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IL FARMACISTA

CRONACHE DI UN ORDINARIO GIALLO DI PROVINCIA


di Chiara Ferraris e Claudio Di Tursi




I fiocchi di neve avevano iniziato a danzare su di noi solo da qualche istante. Esiste niente di più romantico di una nevicata a fine turno due giorni prima di Natale?

Guardai l’asfalto, che stava fiorendo di piccole chiazze bianche, e l’ombra della Ferraris spalmata su di esso. La luce giallastra del lampione allungava quell’ombra fino a me, sembrava la promessa di un possibile contatto, un flebile segnale che un momento così non potevo di certo farmelo scappare. Da troppo tempo nascondevo i miei sentimenti e da troppo tempo avevo timore dei suoi.

«Ferraris!» la chiamai. La voce rimbalzò tra i caseggiati che abbracciavano la piazzetta deserta. Troppo freddo, perché ci fosse qualcuno in giro quella sera. Troppo freddo e troppa voglia di casa e di desideri da scartare sotto l’albero di Natale. Anch’io, anch’io volevo esaudire il mio desiderio, anch’io volevo perdermi nel tepore di un sentimento che speravo fosse corrisposto.

Lei si fermò di colpo.

«Cosa succede, Di Tursi?»

Neanche una parolaccia. Doveva aver inteso la solennità del momento.

La vidi voltarsi con titubanza.

«Aspetta un attimo, Ferraris».

Lei non si oppose, non aggiunse nulla. Mi guardò, invece, avvicinarmi. I suoi occhi di ghiaccio si fecero d’improvviso onde di mare d’inverno, tumultuose e struggenti.

Alzai il bavero della giacca per coprirmi dalla folata di vento che turbinò nella piazza, sollevando quella poca neve che si era depositata a terra in una specie di girotondo magico.

Mi fermai a un passo da lei. Preso da un improvviso timore, abbassai gli occhi a terra. E se avessi frainteso tutto? I suoi sguardi, le poche parole accennate…

La Ferraris avvicinò una mano alla mia e tentò una carezza. Rialzai lo sguardo all’istante.

Non avevo frainteso nulla, invece. Le carezzai gli zigomi perfetti e lei socchiuse gli occhi, si abbandonò alla mia carezza.

«Ferraris, io…» bisbigliai, avvicinandomi verso le sue labbra che mi attendevano.

«Di Tursi» rispose lei, in un soffio.

«Di Tursi!» la voce si fece più decisa, intensa, gridata.

A un tratto, avvertii una sensazione di calore nel petto, un formicolio alle dita e dolore, tanto dolore ovunque. Sul viso piovevano gocce, ma non era neve, non lo era più. Mi sentii trascinato via da quel posto in cui sentivo di stare bene, dalla piazzetta, dal selciato innevato.

Buio, d’improvviso. E poi, pugni. Pugni sul petto e urla. Urla sgraziate che mi violentavano le orecchie mischiandosi a un ronzio fortissimo che non sapevo da dove provenisse.

«Di Tursi non puoi morire, cazzo! Non puoi morire adesso!».

Di nuovo, davanti a me, gli occhi di ghiaccio della Ferraris. Non onde malinconiche, ma ghiaccio, ghiaccio e terrore.

«Avanti, cazzo, ritorna in te che dobbiamo prendere il bastardo che ti ha ridotto in questa maniera!»

Ripresi conoscenza a suon di schiaffi e, facendo del mio meglio, riuscii a sollevarmi tanto da appoggiare la schiena al muro.

Non ero in piazzetta, no. Ero in farmacia.

Da distante, la sirena di un’ambulanza in veloce avvicinamento. Mi toccai la testa in un punto in cui sentivo dolore e lordai la mano di sangue. Davanti a me, oltre le ginocchia a punta della Ferraris, il corpo inerme di Leandro, il farmacista. La faccia rivolta verso terra in una pozza di sangue. Gli occhi spalancati.

Scrollai la testa. Dovevo capirlo che era un sogno. Tre parole e neanche una parolaccia, in quella cazzo di piazzetta. Era tutto un fottutissimo sogno.

