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IL FARMACISTA

CRONACHE DI UN ORDINARIO GIALLO PROVINCIALE


Parte seconda


di Chiara Ferraris e Claudio Di Tursi




In quei giorni c’erano i mercatini di Natale. Erano stati rimandati a dopo l’Epifania in seguito all’omicidio di Leandro. C’era poca gente; nessuno aveva voglia di acquistare regali, dato che ormai non c’erano più ricorrenze alle quali appigliarsi. Noi dovevamo semplicemente vigilare sui parcheggi e assicurarci che i ragazzini che dovevano smaltire le riserve di botti non lo facessero nei dintorni del mercatino. Ben presto, ci accorgemmo che di parcheggi ce n’erano più di quanti ne servissero e dopo aver aiutato qualche furgoncino delle bancarelle, ci ritenemmo liberi di gironzolare per la via principale, mangiando frittelle zuccherate accompagnate da cioccolata calda. Era un continuo salutare conoscenti e amici, lanciare cenni col capo e sorrisi di confidenza, alzare mani e dare pacche di passaggio. Tutti gentili finché non gli fai una multa! A un certo punto, però, notai qualcosa che mi colpì come quel misterioso oggetto che mi era stato sbattuto sulla testa prima di Natale. Una bancarella piccola, qualche quadro esposto, di diverse dimensioni, tutti ritratti, e un uomo abbastanza in là con gli anni, un sorriso bonario agli angoli della bocca, che dipingeva su una tela nascosta agli occhi del pubblico. Toccai la spalla della Ferraris con un paio di ditate e lei si voltò a guardare nella mia stessa direzione. Ci avvicinammo alla bancarella. Il tratto dei dipinti esposti era assolutamente identico a quello del quadro esposto nel salotto della signora Tosatti.

Ci soffermammo a guardarli.

«Cazzo! È il pittore della Tosatti!» bisbigliò la Ferraris, indugiando dolcemente sulle zeta.

«Già, qualcosa mi dice che potremo scoprire qualcosa di più».

«Un bel ritratto per la bella ragazza?»

La voce del pittore ci sopraggiunse vellutata e suadente come quella di un vecchio saggio in qualche film fantasy. La Ferraris arrossì, poi andò dritta al punto.

«Abbiamo visto un suo quadro a casa di una signora. L’ha fatto da questa fotografia, vero?» domandò, tirando fuori la foto che ormai portavamo sempre con noi, nella speranza che qualcosa sbloccasse le nostre indagini, che si erano ormai impantanate. «Lei conosceva il committente, il signor Leandro Paglia?»

«Il farmacista, intende? Eh, che brutta fine, che ha fatto… Comunque, sì, mi ha commissionato tre ritratti».

«Quindi ha regalato i suoi quadri ad altre donne?»

L’uomo sorrise, scuotendo la testa. Prese uno straccio e si mise ad asciugare il pennello che teneva tra le dita.

«No, assolutamente. L’unica donna che mi ha fatto ritrarre era lei. Sempre la stessa».

Spalancammo gli occhi.

«Sempre la stessa?»

«Sì, sempre lei. Me ne ha fatto fare uno dopo l’altro».

«Sempre uguale?» domandai, incuriosito. Immaginavo che, almeno, cambiasse la posa. Doveva esserne molto innamorato.

«In realtà no. La donna e la posa erano sempre le stesse. Ma il volto era sempre più vecchio».

«Più vecchio? E che cazzo vuol dire?»

Inutile dire che non riuscii a frenare la Ferraris. L’uomo scoppiò a ridere davanti alla sua genuinità.

«Quello che ho detto: il volto aveva più rughe, la pelle era più cadente, l’occhio più lucido. Ogni quadro aggiungevo qualche anno in più alla donna della fotografia».

«E perché mai?»

«Ah, questo non ve lo so spiegare. Però si sa, tutti abbiamo le nostre stranezze» concluse, spalancando un sorriso benevolo, «E Leandro, nonostante tutti dicessero che fosse un tirchio, mi pagava bene. Per i disegni e per la discrezione. Mi aveva detto di non parlarne con nessuno, ma ora che è morto...»


A casa, quella sera, mi misi alla scrivania a cercare di raccogliere su un foglio le idee sul caso. Una donna bellissima, la più bella del paese, un amante gelosissimo, come lei stessa aveva sostenuto, un quadro regalato, che la raffigura da giovane, e altri dipinti, con la stessa immagine ma invecchiata. Perché? E dove si trovavano questi dipinti? Li aveva la signora Tosatti?

