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Cumuli




di Arianna Destito Maffeo

 

Il tempo sembrava essersi fermato a quel freddo giorno di dicembre, come la mia vita. Ora la primavera è alle porte con i primi caldi e quel posto sembra respirare ancora il fumo nero con il quale ha smesso di esistere. E’ tutto immobile, mentre intorno la vita ha ripreso la quotidiana, frenetica corsa verso il nulla.

“Locale sottoposto a sequestro” si legge sulla saracinesca a grate. Da lì si può vedere all’interno. I vetri sono spaccati e mostrano lo spettacolo della distruzione, gli scaffali ribaltati, il pavimento ricoperto di fuliggine, i muri anneriti e libri, tanti libri segnati dal fuoco, alcuni quasi indenni, altri senza copertina, o salvati per metà, altri ancora completamente inceneriti, sparpagliati ovunque, come cadaveri dopo un’esplosione. Pagine, carta e detriti. L’odore acre di bruciato ristagna nell’aria,

filtra nelle narici e ti penetra dentro come per ricordarti che lì prima c’era la vita.  La vetrina invece, per uno scherzo del destino, è rimasta pressoché intatta, con gli scaffali appena anneriti di fumo e al centro un libro di cucina in bella vista, con la conduttrice TV che solleva vezzosa la gamba di lato per chiudere il forno, sorridente con un vassoio e una torta invitante tra le mani. Accanto un libro di viaggi, “Laos Cambogia e Tailandia” e l’ultimo romanzo di Andrea Camilleri. I superstiti che si mostrano ancora vitali, mentre dentro, nell’ombra, il nero e desolante vuoto è colmato solo dalla cenere, da quella poltiglia densa e scura spalmata sui ripiani metallici e sul pavimento.

Anche le pagine di questa storia sono sopravvissute. Appena bruciacchiate e annerite, sono lì che richiamano attenzione, in mostra perché non si rassegnano a dissolversi e cessare di esistere.

Un po’ come la mia vita. Stropicciata e consumata, tale e quale un vecchio volume riposto sullo scaffale d’una libreria, uno fra tanti altri, che non sai nemmeno più se possiedi o no. O lo trovi per caso o, se lo cerchi, sai già che non lo troverai mai.

Questo ero io: un libro che nessuno cercava mai o che, tutt’al più, veniva sfogliato distrattamente per essere poi dimenticato in un angolo.

Per quanto mi ricordo, io cercavo poesia e finivo per trovare una realtà così prosaica da risultare insopportabile.


Sono stato un bambino buono, ubbidiente e ho sempre rispettato prima i miei genitori, poi gli insegnanti e infine, da uomo adulto, i miei superiori. Ho sempre seguito le regole perché era giusto così, senza mettere in discussione nulla di quanto mi veniva richiesto. Ho ottenuto un ottimo lavoro di impiegato in un’agenzia di spedizioni, entravo puntuale alle otto e timbravo l’uscita alle diciassette. Da sempre, da quando, compiuti i diciotto anni, ho sostenuto il colloquio di selezione, superato la visita medica e sono stato assunto a tempo indeterminato. Ora ne ho cinquanta, di anni, e ho la fortuna di fare lo stesso lavoro di allora nella stessa ditta che, per mia fortuna, non è stata toccata dalla crisi economica. E infatti tutti ripetono che sono stato un uomo fortunato. Questo è il pensiero comune. Ho sempre condotto la mia vita senza spingermi sopra le righe. Ho misurato i toni, mai un conflitto, mai una parola fuori luogo, neppure con i vicini di casa; anche la casa è la stessa da sempre, imbriccata sulle alture, sotto il forte di Righi. Un po’ scomoda, ma a Genova siamo abituati alla scomodità, per noi è normale e non ci facciamo caso. Salite, scale, discese e vie impervie anche solo per andare a comprare un limone.