Quello che era successo là dentro lo ricordai in ospedale, a poco a poco. Quella mattina la Ferraris, a inizio turno, aveva lamentato un forte mal di testa. Allora, prima ancora di andare a fare colazione alla società, eravamo passati da Leandro, il farmacista di Manesseno, che solitamente si trovava in negozio molto prima dell’orario di apertura, per sistemare gli ordini, e non lesinava mai di servirci anche di mattino presto.

Ho sempre creduto che la sua innata cortesia fosse amplificata dalla compiacenza che mostrava verso tutte le belle donne del paese e che la presenza della Ferraris fosse determinante in questo. A volte, mentre la riempiva di complimenti, tra una battuta e l’altra mi guardava con un ghigno strano, come sapesse che ci pativo, sebbene la glacialità della mia collega fosse sempre rimasta immutata davanti alle carinerie di Leandro, smuovendo in me un moto di orgoglio e di immeritata vittoria.

Arrivati davanti alla farmacia, avevamo trovato la saracinesca aperta a metà, ma l’interno del locale era insolitamente buio. Eravamo entrati chinandoci, prima la Ferraris poi io. A poco più di un metro dall’ingresso, mentre istintivamente guardavo oltre il bancone verso il retro dove c’era l’ufficio illuminato flebilmente dalla luce del monitor del computer, avevo sentito qualcosa di viscido sotto i piedi. Era l’inizio della scia di sangue che partiva dal cranio sfondato di Leandro. Avevo fatto appena in tempo a urlare «Ferraris!», quando un colpo alla testa sferrato con inaudita violenza mi aveva fatto stramazzare al suolo. Avevamo sfiorato l’assassino del farmacista per un soffio; quanto mi scocciava ammettere che se avessi messo a fuoco la situazione come un vero detective, io non sarei finito in ospedale e, soprattutto, avremmo portato a casa un’altra indagine chiusa alla perfezione.

Un’infermiera sulla cinquantina truccata come Madonna si avvicinò al mio letto con un carrello pieno di medicinali. La osservai con circospezione. Avevo una vera repulsione per gli ospedali e tutto ciò che ci girava intorno. La donna prese il laccio emostatico, lo strinse attorno al braccio ordinandomi di pompare aprendo e chiudendo il pugno e preparò l’iniezione.

«Cosa vuole farmi?» chiesi guardando dall’altra parte per la fobia dell’ago.

«Ti faccio dormire un po’, cagasotto. Tra poco ti facciamo la TAC e là, dentro il tubo, è bene che tu stia immobile senza rompere troppo le palle.»

«Guardi che sono un vigile» esclamai cercando di indurla a usare un tono più riguardoso nei miei confronti.

«Lo so, cagasotto» continuò lei spingendo con decisione lo stantuffo «mi state sul cazzo voi della municipale, sempre con quella merda di bollettario in mano. Hai trovato finalmente quello che ti ha suonato: ben ti sta!»

Bene, simpatia contraccambiata, quindi. Avvertii un torpore soffice impossessarsi di me e io mi lasciai avvinghiare facilmente da quella morsa, convinto che avrei ripreso il sogno esattamente dove lo avevo lasciato. La Ferraris, la neve, la piazzetta, le sue labbra…


Quando mi risvegliai mi accorsi che la fasciatura alla testa si era fatta più strutturata, ora assomigliava a un caschetto da ciclista. Il dolore fortunatamente era assopito quel tanto che bastava per lasciarmi ragionare su quanto successo quella mattina, mentre lo sguardo rimaneva sempre fisso sulle lucine dell’albero di Natale del reparto che mi ipnotizzavano con le loro coreografie Made in China.

Sicuramente si era trattato d’una rapina. Il malvivente doveva aver studiato le abitudini di Leandro e si era introdotto in farmacia subito dopo l’apertura per costringerlo a vuotare le casse. Leandro, che era un tirchio di proporzioni leggendarie, si era evidentemente opposto, ne era nata una colluttazione e la cosa era finita in tragedia.

«Scusi infermiera, cerco Di Tursi, è stato ricoverato stamattina...». In lontananza, sentii la voce flebile della Ferraris.

«Il cagasotto? Stanza due, letto cinque» rispose quella sguaiata dell’infermiera.