Suonò il citofono.

«Ho una Coca scaduta» gracchiò la voce della Ferraris.

Il cuore mi balzò nel petto. Cosa ci faceva, a casa mia, di sabato pomeriggio?

Mi guardai intorno: la casa era un disastro. Ragionai su cosa avrei potuto fare nei pochi minuti che lei ci avrebbe impiegato per salire i tre piani di scale.

Nulla, evidentemente. Puntai ai calzini che avevo abbandonato sulla poltrona la sera prima e nascosi almeno quelli.

Lei fece capolino dalla porta che avevo accostato.

«Vedo che la tieni bene, la casetta» commentò, sbirciando intorno.

«Non ti aspettavo…» farfugliai.

«Come al solito, non aspetti mai un cazzo di nessuno, mica solo me».

Ridacchiai, nervoso.

«Due patatine ammuffite le hai?»

Annuii. Le patatine non mancavano mai.

Ci ritrovammo seduti uno di fronte all’altra, a sbriciolare patatine e ingollare Coca cola. Io, che non osavo chiederle perché fosse passata, lei che continuava a masticare come fosse un tritatutto. Forse aveva solo bisogno di qualcuno con un pacco di patatine.

«Ma ti rendi conto di quanto Leandro fosse fuori di testa?» fece la Ferraris con la voce artefatta dalla creazione dell’ennesimo bolo di patatine.

«A che scopo farsi fare tre ritratti della persona amata invecchiati uno rispetto all’altro?»

«Mi rendo conto che se continui a divorare queste schifezze ti farai venire un sedere a tre ante» le dissi, soffiandole il pacchetto dalle mani. «È tutto il giorno che ci penso senza trovare nessuna giustificazione plausibile. D’altronde il pittore non avrebbe nessuna ragione per mentire ed io sento che i tre quadri c’entrano con la morte di Leandro» continuai.

«Un mistero, un fottutissimo mistero del cazzo» confermò la Ferraris con lo sguardo rivolto verso un punto indefinito oltre la finestra. «Ma noi questo mistero del cazzo dobbiamo risolverlo, altrimenti sono guai. Come due stupidi ci siamo messi di nuovo in mezzo e quando quelli della Omicidi scopriranno che abbiamo sottratto delle prove dalla farmacia e interrogato una teste senza mandato ci spediranno a fare i vigili uno a Bolzano e l’altra a Canicattì. Non lo vedi più il mio sedere a tre ante, maleducato che non sei altro…».

La Ferraris si alzò in piedi per sgranchirsi le gambe.

«Ricapitoliamo: quella stralunata della Tosatti, che legge solo robe new age e sulle profezie Maya si innamora di un uomo che…»

«E Il ritratto di Dorian Gray» fece la Ferraris.

«Cosa?»

«Legge anche “Il ritratto di Dorian Gray”. Era l’unico libro che conoscessi nella sua fornitissima libreria, vicino al “Il potere dello Yin e dello Yang” e “Come leggere il futuro nella bava delle lumache”»

La frase della mia collega risuonò come qualcosa di familiare, che non riuscivo però a identificare. Lasciai perdere e proseguii: «…Insomma, Leandro le regala tre quadri, in cui risulta sempre più vecchia… ma perché?»

«Non sappiamo se glieli abbia regalati tutti e tre. Lei ne ha uno solo in casa. Non sappiamo dove siano gli altri.»

La Ferraris si alzò di scatto e si mise a guardarmi in quella particolare maniera che purtroppo conoscevo molto bene e che non faceva presagire niente di buono. D’altronde era difficile non accorgersene, quando la Ferraris aveva in mente una delle sue pazzie. In testa, i capelli le si mescolavano a cazzo come elettrizzati del lavorio frenetico di gangli e sinapsi; gli occhi si spalancavano a mo’ di fanali proiettando all’esterno la luce pura e fredda della sua follia. Dai lati delle narici partivano due pieghe perfettamente simmetriche a forma di parentesi angolate a racchiudere un sorriso beffardo. Sapeva di farmi paura, in quei momenti, e la cosa sicuramente le piaceva.

La guardai terrorizzato con la bocca aperta aspettando di sapere in che guaio ci saremmo cacciati. Istanti interminabili come quelli che separano l’alzata in piedi del pubblico dal pronunciamento della sentenza. Una sentenza che anche questa volta non tardò ad arrivare.