Ero un bambino buono, fin da piccolo.  Ricordo con gioia il giorno del mio compleanno, l'otto dicembre. Mio padre aveva preso l'abitudine di farmi trovare nel letto, appena sveglio, un libro e un pacchetto di dolcetti e cioccolatini tutto per me! Era una pacchia. Il giorno dell'Immacolata non si va a scuola e io potevo stare a letto fino a tardi a leggere. Il primo libro fu le favole dei fratelli Grimm, poi con gli anni vennero quelle di Gianni Rodari, e veri romanzi come Le avventure di Tom Sawyer, Ventimila leghe sotto i mari, L'isola del tesoro. Era un appuntamento che attendevo con gioia e un brivido di eccitazione, un momento magico e strettamente intimo, come una bolla ovattata che univa me e mio padre. Uno spazio tutto nostro.

Ma è durato poco.


Lui lavorava come autista dei pullman, quelli blu extra-urbani diretti verso destinazioni lontane, sparse in tutta Italia, e trasportava le persone in viaggio per vacanza o per lavoro.  Non c’era mai, neanche quando era a casa, un uomo discreto che sembrava ogni volta chiedere scusa per la sua presenza.  Accettava di buon grado quello che veniva, senza mai lamentarsi. Il suo lavoro era viaggiare, e per farlo doveva essere altrove e trasportare le persone perché si incontrassero tra loro.

Mia madre, invece, non incontrava neppure i vicini di casa, con i quali aveva litigato prima che io nascessi, cominciando da quelli al pianterreno fino a salire all’ultimo piano. Si era inimicata tutte le signore del caseggiato che la guardavano con malevolenza e sospetto. Forse perché a quel tempo era l’unica donna che avesse un lavoro e si fosse resa autonoma dal marito, mentre le vicine erano casalinghe senza un proprio reddito e anche piuttosto frustrate.  Di certo lei era sempre presente e ingombrante, anche quando non c'era. Tagliente e aspra, non risparmiava battute al veleno e frecciate contro la debolezza e inettitudine di chicchessia. Aveva la pessima abitudine di criticare le persone, fare paragoni per esaltare presunte doti di qualcuno e disprezzare qualcun altro. Il suo bersaglio preferito era naturalmente mio padre. Come quando mostrava agli amici, prima che varcassero la porta di casa, la targhetta sopra al campanello che riportava il titolo di perito industriale: "P.I. sta per idiota" puntualizzava sghignazzando.

Tutti conoscevano quella battuta e nessuno si divertiva più ad ascoltarla.


Alla lunga finì per crederci anche lui, di essere un idiota. La sua colpa, in realtà, era quella d’essere una persona buona e senza pretese. Un debole, secondo mia madre. Uno di quegli uomini trasparenti che confondi con i soprammobili di casa. Puoi dirgli qualunque cosa e loro stanno lì, senza reagire. E quando mia madre lo cacciò di casa − perché anche dei soprammobili si finisce per stancarsi − lei era passata per una rivoluzionaria, una sorta di Fidel Castro al femminile del condominio di via Domenico Chiodo. Certo, non erano molte le mogli che negli anni Sessanta avevano la forza di sbattere fuori i mariti. Ma lei era così. Folle e lunatica, uno spirito ribelle e selvatico, anzi, senza mezzi termini, una svitata totale e chi le ruotava intorno rischiava di bruciarsi le ali. Faceva l’insegnante privata. Questa attività una volta si chiamava “dare ripetizioni”, ma lei faceva molto di più. Le sue lezioni erano argomento di conversazione in tutto il quartiere e in tutti gli ambienti scolastici. Lei possedeva un fascino, un’aura che pochi eletti sapevano vedere. Di certo io non ero tra quelli.

Alcuni studenti la adoravano, la consideravano un genio perché, credo, aveva la capacità di sostenerli e di farsi sentire dalla loro parte. Peccato che non fosse mai dalla mia. Per altri era insopportabile. Io la odiavo.

Ero un bambino strano già da allora. Non mi interessavano i giochi che piacciono a tutti i bambini, a calcio ero negato, ero magrolino, non ero portato per gli scontri fisici e prendevo sempre un sacco di botte; la compagnia dei coetanei mi interessava poco, quando proprio non mi annoiava. La lettura invece mi provocava una sorta di benessere fisico. Sembra assurdo ma stavo bene da solo, in compagnia d’un libro nuovo. Lo afferravo con cupidigia, ne palpavo la consistenza, giravo le pagine, le annusavo per cogliere quel profumo che solo i libri nuovi hanno.

