di Gholam Najafi
Ciò che sta accadendo in questi giorni in Afghanistan è sotto gli occhi di tutti.
Al netto delle considerazioni geopolitiche o economico-finanziarie, che giornalisti e analisti tentano di fare per dare un senso all'indiscutibile sconfitta di un Occidente dall'animo sempre più asciutto e dalla visione sempre più egocentrica, resta il martirio annunciato di un paese intero, di un popolo a cui era stata promessa la libertà da ogni forma di violenza e costrizione e che si trova nuovamente inghiottito in un baratro di disperazione e dilaniante incertezza sul futuro.
Uomini, donne e bambini rigettati indietro di vent'anni.
Reset. La partita a Risiko è finita.
Chi possiede il gioco non ha più voglia di giocare, rimette a posto i carrarmati e se ne va. Quello che resta, non lo riguarda più.
Gholam Najafi, rientrato dall'Afghanistan, sua terra d'origine, poco prima del ritiro delle truppe americane e della riconquista del potere da parte dei talebani, ci porge il suo sguardo colmo di tutta la poesia e di tutto l'amore possibili per questa terra martoriata.
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente e ci ha raccontato che era tornato il 25 maggio a Herat per fermarsi fino a ottobre e che aveva molti progetti da portare a termine. Progetti di sostegno, di istruzione, di cura e di arte. Ma girando per Kabul, Kandahar e i villaggi intorno si percepiva già che la situazione stava peggiorando. I prezzi dei terreni e degli immobili erano crollati di colpo. Mentre i prezzi dei biglietti aerei aumentavano vertiginosamente. Kabul sembrava una città più forte, che avrebbe resistito, ma non è stato così. Non poteva essere così perchè è stata lasciata completamente sola. C' è un vuoto che lascia disperazione.
I Talebani occupavano i villaggi, soprattutto i terreni di coltivazione dell'oppio.
Con immenso dolore Gholam è stato costretto a rientrare in Italia il 15 luglio, prima che la situazione precipitasse. Lo racconta con grande sofferenza, citando Primo Levi "Voi che vivete sicuri nelle vostre case, considerate se questo è un uomo" pensando a tutte quelle persone che non possono fuggire e sono costrette a restare.
Quelli che sono rimasti? Che ne sarà di loro? Le donne di Herat che prima insegnavano, tenevano conferenze, aiutavano e curavano i tanti disabili negli ospedali, ora gli scrivono che non possono uscire e che si sta iniziando anche a dividere nelle scuole i maschi dalle femmine. Di fatto le femmine devono restare a casa e quindi non istruirsi. E vengono costrette a sposarsi anche con i propri fratelli.
Tornare in Afghanistan per Gholam è stata una esigenza, un modo per ritrovare le sue origini e per vedere con gli occhi di adulto il paese che era stato costretto ad abbandonare a dieci anni, per non morire.
"Quando ho lasciato il mio paese ero piccolo e alcune cose pensavo di ricordarle in modo distorto, come se le avessi immaginate. E invece era tutto così vero. Oggi sono più consapevole. Anche il popolo lo è. Preferiscono essere ammazzati piuttosto che arrendersi."
Cosa possiamo fare noi, al sicuro nelle nostre case? Gli chiediamo.
Parlarne, il più possibile.
Dal Diario di Herat di Gholam Najafi 2021
Per le vie della mia cara Herat andavo con delle domande e parecchie visite da fare.
Tra i vicoli mi accompagnava il vento fresco della prima mattina, sbatteva tra i muri delle case cercando una via d’uscita, che sarebbe arrivata appena il sole avrebbe schiarito ancor di più il cielo, portando le urla e i giochi dei bambini.
Il santuario di Sayed Morteza era la mia prima meta e tutte le mattine facevo conoscenza con i martiri e con le persone stimate dalla gente che lì erano sepolte. Poi i miei occhi si riposavano all’orizzonte, posandosi sui pergolati abbondanti di uva ancora prematura che si arrampicavano tra muri fangosi: io la chiamavo la casa dei vini.
Nell’enorme cortile dove le donne velate bevevano il loro tè sui tappeti afghani, io scrivevo e lei scriveva, guardando lo stesso tappeto scrivevamo lo stesso colore, fili di uno stesso destino intessuto da mani sapienti che fanno e disfanno… oh amatissima città dove ho velato il mio amore.
