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E l'estate

di Antonella Grandicelli



L'estate giunse di mattina.

Si spalancò su di noi come fosse una finestra. Grande, immensa di cieli cobalto, intrisa di oli di gardenia e di sudore, striata da strette ferite di rondini, presto sanate dalla luce.

La aspettavamo, tutti; chi seduto sulla soglia di dolori secchi che voleva scrollarsi via; chi rigirandosi tra le mani l'ultimo ricordo che lei gli aveva lasciato andandosene, quasi fosse amuleto per garantirne il ritorno.


Qualcuno di noi aveva aperto gli occhi molto presto, allertato da un saliscendi estatico di canti, piccoli uccelli sonori che grondavano dai rami, si annodavano nell'aria più viva, più densa, strofinavano piccole ali contro un cielo ancora solido.

La notte non si era disciolta, appariva appena una cicatrice violacea sull'orizzonte, un fremito.

Le lenzuola sentivano già l'avvento di una diversa aurora, calde e umide di sogni liquefatti, avvolte alle caviglie come alghe, quasi liquide sotto ai corpi inerti.


Pensammo di non essere pronti a un'altra estate.

L'ultima è poi sempre la migliore vissuta. La migliore possibile. In fondo, irripetibile. Quella che ci ha lasciati nel rimpianto di un amore assaporato sulle dita come sugo di pesca. Quella che eri bambino e giocavi tra le pietre nel fiume, quella che eri ragazzo e baciavi ciliegie travolto da una bellezza che sfuggiva via tra le dita, quella che eri uomo con le braccia grandi a contenere schiocchi di risa inattesi.



Con gli occhi semichiusi, offesi da un ardore rosa che si spingeva su dalla linea dei monti, pensammo di non essere pronti. Avevamo già colto frutti dal sapore intatto, ci eravamo cosparsi di lucciole, persi dentro a labirinti di spighe e papaveri. La terra si era già scurita al passaggio del nostro danzare, luccicanti silenzi di strambe farfalle erano sprofondati nel chiudersi lento delle corolle.


Potevano i tramonti straripare più rossi al di là di un giorno finito? Avremmo potuto ascoltare suoni più veri - sgocciolio di rugiade, craccolare di gazze, voli zigrinati d'api? La notte intanto abbandonava le stanze all'infanzia di un giorno dai riflessi verderame. Il sibilo di un rondone modificava il silenzio, per un attimo. Poi tutto tornava morbido, molle. La quiete s'indorava di grilli, le rane tornavano a cantare d'amore in immobili pozze e lunghi pensieri di formiche solcavano cortecce.


La luce era ora ovunque.

Era aspra nel verde dei fichi, carnosa sulla pelle delle rose già sfatte, bizantina sulle vivide corazze degli scarabei, corrusca nell'ondeggiare immoto dei prati. Ci alzammo da letti di ricordi e lasciammo malinconie appassite, già asciugate dal sole.

Seduti davanti alle case, allargammo la bocca alla vita, aspirammo rapiti le ultime nettarine rugiade e fummo vinti.

L'estate era dentro di noi.




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