Lo sfogliavo avidamente, catturato dalle illustrazioni, colorate e lucide. Ne ricordo uno sugli animali. Lo lessi e rilessi fin quasi a impararlo a memoria. La storia degli animali della giungla mi affascinava. Imparai subito quanto crudele potesse essere la natura nel dirimere questioni di sopravvivenza e di supremazia. Una specie che assalta l’altra. Famiglie della stessa specie in guerra tra loro. Sembrava di essere a casa mia. Ero figlio d’una leonessa, il figlio venuto male, quello ignorato e rinnegato che si bastava da solo. Per fortuna a nutrirmi provvedevano le storie.


Non ne ero mai sazio. Mi chiudevo nella mia camera, che non era proprio adatta a un ragazzino.  A mia madre non piacevano gli arredi per bambini, in realtà credo che non le piacessero proprio i bambini, la mia stanza era stata ricavata da un disimpegno, una sorta di studiolo, come usava negli anni Sessanta.  C’erano una libreria, un letto a scomparsa, un divano in pelle nera con i bottoni rossi e una scrivania in mogano. Vivevo lì dentro, con i libri dappertutto e gli immancabili ninnoli, angioletti e ammennicoli vari sparsi dappertutto. Me ne stavo seduto sul divano circondato da centinaia di storie, fumetti, disegni e fantasticavo. Immaginavo di lavorare al circo e che la mia camera fosse una roulotte attrezzata di tutto; non avevo bisogno di niente e la mia famiglia erano i circensi con i quali ci accampavamo per breve tempo in un luogo e poi ripartivamo verso nuove avventure. Io facevo l’acrobata. E forse, senza saperlo, lo ero davvero.

La nostra casa era un via vai di studenti d’ogni età e ordine di scuola. Dal liceo all'università, a tutte le ore c'era qualcuno che aspettava seduto nell'ingresso perché mia madre con gli altri non si risparmiava e sforava l’orario delle lezioni. Alla sera finiva sempre tardi. Mangiavo da solo, per lo più una scatoletta di tonno o un piatto di pasta. Sembrava sempre infastidita da qualcosa. Credo che pensasse che il solo fatto d’essere fisicamente presente la autorizzasse a sentirsi libera di ignorarmi. Come dire "se avrà bisogno mi chiamerà lui". Ma io non chiamavo. Neanche quando avevo bisogno. A poco a poco stavo diventando come mio padre, mi sentivo un rifiuto ingombrante e temevo che solo il fatto di esserci e respirare le desse fastidio. Ero un idiota anch’io, anche senza il titolo di perito industriale.

Avevo frequentato il liceo classico. Soprattutto i primi anni, quelli del ginnasio, trascorrevo pomeriggi interi a studiare, fino a tarda sera. Uscivo di rado.

Quando tornavo da scuola, all’ora di pranzo, non trovavo quasi mai niente di pronto e lei aprendomi la porta mi diceva gesticolando e scuotendo la testa: " Guarda un po’ cosa trovi nel frigo, cucina una fetta di carne o preparati due uova, io devo lavorare". E si infilava nella stanza delle ripetizioni che teneva rigorosamente chiusa, con le persiane abbassate e un’enorme sveglia sulla scrivania che scandiva il tempo.

Lei diceva che odiava cucinare ma credo che, in realtà, odiasse occuparsi di me.

E io non avevo fame di cibo.


Avevo preso l’abitudine di uscire il sabato per andare in centro a curiosare nelle librerie alla ricerca di qualche nuovo romanzo. Soprattutto quelli che non ti fanno leggere a scuola, erano quelli che mi interessavano di più. Ero diventato un cacciatore di storie.

Nella bella stagione mi   portavo un libro in giardino e trascorrevo le ore immerso nel silenzio e nella lettura. Iniziavo alle due del pomeriggio e in un attimo arrivava la sera. Non ero più consapevole della realtà che mi circondava. Il desiderio di saziarmi delle vite degli altri, raccontate nei romanzi, aumentò fino a diventare un’ossessione. Dovevo incessantemente appropriarmi di volumi nuovi.  Era diventato un autentico piacere fisico, soprattutto dopo la scoperta che c'erano libri proibiti, dalla copertina invitante, magari con una figura lasciva di donna o i corpi nudi di Amore e Psiche avvinghiati l’uno all’altra. I particolari, i dettagli più scabrosi si insediavano dentro di me procurandomi un delizioso brivido in tutto il corpo.

