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UNA LETTERA DAL PASSATO. MISTERO AL ROSETO DI MURTA

CRONACHE DI UN ORDINARIO GIALLO DI PROVINCIA


PARTE SECONDA




di Chiara Ferraris e Claudio Di Tursi


Non ci pensai due volte, a “smanettare”, come aveva detto la Ferraris. Passai la notte a intrufolarmi in vecchi archivi della RAF che qualche solerte soldato inglese aveva digitalizzato e messo su internet perché di quel passato glorioso nulla fosse andato perduto.

Mi imbattei in un database protetto da password che mi solleticava non poco. La pagina di login recitava: “Database of Royal Navy missions from September 1939 to August 1945. Participating, killed in action and missing soldiers”. Mi attaccai alla pagina come un mastino, cercai di violarla con tutte le tecniche di hacking che conoscevo, provai tutte le password che potessero venire in mente a un soldato inglese ma senza successo.

Alle quattro e quaranta diedi la notte per persa, inserii la cialda nella Nespresso e premetti il bottone. L’odore della caffeina ebbe il potere di ristabilire il collegamento tra gangli e sinapsi e finalmente mi venne in mente la cosa giusta da fare. In basso a destra, compariva la data in cui la pagina era stata messa in rete “March 30, 2003”: ecco perché con le moderne tecniche di hacking non cavavo un ragno dal buco! Mollai lì il caffè e andai in dispensa a recuperare un vecchio numero di Hacker Journal in cui veniva spiegato l’attacco SQL Injections, una cosa vetusta alla quale sicuramente gli ingenui informatici della Royal Navy non avrebbero pensato. Diedi per scontato la presenza della tabella Users e dell’utente admin, composi il comando traditore nello spazio della pagina in cui si sarebbe dovuta inserire la password e diedi l’invio.

Magicamente, il database si aprì.


Brividi, mani tremanti, per un attimo mi si annebbiò anche la vista. Una sensazione di eccitazione incredibile mi pervase, il sonno mi passò di colpo, l’adrenalina stava ripulendo le fibre del mio corpo dalla stanchezza. Nel delirio di onnipotenza sentivo vicina la presenza della Ferraris che invece, a quell’ora, era sicuramente al terzo sonno, rintanata sotto le coperte come una gatta con problemi di narcolessia.

Il menu di ricerca prevedeva due voci: ricerca per persone, ricerca per luogo. Azzardai quest’ultima, scrissi “Genoa”. Dopo qualche secondo, la pagina dei risultati cominciò a materializzarsi. L’occhio mi cadde immediatamente sull’Operation Grog, 9 febbraio 1941– Genoa. Wikipedia mi aiutò a diradare le nebbie che mi avvolgevano il cervello: l’“operazione Grog” era nota come il secondo bombardamento navale di Genova e fu messo in atto il 9 febbraio 1941 dalla Royal Navy. Dietro quel nome in codice si nascondevano distruzione e sofferenza: anche se gli obiettivi furono per lo più navali e industriali, primi fra tutti i cantieri Ansaldo e le fabbriche che si trovavano ai due lati del torrente Polcevera, i morti furono 140 e i feriti più di 300. Nel centro della città, furono colpiti anche alcuni edifici storici; fu in questa occasione che un enorme proiettile colpì la cattedrale di San Lorenzo e dopo aver perforato due muri maestri si adagiò sul pavimento senza esplodere.


Continuai le ricerche e scoprii la cosa più importante di tutte, quella che mi avrebbe elevato al ruolo di eroe del cyberspazio agli occhi della Ferraris. Il bombardamento navale fu guidato da tre aerei partiti di primo mattino dalla Ark Royal, una portaerei che faceva parte della flotta attaccante; a bombardamento concluso, uno non ritornò alla base. Il database violato, per quell’aviatore mancante all’appello, riportava la voce “missing”, non “dead”. Cercai ancora come un forsennato per stanare altre informazioni ma racimolai nulla di più; forse bisognava fare un giro in qualche biblioteca e scovare notizie sui quotidiani dell’epoca…

Ormai si era fatto giorno, all’incontro trionfale con la Ferraris mancava solo un’ora scarsa. Mi precipitai sotto la doccia, il getto caldissimo mi rigenerò completamente. Mi vestii di tutto punto ed azzardai anche qualche goccia di un dopobarba dozzinale che avevo acquistato al Diperdì di Manesseno una quindicina d’anni prima in occasione di un appuntamento galante finito malissimo, l’ennesimo due di picche estratto a sorte dal mio personale mazzo delle figure di merda.


«Questa sì, che è una cazzo di pista!» esplose la Ferraris, dopo che ebbi snocciolato tutta la sequenza di azioni che avevo compiuto quella notte. Non posso negare di aver calcato la mano sulle mie intuizioni, rendendole ancora più eclatanti. «Bravo Di Tursi, ti meriti…»

«Cosa, cosa? Un appuntamento, cosa?»

La Ferraris mi lanciò un pacchetto di patatine.

«Tieni, le hanno trovate stamattina dietro il distributore automatico, sono scadute da tre mesi» fece lei, esplodendo a ridere.

«Inutile che fai la dura, Ferraris…» attaccai ostentando sicurezza e raccogliendo il pacchetto al volo, «un giorno o l’altro cadrai sotto i colpi del mio fascino come una pera matura e succosa cade dall’albero...»