«Il mistero sta tutto dietro i tre quadri e l’unica persona che può saperne qualcosa è lei, Loredana, che ne ha uno in casa e che di quei quadri è il soggetto. Torniamo da lei, facciamole delle domande, facciamola crollare. Andremo da lei fingendo di sapere tutto, di averla scoperta. La faremo cantare. Non possiamo fare altro, non abbiamo più tempo.»

«Tu vuoi mettere in atto una tecnica da poliziotti consumati, quella tecnica del “saltafosso” che Camilleri ha spiegato nei suoi romanzi sul commissario Montalbano» le dissi «Ma noi siamo solo due sfigatissimi agenti della Municipale.»

«Parla per te! Stanotte inventati qualcosa, che domattina alle dieci sono qua sotto con la Panda». «Ma è domenica…» protestai.

«Vuoi andarci lunedì, magari con quelli della Omicidi? Domani è l’ultimo giorno utile e saremo sicuri di trovarla in casa!» mi riprese la Ferraris, per poi dirigersi a passo spedito verso l’attaccapanni e prendere il piumino. Era tanto bella quanto determinata e io come un coglione l’avevo offesa. Mi alzai per salutarla e mi avvicinai a lei tanto da sentirne il profumo.

«Non sei ancora arrabbiata con me, vero?» le sussurrai languidamente cercando di avvicinarmi al suo orecchio.

La ginocchiata che mi arrivò sui testicoli fu devastante.

«Figurati, so stare agli scherzi!»

Mi lasciò piegato in due e uscì sbattendo la porta.

La notte la passai insonne cercando di studiare un modo per riuscire a mettere in atto il saltafosso. Era brutto ammetterlo a me stesso, ma più che mettere in galera il colpevole di un omicidio mi interessava far colpo sulla mia collega. Cercavo con ogni mezzo di farla uscire dalla sua ambiguità, non potevo credere che dietro il suo darmi qualche speranza ogni tanto ci fosse solo cattiveria e stronzaggine.


La mattina dopo, la Ferraris arrivò puntuale come la morte. Appena salito in macchina, ingranò la prima e si fiondò a razzo verso Vicomorasso.

«Allora Di Tursi, cos’hai escogitato?» mi chiese a un certo punto con l’espressione furbetta.

«Per adesso, niente. Te?»

«Benissimo, neppure io ho avuto idee. Improvviseremo».

L’improvvisazione, fino a quel momento, era stata la scelta migliore, anzi, l’unica che ci era possibile. Quella volta, però, il vento della fortuna sembrò spirare dalla nostra parte. Dopo aver parcheggiato poco distante dalle villette, ci avvicinammo camminando a passo spedito, rompendo il pigro silenzio della domenica mattina con i nostri passi che andavano a scalciare la ghiaietta del selciato. A meno di dieci metri dalla casa di Loredana, vedemmo la porta della sua abitazione aprirsi. Dalla soglia spuntò lei, la bellissima signora Tosatti, in una tuta da jogging costellata di strass, e un aitante giovanotto, anch’esso in tenuta sportiva. Ci bloccammo subito e poi, senza aggiungere nulla, entrambi ci lanciammo verso un grande albero lì vicino, ai cui piedi sorgevano alcuni cespugli che ci avrebbero permesso, se ben acquattati, di essere poco visibili.

«Quello non è uno degli allenatori della palestra?» domandai io.

La Ferraris alzò le spalle e sussurrò: «Cazzo ne so io, sei tu quello che ci va sperando di buttare giù la pancia flaccida».

Un colpo al cuore, ogni sua parola. Quella donna sapeva abbattermi fisicamente e moralmente.

«A ogni modo sarà il nuovo amante. Chissà se Leandro ne sapeva niente».

Nel frattempo, i due si erano allontanati, mano nella mano.

«E ora, che facciamo? Li aspettiamo?» domandai, voltandomi verso la Ferraris che, però, non era più al mio fianco. Si era lanciata, invece, verso la palazzina e si stava avvicinando alla porta.

Non ci vollero neanche due secondi per capire cosa volesse fare.

La raggiunsi e la trovai ad armeggiare nella serratura con una forcina che si era tolta dai capelli.

«Cosa stai facendo?» bisbigliai, con il sudore che scendeva a secchiate dalla fronte.

Sottrazione di prove, contaminazione della scena del delitto e ora anche effrazione e violazione di domicilio. Avremmo passato il resto della nostra vita in Polizia, certo, ma dalla parte sbagliata dell’inferriata.

«Cerchiamo i quadri, no? Quale occasione migliore?» mi rispose, continuando a forzare la serratura.