Mi sentii avvampare. Ero a disagio, come quando ti ritrovi da solo con qualcuno dopo una situazione imbarazzante.

La Ferraris entrò nella stanza con passo cauto, come se temesse di svegliare qualcuno. Sembrava un’altra, dismesse le vesti della poliziotta di provincia. Indossava un paio di jeans, decisamente meno severi dei ruvidi pantaloni della divisa, e uno sgargiante maglione rosso a collo alto, forse un po’ stretto, mi trovai a pensare notando come la fasciasse, e sul braccio teneva il cappotto. I capelli, non più legati nella solita rigida coda di cavallo, ma sciolti sulle spalle, le donavano ancora più lucentezza di quanta già non ne emanasse di suo.

«Vedo che ti sei fatto conoscere anche in ospedale, Di Tursi...» disse, chinandosi su di me e schioccandomi un bacio affettuoso sulla fronte. Quasi non me ne accorsi, come se fosse naturale che lei potesse esprimersi in un gesto così affettuoso nei miei confronti.

«Quella stronza mi odia, anzi ci odia. Odia tutti i vigili» puntualizzai.

«Ma va,» rispose con aria di scherno la Ferraris «chissà cosa cazzo hai combinato…»

«Sei venuta per litigare?» la affrontai. «No, per darti la minestrina» rispose lei sorridendo e indicando il carrello delle vivande che proprio in quel momento varcava la soglia del reparto.

La mandai a quel paese con un gesto della mano, poi racimolai il pasto che mi era stato destinato, scartandolo subito perché l’infermiera mi aveva abbaiato che nel giro di venti minuti sarebbe venuta a ritirare tutto.

«Allora, racconta. Ha portato via molto? Lo avete beccato?» domandai, sorbettando dal cucchiaio l’odiosa minestrina di dado.

La Ferraris si alzò e fece due passi per la stanza.

«Niente, Di Tursi. L’assassino è scappato e dalla farmacia non manca nulla, solo il revolver che Leandro aveva regolarmente denunciato, sempre che lo tenesse lì».

«Siamo arrivati prima che potesse rubare qualcosa, allora» conclusi, aggiungendo un’altra busta di parmigiano al brodino, sperando di donargli almeno un lontano sentore di sapidità.

«Così pare».

Sentivo che la Ferraris non era convinta.


«Cosa c’è che non ti quadra?».

Lei si fermò, fece una specie di giravolta, sempre le mani in tasca, gli occhi al soffitto, a inseguire immagini e pensieri.

«Non so, Di Tursi, ma la colluttazione è iniziata nel retro della farmacia. Ci sono tracce di sangue già intorno alla scrivania e sugli stipiti della porta».

«Come se…?» insistetti, scoperchiando la pellicola che ricopriva amabilmente il mio pollo lesso e i finocchi al vapore.

«Come se Leandro lo avesse spinto via a forza dalla stanza, come se dovesse allontanarlo da lì».

«Era un ladro, Ferraris, cosa mai avrebbe dovuto fare? Farlo accomodare e servirgli il caffè?»

Finalmente, la mia collega si fermò e inchiodò il suo sguardo nel mio. Ricercavo, nei cristalli di ghiaccio dei suoi occhi, quelle onde malinconiche che avevo visto nel mio sogno, sapendo di aggrapparmi a un’illusione e, insieme, sperando che così non fosse.

«Claudio, ascolta,» venne a sedersi vicino a me, talmente vicino che il suo profumo andò ad annientare l’aroma inestimabile dei finocchi al vapore: «Se tu fossi un ladro, un ladruncolo da niente, che vuole rapinare una farmacia, e, una volta entrato, trovassi la farmacia vuota, la cassa aperta, con i soldi in bella vista e il farmacista nel retro a farsi i cazzi suoi… dimmi, Claudio, andresti a vedere che cazzo combina il farmacista o prenderesti il bottino e scapperesti?».

Mi cadde il cucchiaino ricolmo di purea di mela e non solo perché era la prima volta che la Ferraris mi chiamava per nome.

«La cassa aperta?»

«La cassa aperta. Con i soldi dentro».

«L’avrà aperta lui!» ipotizzai, recuperando il cucchiaino e la purea di mela.

«Può essere. E allora perché è andato nel retro?»