Le fiamme e i fumi dei forni del cortile avevano annerito i muri della cucina pubblica del santuario dove ogni donna, ogni madre, sorella, nonna e moglie lasciava le impronte delle proprie mani, mani piene di desideri.
Era la fine di Maggio di questo 2021 quando andavamo a sentire insieme i seminari nella sede di "āsayeshgahe pir Herat" (casa di riposo del vecchio Herat); i disabili della interminabile guerra studiano e vivono lì. Intorno a noi gente senza gambe o solo con una, senza mani o solo con una, sordi, ciechi, muti seguivano i nostri applausi chi con il movimento della testa, chi con urla.
Le mie visite proseguivano andando a visitare gli antichi santuari dei grandi poeti di Herat come la tomba di Jami che mi ricordò quella del Canova visitata poche settimane prima alla chiesa dei Frari a Venezia.
Mi muovo tra le lapidi a pezzi che come i minareti e le cupole color smeraldo di Herat sono tutte in restauro: restauri infiniti, qui è tutto da riparare.
I miei giorni correvano con la stessa velocità del vento mattutino di Herat e fra poco sarebbe stato mezzogiorno anche per me.
Avevo ancora tanto da vedere come Shahi Mashad che già a maggio era diventato irraggiungibile a causa dell'avanzata del nemico e mentre il mio pensiero su questa visita rimaneva sospeso, il mio corpo tornava la sera stanchissimo.
Passeggiavo fin che potevo, fino al tramonto: a quell’ora le vie si riempivano di ladri, ladri con in pugno il coltello o la pistola ma anche di gente che scendeva per le vie piene di dubbi e tanta paura. Gente che sognava un cambiamento.
Nonostante queste situazioni non dimenticavo il sogno che avevo sul mio petto, quello di aprire una scuola per la nuove generazioni, scuola d'arte, di lingua, di calligrafia.
Ho finito i miei studi ed oggi sono qui per questo.
Poi, i rumori si facevano sentire sempre di più nelle mie orecchie, sempre più vicino e io lasciai la terra, io, io l'unico che partivo quel giorno e la folla che mi guardava con gli occhi fissi.
Il 15 luglio era il giorno della mia partenza, dall'aereoporto Ansari di Herat, la scuola che doveva essere costruita e l'arte che doveva essere imparata in quella scuola rimaneva sospesa come un ramo appena tagliato dall'albero e che non sa né prendere fiamma e né incenerirsi, un ramo che non è del tutto secco.
Ecco io uscivo da questo viaggio con un antico sentimento, volevo restituire quel poco che potevo.
Così attraversando il Ponte della Libertà rientravo a Venezia per la quarta volta, amorevolmente, colmo di meraviglia, in questa città luminosa dove sono stato nutrito.
Era 16 luglio e il 16 agosto Kabul si svegliò con il sogno di uno e l’incubo di altri. C'era chi aveva l’illusione di atterrare a Washington, correndo dietro il suo aereo come quando io da piccolo correvo dietro a un auto per sentire il gusto di viaggiare ad alta velocità.
Dai cieli di Kabul, un giovane pieno di sogni lasciava il mondo triste. Il suo nome, il suo gesto finiva nei titoli di tutti i giornali, e il suo sogno leggero come le nuvole finiva nella dura terra della cara Kabul.
21-08-2021
Gholam Najafi
Gholam Najafi è nato in Afghanistan a Ghazni.
Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, Turchia, Grecia e infine l’Europa.
Dal 2007 risiede in Italia, a Venezia con la sua famiglia. Si è laureato in soli due anni in “Lingua e letteratura araba-persiana” e si è specializzato in “Lingua politica e economia dei paesi arabi” all’Università Ca’Foscari.
È autore di “Il mio Afghanistan” (Meridiana) da cui è stato tratto un film omonimo, “Il diritto di famiglia in Iran tra le due rivoluzioni” e, "Il tappeto afghano"(Meridiana)
Si dedica a scrivere articoli, racconti e poesie sulla situazione afghana.
Il suo ultimo libro è Tra due famiglie (La Meridiana) . Le foto presenti nell'articolo sono di proprietà riservata dell'autore.
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