Senza quasi accorgermene, a poco a poco mi ero costruito una tana fatta di libri accatastati uno sopra l'altro. Impilarli un po' ovunque era diventato un gesto meccanico. Essi occupavano uno spazio importante, essenziale, nella mia vita, neanche fossero persone in carne ed ossa. Ancora di più se contenevano storie che dovevo ancora iniziare a leggere. 

Così la lettura divenne la mia esclusiva occupazione, fino a trascurare gli studi. E mia madre, con un ghigno perfido e il sopracciglio alzato, era solita rimproverarmi e svalutare ogni cosa che leggessi. Una volta trovò il romanzo di Scott Fitzgerald Il grande Gatsby e lo lanciò sul divano sprezzante, come fosse spazzatura.

“Almeno facessi le letture giuste” sibilò digrignando i denti, ma era una menzogna, per lei non c’erano letture giuste, qualunque libro avessi preso in mano lo avrebbe criticato. Ma io non demordevo e proseguivo nella mia ricerca della storia perfetta. 

Nel frattempo, sotto una valanga di volumi, avevo seppellito la solitudine della mia adolescenza. 


Avevo trovato un posto familiare dove rifornirmi, alla Fiera del Libro di via Brigata Liguria. Entrare in quel posto era, per me, come varcare la soglia d’un tempio e dissetarmi a una fonte primigenia. Di colpo provavo una sorta di benessere e tutte le mie inquietudini si dissolvevano.  Ricordo bene che i libri erano posizionati in bella vista proprio all'ingresso, quasi per terra, e per me quelle copertine colorate erano allettanti come lo sarebbero i cavolini alla panna per un goloso di dolci. Ero goloso di letture.

Crescendo cominciai a frequentare anche le biblioteche, dove incontravo ragazze della mia età che mi lanciavano occhiate cariche di scetticismo e perplessità. Ero impacciato e timido e di certo non avevo la fortuna di avere un fisico prestante. Mi limitavo a guardarle di nascosto e, quando mi accorgevo d’essere oggetto della loro attenzione, nascondevo la testa dentro a un libro.

Libri e tensione erotica andavano di pari passo. Uno alimentava l'altra. Ricordo un giorno d’estate in cui mi arrampicai sulla libreria in alto dove mia madre teneva certi libri.  Mi imbattei per caso in Histoire d'O.  Compresi subito di cosa si trattava. Iniziai a sfogliare le pagine con ingordigia, eccitato sessualmente, finché trovai un brano così provocante che corsi a chiudermi in bagno e mi masturbai tre volte di fila.

La foga di cercare il torbido e l’intrigante alimentava il desiderio. Fu poi la volta de L'amante di Lady Chatterley, Tropico del cancro e Il delta di Venere.  Alternavo momenti di vera e propria fregola a fasi di olimpica serenità. Dai romanzi erotici passavo ai grandi narratori russi: Tolstoj, Dostoevskij, Gogol’, Pasternak, Bulgakov; quindi ai francesi: Balzac, Flaubert, Proust, Celine.   Li leggevo e rileggevo senza seguire un criterio preciso. Talvolta succedeva che i libri che avevo amato alla follia mi ingenerassero prima fastidio e poi un progressivo rifiuto, fino alla nausea. Insomma, alcuni non potevo più neanche aprirli. Li odiavo con tutte le mie forze e dovevo eliminarli. Intanto mia madre continuava a trattarmi come fossi una sua proprietà e non una persona. Quando si ricordava di me tornavo a esistere, altrimenti ero un intralcio alla sua vita.

Durante le lezioni agli studenti la sentivo urlare.  Decantava il sacrificio degli eroi romantici e l’atarassia dei filosofi greci. Alternava appassionate dissertazioni sulle tragedie di Sofocle ad acute chiose alla Critica alla ragion pratica di Kant. Attraverso la porta chiusa mi bevevo ogni parola delle le sue incredibili lezioni. Gli studenti ascoltavano in religioso silenzio e, incredibilmente, usciti da lì a scuola miglioravano, anche i più asini. Casa nostra era diventata una sorta di santuario dove gruppi di ragazzi e ragazze in difficoltà venivano in pellegrinaggio, salendo fin lassù, alle falde del Righi. Rimanevano incantati, come al cospetto di un guru. E più mia madre era amata e più io la odiavo. Non mi importava quanto gli altri la amassero.  Io volevo che lei amasse me. 