«Leandro lo avrà scoperto!» perseverai nella mia logica, raccogliendo bene ogni soffice batuffolo di purea dalla confezione.

«Eh, no. Non torna con la colluttazione iniziata nel retro. Pensa alla dinamica: Leandro è nel retro a lavorare al PC, entra il ladro, trova la cassa aperta o la apre lui, Leandro ci ha appena messo un po’ di banconote per i resti della giornata, quindi il bottino non sarebbe granché tra l’altro, insomma un vero sfigato, ‘sto ladro. Leandro se ne accorge, si sposta dal bancone, chiede al ladro cosa vuole, tornano insieme nel retro, cominciano a lottare, ritornano dal bancone e infine il ladro lo uccide. Ti pare che torni?»

«No, non torna. Però, dato che la cassa era semivuota, il ladro potrebbe essere andato nel retro per obbligare Leandro ad aprirgli la cassaforte e, constatato che non sarebbe successo, SBAM, lo ha fatto fuori».

La Ferraris si alzò, indossando il cappotto.

«Potrebbe essere andata così. O forse no. Dobbiamo ancora vederci chiaro in questa storia».

In quel preciso istante entrò l’infermiera: «La domanda è come faccia un cagasotto come te ad avere un’ospite così graziosa» e diede una gomitata complice alla Ferraris, per poi crogiolarsi in una piccola e grassa risata, nel frattempo che ritirava il resto della mia cena.

«Facciamo così, Di Tursi» fece la mia collega, riavvicinandosi d’improvviso a me, a pochi centimetri dalla mia faccia tutta violacea e fasciata: «Ne parliamo quando esci. Sono sicura che quei coglioni della Scientifica sono ancora in alto mare peggio di noi».

La sua bocca era talmente prossima alla mia che avrei giurato che si sarebbe chinata per baciarmi e concludere, così, degnamente il nostro sogno.

Ma lei si allontanò, invece. Perché, ed era bene che questo continuassi a ricordarlo, quello della piazzetta rimaneva un mio sogno, mio soltanto.

Fece due passi verso la porta, poi si voltò un’ultima volta: «Ah, infermiera, scusi…»

«Sììììì?» fece quella, pronta a suggellare nuovamente quella solidarietà tra donne che aveva imbastito poco prima.

«La sua auto è la vecchissima Panda rossa targata CR 326BT, giusto?»

La donna la fissò sbigottita.

«Veda di trattare bene il cagasotto, o non può neanche immaginare la quantità di irregolarità che sono in grado di trovarle».

Forse, tutto sommato, quel sogno non era soltanto mio.

Si susseguirono altre minestrine, poi, il quattro gennaio, finalmente le dimissioni. Non rimpiansi di dover dire addio alla caposala che mi aveva importunato per tutta la degenza ma, soprattutto, fremevo dal desiderio di fiondarmi in farmacia con la Ferraris e controllare meglio il retro, nella speranza di trovare qualcosa che fosse sfuggito ai tanto bistrattati colleghi della Scientifica.

Sentivo la a Ferraris sgasare sul piazzale dell’ospedale, e quel rumore che in altri momenti mi avrebbe dato fastidio ravvivò in me la voglia di indossare nuovamente le vesti dell’investigatore e chiudere un altro caso che aveva travolto nuovamente il mio paese, cosa del tutto anomala e sulla quale, tra l’altro, avevo indugiato a riflettere a lungo.

Salii in macchina, le mollai un bacio sulla guancia a tradimento, la ringraziai per essere venuta a prendermi e le dissi di correre a tutto in gas in farmacia.

«Col cazzo, Di Tursi. Ora te ne vai a casina, mangi qualcosa, ti riposi e non rompi le palle fino a domani».

Giungemmo nel piazzale sotto casa schiacciati da un cielo umido e grigio. L’albero di Natale dentro al portone, ignaro del fatto che da lì a due giorni sarebbe stato smantellato, sfavillava di luci calde e festose. Aveva appena ripreso a nevicare come nel sogno.

Decisi che fosse una premonizione.

«Ho dell’ottimo tonno in scatola, pane in cassetta e un avanzo di panettone: sali su a mangiare qualcosa con me?» dissi a voce bassissima perdendomi nei leggendari occhi di ghiaccio della Ferraris.