«Lascia stare, Ferraris, queste cose funzionano solo nei film, nella realtà non va cos…»

CLICK. La porta si aprì e la Ferraris si lasciò andare a un sorriso di orgoglio che mi fece sciogliere il cuore in petto.

«Dove hai imparato?»

«Un giorno ti racconterò del mio passato» mormorò con un ghigno misterioso.

«Tu vai al computer e vedi se trovi qualcosa di strano» mi ordinò lei, appena varcammo la soglia, «Io cerco i quadri. Fai presto, non sappiamo quanto tempo staranno fuori».

Mi fiondai nel salotto dove Loredana ci aveva fatti accomodare la volta scorsa, diedi un’occhiata veloce al famoso romanzo di cui aveva parlato la Ferraris, in mezzo ai tomi new age, poi mi sedetti alla piccola scrivania dove troneggiava un vecchio iMac.

Scrollai il mouse e comparve il desktop. C’era di tutto, là sopra, davanti allo sfondo con la sagoma di un lupo che ululava alla luna: cartelle, file di tutti i tipi, collegamenti a siti. Cliccai a caso.

Finché non trovai un video.

«Ferraris» bisbigliai più forte che riuscii: «Vieni subito qui!»


Lei arrivò con calma, tenendo tra le mani due tele.

«Guarda cos’ho trovato nella camera di Loredana». Erano i due quadri di cui ci aveva parlato il pittore: la stessa immagine della fotografia di Loredana, ma invecchiata di qualche anno.

«E guarda cosa ho trovato io».

Feci partire il video, mentre la Ferraris si catapultava al PC.

L’inquadratura era sulla parete del salotto in cui era appeso il quadro. Era stata ripresa, evidentemente, da una telecamera nascosta, che Loredana aveva messo nella stanza. Ma perché, era così prezioso quel quadro?

Nell’immagine, il quadro affisso non era quello che ritraeva Loredana da giovane ma uno dei due dipinti ritrovati dalla Ferraris, in cui sembrava un po’ più vecchia. D’improvviso, compariva Leandro. Saliva su una scala, toglieva il dipinto e lo sostituiva con la terza tela, quella terribile in cui Loredana appariva molto più vecchia e brutta che negli altri. Il video finiva così.

La Ferraris spalancò i suoi occhi nei miei.

«E sai cosa?» aggiunsi: «Ti ricordi cosa c’era sulla scrivania di Leandro?»

«Lasciami indovinare»

«Lo stesso romanzo che troviamo nella libreria di Loredana: “Il ritratto…»

«… di Dorian Gray”» concluse una voce alle nostre spalle.

Ci voltammo all’unisono: Loredana era lì, nel suo salotto, le braccia puntate su di noi e tra le sue mani, una pistola.

«Quindi, avete scoperto tutto!» esclamò.

In realtà, avevamo scoperto tutti i pezzi del puzzle, ma dovevamo ancora ricomporli per comprendere bene cosa fosse successo, anche se ormai era chiaro che la signora Tosatti fosse la responsabile dell’omicidio, dato che la pistola che teneva tra le mani era quella scomparsa dall’ufficio di Leandro, la notte dell’omicidio.

Insomma, avevamo trovato il modo per applicare il metodo del “saltafosso”, anche se il rischio, a quel punto, era che non saremo riusciti a rivelare la verità a nessuno, se lei ci avesse ammazzati.

«Lo hai ammazzato per i quadri, e utilizzando la sua pistola, vero?» chiesi cercando di prendere tempo e di farla distrarre nella speranza di escogitare qualcosa.

Loredana fece due passi in avanti e noi indietreggiammo.

«Il bastardo aveva detto che funzionava. Mi aveva regalato il romanzo, lo avevo letto, e poi il quadro che mi ritraeva giovane. Mi aveva detto che funzionava, che sarei rimasta eternamente così. Sempre che non lo avessi tradito. Allora, la corruzione della carne si sarebbe palesata prima nel quadro e poco dopo anche in me. Io ci risi su ritenendola una delle sue boutade. Poi, un giorno, conobbi Maurizio, l’istruttore della palestra in cui andavo, e me ne invaghii.

Poco tempo dopo, mi accorsi che il quadro era diverso. Era invecchiato. Ne fui terrorizzata».

«Maurizio è l’uomo con cui ti abbiamo visto prima?» chiese la Ferraris, spostandosi lentamente verso sinistra.

«Sì, è lui».

«E’ per stare con lui che hai fatto fuori Leandro?»