Proseguivo nella mia ricerca del romanzo nuovo, quello ancora da leggere. Appena scoprivo un titolo, la mia anima ingorda mi sussurrava che dovevo averlo. Ero diventato un feticista solitario: il piacere nasceva con me e con me finiva.

Di questo tratto del mio carattere la vita cominciò a elargirmi tassative conferme.

Quando provai ad avviare qualche relazione, mi accorsi che il desiderio di rimanere in solitudine cresceva. Avvertivo l’urgenza di appartarmi nella mia casa, in quella stanza senza identità, a metà tra un salotto e una sala d’attesa, con un libro e senza compagnia. Mi risultava difficile staccarmi dai demoni che alimentavano la mia rabbia.  L’unica cosa che perdonavo a mia madre era la passione per lo studio, perché la stessa passione l’aveva trasmessa a me. Capitava perfino che riuscissimo a comunicare attraverso i libri. Succedeva di rado, ma succedeva.

Quando non ci facevamo la guerra.

Da piccolo soffrivo d’asma e per mia madre la cosa costituiva l’ennesima seccatura. Quando mi prendevano le crisi la vedevo insofferente, sempre maldisposta. Mi curava, e lo faceva con scrupolo, ma da ogni suo gesto trapelavano fastidio e disapprovazione. Sembrava non riuscisse a non rinfacciarmi la malattia come fosse una colpa. Perché la mia colpa, in verità, era quella d’essere venuto al mondo.

Una volta mi controllò un compito di inglese che non era andato bene. La vidi irrigidirsi e, nel silenzio sospeso di quell’attimo, compresi che stava per accadere qualcosa. Venni colpito da un manrovescio che mi scaraventò a terra. La sua furia durò pochi minuti. E sapevo, mentre una scarica di botte si rovesciava sul mio gracile corpo e la sua voce inferocita mi insultava, che da lì a poco sarebbe tutto finito.

“Brutto a-s-m-a-t-i-c-o del cazzo” scandiva a ogni colpo.

La odiavo ancora di più.


Gli anni trascorrevano e, senza accorgermene, diventai adulto.  Cercavo di stare in casa il meno possibile. Mi gettai anima e corpo nell’attività sportiva e mi detti al podismo. Correvo per stordirmi con la fatica e perfino col dolore fisico. Quando tornavo a casa, alla sera tardi, lei era già a letto. Oppure la trovavo davanti al televisore che per la centesima volta guardava C'era una volta in America. Era diventata una donna ossessiva e abitudinaria, rivedeva sempre gli stessi film. Odiavo anche questo di lei.

Nonostante tutto non ce la facevo ad andarmene, a vivere in un posto diverso. Non riuscivo a staccarmi da lei, eravamo uniti nella cupezza di quel luogo immerso in una tetra e perpetua penombra. Il giardino, dove mi rifugiavo da bambino immaginando di visitare luoghi lontani, in viaggio con la mia immaginaria carovana circense, era infestato dalle erbacce e dai topi e né io né mia madre osavamo più uscire all’aperto.

I silenzi tra noi erano immensi. Anche quando parlavamo del tempo o di politica. Ciascuno era una monade, chiusa in sé stessa. Ciascuno era un libro sgualcito.

Persino alla sua morte non provai nulla. Non riuscii a versare una lacrima.

A dire il vero neppure a quella di mio padre, che era morto due anni prima.

Niente. Non provavo nulla.

Possibile che tutto mi scivolasse addosso?

Avevo mai sentito qualcosa?

Intanto continuavo a rifugiarmi in qualche tempio librario.

Possedevo ormai una vastissima biblioteca e in casa non avevo più spazio dove collocare i libri. Così avevo fatto ripulire il giardino e costruito una piccola baracca dove custodirne una parte.