«Che proposta alettante! Magari ci spariamo anche una Coca Cola dell’anno scorso e ci lanciamo nella tradizionale gara di rutti. Non so come fare a rifiutare, ma devo farlo. Ti cadrei tra le braccia sopraffatta da cotanto irresistibile romanticismo e avresti buon gioco nell’approfittarti di me».

Finsi che fosse tutto uno scherzo e mi avviai verso casa, ridendo e salutando la mia collega, pronto a riprendere la routine delle mie noiosissime serate da scapolo.


Appena entrato in casa accesi la televisione per rompere il silenzio della mia solitudine. Il telegiornale raccontava dell’omicidio di Leandro nei servizi di cronaca: «La squadra omicidi della Questura di Genova sta seguendo diverse ipotesi investigative», il che significava che non stavano cavando un ragno dal buco. Affrontai il tema pranzo abbruttendomi sul divano con la Coca Cola di cui aveva indovinato la presenza la Ferraris e delle patatine scadute a Natale. Il TG era arrivato allo sport quando mi venne in mente di leggere il foglio di dimissioni dell’ospedale. Presi la busta dalla tasca della giacca e lessi: “Trauma cranico con ematoma in fase avanzata di riassorbimento. Assumere Tachipirina in caso di dolore. Visita controllo il 15 gennaio”.

Nel rimettere la lettera nella busta dell’ospedale mi resi conto che c’era un altro foglio scritto a penna: “Chiamami se hai le palle, cagasotto”, seguiva un numero di telefono, che composi senza nemmeno pensarci. Finalmente potevo sfogare la frustrazione della serata con qualcuno che d’altronde aveva oltrepassato ogni limite.

Al terzo squillo la sventurata rispose: «Buongiorno, cagasotto»

«Chi ti ha dato il mio numero?»

«È nella tua scheda personale, cagasotto».

«Cosa vuoi da me? Perché non la pianti di molestarmi?»

«Perché ho ascoltato i vostri discorsi e ho capito che tu e la tua amichetta siete due dilettanti allo sbaraglio che hanno bisogno di aiuto. Tu poi sei un fenomeno: possibile che siano bastati dieci anni e una tintura rossa per dimenticarti di me?»

«Chi sei, Cristo? Chi cazzo sei?»

«Uh, cos’è, le avevi lasciate a casa le palle, cagasotto? Quando fai così mi turbi. Quindici anni fa soffrivi di sciatalgia, ricordi? Ci vedevamo molto spesso, consumavi Ibuprofene a tonnellate. Ero Silvana, la biondissima commessa della farmacia di Lendro e tu mi corteggiavi, dicevi che l’Ibuprofene ti dava uno stano effetto collaterale...»

«Silvana si, ora ricordo... Ma eri diversa...»

«Mi truccavo molto meno, ora che l’età avanza, invece... Tu non eri l’unico a guardarmi nella scollatura. Leandro, ad esempio, era passato dalle parole ai fatti. Sono stata la sua amante finché non mi ha scaricato per quella puttanella e mi ha cacciato dalla farmacia. Era uno stronzo, ma non mi è piaciuta la fine che ha fatto, non la meritava».

«Chi sarebbe questa “puttanella”?»

«Una del paese. Il nome non lo ricordo, ma lui teneva sempre le foto delle sue amanti, a volte anche riprese in pose sconce.»

«E dove le teneva? Non hanno trovato nulla, ne’ la Scientifica ne’ la Omicidi».

«Hai presente l’armadio di ferro sul retro, cagasotto?»

«Ci avranno già guardato».

«Avranno cercato dentro senza trovare un cazzo. Le foto Leandro le nascondeva dietro, tra il fondo dell’armadio e il muro».

Liquidai Silvana promettendole di portarla a mangiare una pizza al termine delle indagini e chiamai la Ferraris preannunciandole grosse novità, ma, ciononostante, non riuscii a convincerla a fiondarci immediatamente in farmacia: «Devi riposarti, altrimenti telefono in ospedale e ti mando Silvana a domicilio!»