«No, no! Maurizio aveva capito che Leandro sostituiva i quadri. Mi ha fatto mettere la videocamera perché io non lo ritenevo in grado di farmi una cosa simile. Quando ho visto il video, io sono andata da lui, furiosa».

«Eri giustamente arrabbiata, ti ha preso in giro» la incitai.

Loredana scoppiò a piangere. Il rimmel prese a scorrere giù per le guance, colando su rughe che fino a poco prima non sembravano esistere.

«Come ha potuto farmi questo? Circuirmi in questo modo, farmi credere che i quadri avessero poteri esoterici…» singhiozzò. La Ferraris continuò a spostarsi impercettibilmente.

«Non era mia intenzione ucciderlo, ho perso la testa, quando ho visto i quadri nel retro del negozio».

Loredana ebbe un cedimento, gli occhi persi a terra, il braccio meno teso e la presa sulla pistola sembrava farsi meno sicura. La Ferraris, che nel frattempo si era fatta vicinissima a lei, le saltò addosso e con un colpo velocissimo riuscì a disarmarla.

«Mi dispiace, Loredana, Leandro è stato uno stronzo, ma nessuno merita di essere ammazzato» dissi, afferrandole i polsi e bloccandoli con la vestaglia di seta che languiva sul divanetto.

«Mi sa che il bel Maurizio si pentirà di averti installato la videocamera in casa» concluse la Ferraris.


Il lampeggiante della volante si rifletteva nei vetri delle case e dalle finestre delle villette spuntavano facce incredule che si chiedevano come mai la povera e bellissima signora Tosatti stesse uscendo da casa sua in manette.

«Un altro colpo di fortuna, quindi» disse il commissario, stringendo la mano mia e della Ferraris, malcelando un certo disappunto per essersi fatto fregare nuovamente da due principianti.

«Le chiacchiere di paese aiutano sempre a trovare la strada giusta. Dopo il casuale ritrovamento di una foto della Tosatti, ci è bastato presentarci un paio di volte dalla signora per indurla a confessare tutto» spiegai, racchiudendo in poche righe una confessione molto più complicata di quanto volessi far credere. Ma era vero, lei aveva confessato e lo aveva fatto a noi. Per il momento bastava questo, il resto, i quadri, il pittore, Leandro e Loredana, il video, il nostro intervento sarebbero stati oggetto delle dichiarazioni che avremmo reso da lì a qualche ora negli uffici della polizia.

Guardai la signora Tosatti entrare nella volante, lo sguardo distrutto ma al contempo orgoglioso.

Mi rivolse un’occhiata d’odio e poi sibilò: «Avrei dovuto ucciderti, quella mattina in farmacia, bastardo!»

Salutammo il commissario con una stretta di mano e lasciammo gli agenti al loro lavoro. Il mio e quello della Ferraris per ora era concluso, potevamo tornare a casa a riposarci qualche ora. Passeggiammo lentamente fino alla Panda parcheggiata in modo ineccepibile poco distante da lì.

«Certo che Leandro doveva essere innamorato perso per mettere su questa messinscena».

«Mentre Loredana era più innamorata di sé stessa, o meglio della sua immagine, di quanto lo fosse di Leandro. Chissà che cosa avrebbe fatto dei quadri. Forse aveva intenzione si distruggerli, forse, in fondo, sperava davvero che bastasse quello per rimanere bella per sempre».

Arrivammo alla Panda. La Ferraris era davanti a me di pochi passi.

Iniziò a nevicare, piccoli fiocchi leggeri che a fatica si depositavano a terra.

«Ferraris…» tentai, timidamente.

Lei si voltò. Aveva gli occhi di ghiaccio oppure no? Impossibile capirlo, con la luce del sole malato di gennaio che faceva capolino alle sue spalle abbagliandomi.

«Sai, Di Tursi, ultimamente ci stiamo imbattendo in troppe storie assurde. Stavo pensando che sarebbe bello una volta ogni tanto incrociare due persone che si amino per davvero».

Mi guardava? Non lo sapevo, ancora quel dannato chiarore che mi accecava.

Mi avvicinai quel tanto che bastava per sentire il suo respiro farsi più corto.

«Cosa suggerisci?» domandai, ancora indeciso se quella situazione mi fosse favorevole o meno.

Un attimo di silenzio. Stava pensando a come rispondermi.

Un altro passo in avanti. Con la punta delle dita sfiorai qualcosa. La sua divisa, forse.

«Suggerisco di allontanarti subito, se non vuoi un’altra ginocchiata nelle palle!»


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