Quelli ancora da leggere mi incutevano rispetto. Li guardavo con devozione. Al contrario, quelli già letti li maltrattavo, li stropicciavo, gli facevo le orecchie, li segnavo, arrivavo a strapparne qualche pagina. Quelli che non mi erano piaciuti, poi, li abbandonavo a sé stessi fino a dimenticarmene, come se li gettassi da una botola, come accade con le persone quando qualcuno ti delude. Quelli che invece amavo li tenevo in un luogo preciso, a portata di mano, in modo da averli sempre a disposizione.

Le bancarelle erano sempre state i luoghi dove mi rifornivo. Come un drogato in astinenza, andavo a cercare il mio pusher per prendermi la mia dose. Ci trovavo delle vere e proprie perle a prezzi stracciati. Un Moravia raro come 1934, la prima edizione italiana de La metamorfosi di Kafka, libri di psicologia, polizieschi di Hammett e Mc Bain, perfino tesi di laurea rilegate abbandonate da chissà chi. Continuavo a cercare la mia vita in quelle degli altri. Mentre rovistavo tra cumuli di libri mi tremavano le mani. Ma non esisteva il libro perfetto. E io mi arrovellavo scartabellando senza sosta, fino a esaurire ogni residua energia. Spendevo tutti i miei soldi acquistando libri. E quando ne avevo fatto una scorta mi sentivo in pace con me stesso e con il mondo. Ma durava poco. L'inquietudine tornava e dovevo tornare ad aggirarmi come un predatore in caccia. Nel frattempo anche la baracca del giardino era satura e, per sistemare i nuovi volumi, avrei dovuto costruirne un’altra.

Non potevo continuare così, qualcosa doveva cambiare.


Il giorno in cui decisi di agire era uno come tanti.  Mi ero alzato presto, avevo fatto una ricca colazione, con caffellatte, fette biscottate, burro e marmellata.

Se quello doveva essere il momento, volevo che fosse sublime, come non era mai stata la mia vita. Preparai lo zaino, presi con me poche cose fra cui un vecchio libro di mia madre e scesi verso il centro. Ero ormai abituato a percorrere quelle viuzze in discesa e conoscevo ogni ciottolo, ogni mattone delle crêuze che dalle alture portano in centro. Scendere in apparenza è facile. Ma in realtà non lo è affatto. La discesa, nella vita, è sempre il percorso più complicato. E’ come precipitare e a nessuno piace perdere il baricentro.  Io avevo perso molto di più.

Alla soglia dei cinquant’anni avevo vissuto una vita non mia. Delle infinite possibilità che avrei potuto cogliere non ne avevo afferrata nessuna. Non scegliere è la peggior scelta che si possa fare. Ma ora avevo tutto chiaro. Nessuno mi avrebbe fermato.

Il passo svelto e sostenuto era sempre stata una mia caratteristica, finalmente ora la mia strada aveva una direzione. Arrivai velocemente in Piazza De Ferrari dove in pompa magna si stava inaugurando la Fiera del Libro. La fanfara della politica e la passerella dei notabili locali al gran completo, nessuno escluso. Io ero lì, ma era come se non ci fossi; non contavo nulla per nessuno e nessuno si accorse di me. Del resto, perché avrebbe dovuto essere diversamente? Non esistendo per me stesso, perché avrei dovuto esistere per gli altri? Quando mi trovavo a pronunciare il mio nome in qualche ufficio amministrativo, l’impiegato me lo faceva ripetere due, tre volte. E poi mi guardava come se fosse una colpa possedere un cognome così insignificante. Tutta colpa di mio padre: si chiamava Bianchi, e quel cognome anonimo, senza sugo, lo ha trasmesso anche a me.

Proseguii lungo via XX Settembre in direzione contraria al flusso di folla che saliva verso la piazza. Sempre in direzione contraria. Così credevo d’aver vissuto la mia vita, ma era tutta un’illusione. Mai nessuno era stato più omologato di me. Non mi ero mai ribellato. Avevo vissuto nella stessa casa per cinquant’anni, quella che mi aveva visto nascere. Lo stesso giardino, le stesse mensole, gli stessi mobili, lo stesso panorama avevano riempito i miei occhi per cinquant’anni. Ammuffire senza rendersene conto, oltre a tutto il resto, rende la vista annebbiata. Non avevo saputo vedere, gli occhi dolenti e velati dalla paura.