La mattina dopo la trovai sotto casa mia alle nove. Tentammo subito due chiacchiere con Nicole, la storica farmacista che lavorava con Leandro da anni, la quale, presa dallo sconforto del dolore, non fece che parlare bene del suo ex-principale perché, come si sa, oltrepassare la linea della vita fa dimenticare le chiacchiere di paese e così tutti i vizi, i difetti, le maldicenze si trasformano in piccoli cammei che regalano personalità ai defunti e le male parole diventano sospiri di lodi volti a ingentilire le memorie di chi non ha più il potere né di schernirsi né, eventualmente, di compiacersi.

Per cui, anche a domande più dirette sulle amanti di Leandro, di cui spesso si vociferava in paese, la donna si riavvolse nel suo bozzolo di dolore, scrollando la testa e sospirando: «No, no, niente, niente…»

La Ferraris rivolse a Nicole una poco credibile espressione di circostanza, mentre io le diedi una pacca di conforto, chiedendole se potessimo dare un’occhiata al retro e lei, asciugandosi gli occhi, annuì.

«Di certo non si ricorda di quando lo chiamava quel vecchio tirchio» commentò sottovoce la Ferraris, spostandosi verso l’ufficetto di Leandro.

«E neppure quando occhieggiava alle clienti in farmacia, facendo intendere chi fosse la nuova fiamma di Leandro» ribattei io.

Passammo a una sommaria perquisizione. Dapprima, la scrivania di Leandro. Guardai nei cassetti, tra i foglietti sparsi sul ripiano, ma non trovai nulla.

«Guarda dentro al libro, Di Tursi, datti una mossa, cagasotto» fece la Ferraris, sghignazzando. Alzai gli occhi al cielo, poi afferrai il volume sulla scrivania e lo sfogliai in lungo e in largo fingendo interesse nel caso Nicole ci stesse guardando, poi sbirciammo nello scaffale metallico alle spalle della scrivania, ma c’erano solo documenti della farmacia. Prima di guardare dietro bisognava aspettare che arrivasse un cliente a distrarre Nicole.

«Ci siamo» disse sottovoce la Ferraris, scorgendo un’ottuagenaria mattiniera entrare proprio in quell’istante.

Lo schedario era perfettamente aderente al muro e ben allineato ad esso, a nessuno sarebbe venuto in mente di guardarci dietro.

Ci scambiammo un’occhiata veloce. Guardai in direzione del bancone: Nicole era impegnata ancora con la vecchia cliente. La Ferraris accostò la porta e io, prontamente, spostai lo scaffale. Scivolarono subito, a terra, alcune fotografie, che la mia collega raccolse velocemente, infilandole in tasca.

Rimisi tutto a posto, sperando di non fare troppo rumore, poi tornammo in farmacia, dicendo a Nicole di non aver trovato nulla di rilevante e salutandola tra mille convenevoli per non destare sospetti.


Salimmo sulla Panda. Non dicemmo una parola, la Ferraris si diresse a razzo verso Beleno e si infrattò nel parcheggio sullo sterrato dove mi ero beccato una sberla l’ultima volta che le avevo fatto un’avance.

La tensione era a mille, lei tirò fuori le foto e ci mettemmo avidi a guardarle. Erano tre in tutto. La prima ritraeva una donna in intimo e reggicalze a cavalcioni di una sedia, poi ce n’erano altre due: il primo piano in bianco e nero di una donna bellissima e la foto a persona intera della stessa donna distesa nuda su un letto disfatto.

«Io questa la conosco», fece la Ferraris «è Loredana Tosatti!»

«E chi non la conosce...» commentai ironicamente «So dove abita, sta a Vicomorasso, nelle villette sopra la ferrovia».

«Oh, come siamo informati...» sibilò acida di gelosia la Ferraris.

«Andiamo subito a interrogarla!» proposi io.

All’alba delle dieci, la Tosatti ci aprì in vestaglia. Non una vestaglia qualsiasi, ma una fasciante vestaglia di seta allacciata stretta in vita lasciando intuire le forme generose, abbinata a delle deliziose ciabattine rosa col tacco e piume di struzzo dalle quali spuntavano unghie perfettamente laccate. Il viso era magistralmente truccato, le labbra carnose e morbide erano messe in risalto da un rossetto color mattone, mentre il verde degli occhi risaltava grazie all’ombretto in tinta e l’eyeliner.

