da Pixabay
Foto di Free-Photos da Pixabay

Pioveva. Di quella pioggia fina e insistente che annoia e deprime.

La tv dava un film su uno scrittore che aveva vinto il Nobel, ma che, avendo paura di volare, aveva intrapreso un duro e tragicomico viaggio in SUV fino a Stoccolma per ritirare il premio.

Ero addosso al mio divano rosso, coperto da un plaid verde scuro per salvaguardarne il prezioso pellame. Intuizioni casalinghe di Maria Dolores, la mia compagna di vita degli ultimi anni. Quando mi accorsi di uno strappo fra le cuciture, accennai una bestemmia. Quel divano aveva vent’anni suonati e mai avrei immaginato che avrebbe potuto autoinfliggersi tanto dolore. O forse era solo colpa del mio culo, poggiatovi da ormai due mesi e mezzo senza soluzione di continuità.

Stavo fumando le mie Rothmans blu, quelle col filtro bucato, quelle più piccole, che a pacchetto pieno danzano nello spazio lasciato libero come ballerini di tango storpi e deturpati, ascoltando il rumore dei colpi con cui Maria Dolores stava massacrando la cena della sera a venire.

“Dottore, stasera petti di pollo giallo. Ci metto a fianco peperoni gialli e rossi tagliati fini fini, facciamo insieme a pane integrale con seme di lino che fa bene a cuore, letto su giornale internet che acchiappa polesterolo e fa fare tanta cacca che esplera…spella…”

“Espelle, Dolò, espelle. Colesterolo. E fini fini si dice à la julienne ”, la corressi, invano. Continuai. “Ma viene fuori almeno quel sughetto che sa un po’ di limone e vino bianco da inzupparci i semi di lino a mò di scarpetta?”

“No dottore, se fa sugo poi serve a niente seme di lino. Prendiamo anche medicine prima e dopo e bere acqua che fa bene a circolazione, eh eh eh.” Diciotto scatole di medicine, cazzo! Oramai avevo il sangue che, se lo avessi donato, avrei curato o finito di ammalare mezza Italia. Non ero sicuro, perché non sapevo se fossero davvero toccasana o veleni.

E fu proprio in quel giorno che avrei scoperto di aver vinto il Nobel. Ma ancora non lo sapevo.

Il giorno prima pioveva uguale, pioveva sempre, pioveva comunque.

Avevo sempre amato i temporali, quelli di gocce a falda larga, che corri per dare riparo al corpo, alle braccia, alla testa, ai pensieri. Quei temporali che sono come le docce: durano poco ma ti fanno stare bene. Li ricordavo, almeno quelli.

A 85 anni è facile come aprire una scatoletta che la demenza senile ti agganci, qualcuno la chiamerebbe Alzheimer. Che già solo il fatto che abbia un nome tedesco ti fa girare i coglioni. Sarebbe stato meglio in inglese, freddo e acido come uno yogurt bianco light da assaporare col cucchiaino.

O ancora meglio, francese, delicato e accattivante come un croque monsieur da mordere, col formaggio che fila e cola intorno alle labbra.

Questo andirivieni di tonfi di memoria mi accompagnava da qualche anno. Il passato era una cartolina vivida e lucida; il presente, una viscida serpe avvolgente che avrei dimenticato in fretta, senza nemmeno accorgermene. Quindi anche il pollo coi peperoni e i semi di lino li avrei scordati non appena finiti in gola, come tutto il resto. Con Maria Dolores che avrebbe insistito a chiedere, “Cosa ha mangiato, dottore?”, ed io “Niente, niente”. Nemmeno ricordavo di aver avvicinato una forchetta alle labbra, figuriamoci il contenuto che ci sballottava sopra.

E quella specie di mascherina a coprire labbra e naso, cos’era? Finora si era limitata a indossare guanti di un blu colorito che con l’uso schiariva in un celeste pallido. Capisco bene che la costrizione, seppur ben pagata, di dover pulire il culo ad un vecchio non debba essere una gran botta di felicità e che i miei umori non siano proprio olezzi profumati. Provò a spiegarmi. “Ci sta un virus, ma lei no preoccupa dottore. Io qui con lei, nessun pericolo.” Avevo dimenticato anche quello. Nonostante nei telegiornali osservassi con attenzione temporanea e fallace tutti questi tizi parlare con quelle coperture sul viso, non facevo domande. Tanto, non avrei distinto un film su un contagio universale da un talk show, o da un varietà con le soubrette scosciate fino all’ombelico.

Ma l’aiuto migliore me lo prestava il passato, quello più remoto, quello – giocoforza − indimenticabile. Le donne, le cene, le auto, le bottiglie. La mia immagine bella si rifletteva nello specchio immaginario che faceva scudo ai miei occhi stanchi e alle mie pupille che roteavano a vuoto nell’iride. Il mio passato era il mio presente, il tempo brillante della coniugazione dei verbi, l’unico che mi era rimasto e che sapevo come coccolare, come dargli linfa quando aveva sete e cibo quando aveva fame.

Non sapevo neppure di avere la morte al mio fianco. Seppur invisibile, uno dovrebbe sentirla: respirare, prepararsi, indossare il vestito buono, lavarsi e presentarsi pulito e adeguato all’appuntamento, l’ultimo. Invece no. È come una puttana che conta i soldi di nascosto prima di fare sesso, un guardalinee che ha già deciso il fuorigioco prima che parta la palla, una diarrea che non ti lascia il tempo di toglierti le mutande.

Infatti arrivò. Non ne sentii nemmeno l’odore. Qualcuno afferma che sia acre come le arance non ancora mature, altri che sia dolce come il miele, altri puzzolente come la merda dei cani lasciata sull’erba dei prati.

Non me ne accorsi. Immaginai Maria Dolores affranta. Ne avessi avuto almeno il sentore, le avrei lasciato qualcosa, dei soldi, le avrei trovato un altro vecchio a cui badare, le avrei comprato una pila di guanti blu, tendenti al celeste.

Quello stesso giorno avrei vinto il Nobel per la Letteratura. Anche senza aver mai scritto un rigo in vita mia, senza aver mai letto un libro in vita mia. Sarebbe stato bello correre in Svezia e riempirmi di orgoglio, mi avrebbero dato anche un sacco di soldi.

Ma tanto, me ne sarei dimenticato.

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