Ora mi pareva tutto luminoso. Tutto chiaro. Nell’aria gelida di dicembre, in mezzo alla folla brulicante di vita, procedendo in direzione contraria io andavo incontro al mio destino. Finalmente prendevo posizione. Per la prima volta nella vita non avevo dubbi. Ormai non mi servivano più.


Attraversai all’altezza dell’incrocio tra corso Buenos Aires e viale Brigata Bisagno.  In quei giorni l’inverno si era annunciato improvviso e freddo come le brutte notizie. Ma non lo sentivo. Non avevo coscienza del freddo e del caldo. Come anestetizzato, proseguivo il mio cammino di distruzione. Anzi, il freddo mi aiutava a coltivare la rabbia repressa da sempre. Avevo stampato nella mente il volto sprezzante di mia madre. Ero sempre stato il deficiente, l’asmatico del cazzo, il buono a nulla, quello che “tanto non sarai mai all’altezza dei miei studenti migliori”, “vorrei sapere cosa capisci dei libri che leggi”, il tutto ripetuto scrollando il capo. Ero ancora lì, con le lacrime agli occhi.

L’insegna del Casinò dalle vetrine oscurate, sull’angolo, prometteva vincite milionarie e sogni che aspettavano d’essere realizzati, ma mi ricordò l’ingresso d’una agenzia di pompe funebri dove si vendevano morte e dolore. La pellicceria demodé esponeva un cartello al ribasso che avrebbe dovuto invogliare qualche improvvido cliente ad acquistare un manicotto invenduto da anni.  Di seguito, un negozio di cineserie appeso al filo del fallimento. In mezzo, eccola. Lei. Troneggiava come un tempio greco, una cattedrale gotica. Una delle tante librerie della città. La Prescelta dal Destino. Stipata di volumi d’ogni genere. Con la vetrina luccicante arricchita di strenne e colorati addobbi natalizi. Era viva.  Si approssimava l’ora di chiusura per la pausa pranzo. In città, a dispetto della globalizzazione, c’erano ancora negozi che nella pausa abbassavano la serranda. E questo mi rimandava a un tempo lontano, all’infanzia e al rifugio della casa materna. Tutto ciò che è passato rassicura perché non è più. Ma la mia era stata una casa matrigna e quel rigurgito di nostalgia durò giusto il tempo di realizzare che si trattava d’una menzogna, un imbroglio. Prevalse una sana rabbia al ricordo di quel povero bambino inerme, disperato e solo.

Le luci si stavano spegnendo. Riuscii a nascondermi nel bagno della libreria, un gesto istintivo ma efficace. Sentii la commessa, una giovane dall’aria frettolosa, affaccendarsi a chiudere il locale. C’ero riuscito. Ero diventato, ancora una volta, invisibile. Era senza dubbio quello che sapevo fare meglio. A poco a poco aprii la porta, con delicatezza, e mi guardai intorno. Non temevo d’essere scoperto, ma avevo una sorta di rispetto per il luogo in cui mi trovavo. Una immensa vastità di libri mi appannava la vista, quel profumo di carta stampata era l’afrodisiaco che per anni aveva eccitato i miei sensi. Mi aggiravo tra i classici. Sebbene ne avessi letti fin da ragazzo, trovavo sempre un romanzo che mi ero ripromesso di leggere senza averlo fatto. Il negozio, in quel magico momento, era tutto per me: il mio parco giochi. Saltellavo in preda a un’euforia da drogato che mi portava a danzare tra uno scaffale e l’altro. Passavo da Viaggio in India, a I segreti d’Italia, a Meditazione dinamica, Con te o senza di te, La danza della vita, Le illusioni perdute, Dalla parte di Swann, L’idiota, La cuciniera genovese. Un romanzo via l’altro, un libro illustrato via l’altro. Favole per ragazzi, fumetti Marvel, Zero Calcare, un turbine di storie. Supereroi, antieroine, gialli, thriller. Cominciai a scegliere secondo i miei gusti, poi presi quello che capitava in un delirio crescente, accatastai tutto al centro della stanza. 