La Tosatti aveva un’età indefinita, c’era da sempre, nel nostro paesino, e da sempre a ogni suo passaggio gli occhi di chiunque non potevano che fermarsi ad ammirarla.

Era scontato che Leandro ci avesse provato anche con lei, sebbene fosse meno scontato che lei ci fosse stata. La Tosatti non si era mai vista in giro accompagnata da un uomo, e forse ora capivo il perché.

Vidi la Ferraris osservare l’abbigliamento della signora con un sopracciglio alzato. Di certo, non sembrava una vedova inconsolabile.

«Buongiorno, signora Tosatti, siamo stati incaricati dal Pubblico Ministero di svolgere un’indagine sul caso della morte del signor Leandro Pagliani» mentii io, per evitare che la Ferraris si ingarbugliasse con tutte le bugie che avevamo ideato per interrogare la Tosatti.

La donna posò una mano sul fianco, con fare altezzoso.

«In cosa posso esservi utile?»

Con un gesto teatrale la Ferraris tirò fuori da una cartellina le due foto e gliele mostrò.

«Cosa sai dirci di queste?»

La Tosatti diede un’occhiata appena accennata. «Che tutti possiamo compiere errori».

«Cosa intende dire?» domandai all’istante. Una frase troppo pronta, la sua.

«Mai regalare foto del genere a uno spasimante».

«Quindi Leandro è stato questo per lei? Uno spasimante?» incalzai.

La signora Tosatti si spazientì, incrociò le braccia, tenendoci sempre sulla soglia della porta.

La Ferraris intervenne prontamente, con una delicatezza che mi parve, al contempo, imprevista e ammirevole.

«Signora, ci dispiace disturbarla, capiamo che non deve essere un buon momento e non le fa sicuramente piacere rimuginare troppo su quanto successo, ma stiamo cercando di fare chiarezza e ogni dettaglio può essere importante. Possiamo entrare cinque minuti e parlare con calma?».

«Se siete stati mandati dal Pubblico Ministero avrete un mandato o qualcosa del genere per interrogarmi».

«No, signora, non è un interrogatorio. Vorremmo farle due domande in quanto persona informata dei fatti» mi feci avanti io.

La Tosatti ci guardò entrambi, prima l’uno e poi l’altra, infine ci fece segno di entrare e ci fece accomodare in un piccolo quanto esageratamente ammobiliato salotto. Di fronte a noi la biblioteca completamente occupata da libri sugli UFO, gli antichi astronauti, il triangolo delle Bermude ed una serie sterminata di testi sulla New Age. Unica eccezione: un libro dalla copertina rossa, che mi sembrava di aver già visto da qualche parte.

«Avete avuto una relazione?» fece la mia collega.

«Sì, chiamiamola così. Ci siamo lasciati definitivamente l’estate scorsa».

«Posso chiederle come mai?» incalzai io.

«Leandro aveva due pesi e due misure. Era gelosissimo di me, ma lui per primo non rispettava le regole che voleva impormi. Non avevo più voglia di farmi prendere in giro, per cui gli ho dato il benservito. Senza rancore, almeno da parte mia».

«Che lei sappia, Leandro era in contrasto con qualcuno? Aveva dei nemici?» continuai.

«Gli volevano tutti bene, aiutava sempre tutti, quando poteva. Non aveva problemi con nessuno, almeno a me non ne aveva mai parlato».

«Bene» conclusi alzandomi e inducendo la Ferraris a fare altrettanto «Se dovesse venirle in mente qualcosa, non esiti a chiamarci a questo numero» le dissi, passandole un bigliettino da visita.

Uscendo dalla stanza, non potemmo fare a meno di notare un quadro che ritraeva la padrona di casa nella stessa identica posa che aveva nella foto in primo piano.

«Me lo ha regalato Lendro all’inizio della nostra relazione. Lo lascio appeso, nonostante tutto, perché trovo che sia venuto molto bene, non credete?»

Annuimmo entrambi senza dire una parola e ci congedammo. I suoi occhi piantati addosso ci accompagnarono fino al parcheggio.


FINE PRIMA PARTE



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