Nella foga transitai davanti al vetro di uno scaffale e vidi la mia immagine riflessa. Feci un balzo all’indietro, il mio sguardo mi spaventò.

Gli occhi sgranati, le pupille accese, le guance incavate. Sembravo davvero un drogato, o un pazzo, o entrambe le cose.

Ma dovevo proseguire e portare a termine il mio compito. Così, finalmente, sarei riuscito nell’impresa. Mancava davvero poco alla realizzazione della mia opera d’arte. Finalmente sarei esistito per il mondo intero.


Mi guardavo intorno, ero circondato dalla bellezza, dalle parole e dalle voci tramandate nei secoli, voci sublimi al confronto con le parole storte dei nostri giorni.

Potevo quasi udire il sussurro di quei volumi. Estrassi dallo zainetto la foto di mia madre e uno dei suoi libri preferiti di filosofia, La volontà di potenza di Nietzsche. Era ingiallito dal tempo e, in margine alle pagine, portava le sue note scritte con quella calligrafia minuta, leggera, vergata con la matita.

Buttai tutto lì, sul pavimento. Estrassi un accendino che avevo portato da casa e provai a dare fuoco. Non funzionava. Avevo preso l’accendino sbagliato. Assurdo, pensai. Sono arrivato fin qui, non posso fermarmi adesso. Sarebbe stupido. E intanto vedevo l’immagine di mia madre ghignante che mi ricordava che ero un buono a nulla, insomma il solito deficiente. Provai ad agitarlo. Un’altra scintilla a vuoto. Cominciò a prendermi il panico. Che fosse un segno? Lo scossi con più vigore. Senza risultato. Al terzo tentativo la fiamma si accese. Rimasi a fissarla, imbambolato e quasi incredulo. Col respiro corto e la mano tremante cominciai a dare fuoco a una pagina del libro di mia madre. Uno dopo l’altro avvicinai gli altri, che erano sparsi a terra. Le copertine più lucide e dure cominciarono a piegarsi e accartocciarsi. Una vampata di fumo bianco salì dalle fiamme e prese a volteggiare verso l’alto.

Rimasi qualche minuto ipnotizzato a osservare il falò che montava, sprigionando un piacevole calore. Poi di colpo qualcosa mi svegliò. Le fiamme si erano diffuse e stavano divorando interi scaffali. Un fumo nero e denso aveva invaso il locale.  Cominciai a correre verso la porta d’ingresso, ma la serranda chiusa mi impediva di uscire. Strisciai sul pavimento, lungo le pareti ancora libere dal fuoco; cercai di passare tra uno scaffale e l’altro. Il fuoco divampava come un vortice e lambiva e divorava ogni cosa; uno scaffale metallico si staccò dal muro e si abbatté su bancone, proprio sopra di me. Rimase in bilico, sospeso, e mi riparò quel poco che bastava per non finire arso come i libri che mi circondavano, ma cominciavo a lacrimare e non respirare più.

Poi accadde qualcosa che non so spiegarmi. Alzai lo sguardo e mi accorsi che nel muro, là dove era stato ricavato uno spazio in cui gli autori presentavano le loro opere, si era aperto un varco che metteva direttamente sulla strada. Quando avevo ormai perso la speranza, si spalancava un’agile via di fuga. Non ci pensai due volte e mi precipitai all’esterno. Ero salvo. L’aria gelata mi attraversò i polmoni procurandomi una sensazione di benessere che non avevo mai provato prima. Cominciai a correre, facendomi largo tra la folla che si era assiepata davanti al negozio. Senza fermarmi. Via, lontano. Continuai a correre, sempre più veloce. Un’energia immensa pompava sangue nelle vene, nei muscoli, in tutto il mio essere che non voleva morire. Ero ferito. Annerito. Con i polmoni intossicati. Ma non mi ero mai sentito così leggero nella vita. Mentre mi arrivava in lontananza il suono delle sirene dei pompieri, raggiunsi il mare. Mi acquattai su uno scoglio, davanti a una mareggiata con le onde che esplodevano in un delirio di spuma, in cerca di aria e di luce.

Mi sentivo libero. Per la prima volta nella vita.  

 


 


Il racconto Cumuli fa parte della raccolta "La Liguria brucia" (Lo Studiolo, 2019).


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