«…sfracellandosi marcia al suolo! Meglio acerba e zitella!» concluse ineffabile la Ferraris, smontandomi come un Lego riuscito male. «Suvvia Di Tursi, finiscila di sparare cazzate e mettiti la giacca che ti cade così bene che George Clooney levati proprio… Ci spariamo un giro alla Berio a cercare conferme ai tuoi deliri notturni.» La seguii contento della considerazione sottintesa nella decisione di partire subito per la biblioteca nonostante le solite parole di scherno.

La conoscevo bene ormai, la Ferraris. L’avevo colpita, lo sapevo io e lo sapeva anche lei.


«Avete un appuntamento?» fece con tono gentile ma deciso il bibliotecario prima di consentirci di accedere all’emeroteca. La Ferraris lampeggiò un paio di volte con i fanali che si ritrovava al posto degli occhi e mentre sguainava il tesserino si sparò la posa: «Siamo qui per un indagine riservata».

Ci facemmo portare le copie del Secolo XIX e del Corriere mercantile del 10 febbraio 1941 e iniziammo a cercare riferimenti a quel dannato apparecchio che aveva mancato l’appuntamento con la Ark Royal per il rientro. Era quel genere di notizie che faceva comodo alla stampa di regime, qualcosa ci doveva essere. Qualcosa da prendere con le pinze, visti gli enormi condizionamenti che subivano i giornali dell’epoca.

La ricerca non durò molto, entrambe le testate con toni trionfalistici da Istituto Luce raccontavano dell’impresa formidabile della contraerea italiana che aveva abbattuto un aereo inglese caduto nei pressi del Monte Leco. Nessun riferimento all’equipaggio. Scattai le foto agli articoli col cellulare mentre la Ferraris, rivolgendo un sorriso con più denti del normale al povero bibliotecario ormai completamente soggiogato, lo pregava di dimenticare di averci visti.


«Allora, Mata Hari, stai andando dove penso io?»

«Sì, gelosone, Norma forse ci può raccontare ancora qualcosa…» guardai le sue dita affusolate mentre attivava il lampeggiante della Panda per uscire più agevolmente dal traffico genovese. Aveva ragione, ero geloso senza averne diritto. Ci voleva un cambio di strategia, basta rendersi ridicoli con goffe avances ed allusioni. Da quel preciso istante mi sarei concentrato solo sul caso, l’avrei conquistata col mio acume.

Appena le leggemmo gli articoli, nella mente di Norma si aprì come una porta.

«Quel maledetto aereo…» fece sconsolata «…lo avevo quasi dimenticato.» Ci fu una pausa lunghissima, la Ferraris prese un bicchiere dalla credenza, lo riempi con l’acqua del rubinetto e lo porse a Norma che la ricompensò accennando un sorriso.

«Renata e gli altri ragazzi della banda ci divennero pazzi, dietro a quell’aereo».

«Quale banda?» domandammo all’unisono la Ferraris ed io.

«Erano ragazzi di qui, quasi tutti dell’età di mia sorella, qualcuno più grande, qualcuno più piccolo. All’inizio si vedevano per dare quattro calci al pallone, ma poi avevano iniziato a interessarsi di politica. Il parroco gli aveva dato una saletta dove parlare e loro ci andavano quasi tutte le sere».

«Parlare di cosa?» mi venne spontaneo chiedergli.

«Di cose che volevano cambiare. Dopo i fatti del ‘43 si unirono quasi tutti ai partigiani della brigata Balilla, compresa mia sorella».


«Norma, ci stavi raccontando dell’aereo…» azzardò mestamente la Ferraris.

La donna scosse la testa, tornando al suo racconto. «Insomma, mia sorella e i ragazzi partivano quasi tutti i giorni per Monte Leco. Uno di loro aveva a disposizione il camioncino del padre, li caricava tutti nel cassone e via a cercare l’aereo che si era schiantato sul monte.»

«E poi com’è andata a finire?» chiese la Ferraris che era ormai entrata in sintonia con Norma.

Lei scosse nuovamente la testa. «Non lo so. È stato proprio in quei giorni, come vi ho già detto, che io e mia mamma ci siamo trasferite a Genova da mia zia Lina. Mio padre era finito al confino come antifascista e mia madre non riusciva più a sbarcare il lunario. Anche lei era una sarta come me e come Renata, ma anche rammendando camicie, pantaloni e cappotti notte e giorno i soldi erano pochi. Così zia Lina, che le aveva trovato un posto come donna di servizio in una famiglia della Genova bene, ci ospitava in casa sua, l’appartamento di servizio della portineria di un palazzo di Via Balbi di cui mio zio era custode. Renata era rimasta da sola, qui, a occuparsi dell’orto e di questa casa, l’unica cosa che ci era rimasta e che mio padre ci aveva chiesto di difendere con i denti, prima di andarsene».

«E della “banda”, qualcuno è rimasto vivo?» chiesi a mia volta, anticipando la Ferraris che annuì perché evidentemente aveva in mente la stessa domanda. «È rimasto solo Anselmo, abita dal cancello che trovate in fondo alla strada che sta proprio di fronte alla facciata della chiesa. U’ l’è ancon in gamba ma gh’a novanteçinque anni. A soe figgia a se ciamma Simonetta, a trouvé au çemetëio, a laua cun e rose».

Congedammo Norma con affetto e la Ferraris, stranamente gentile, addirittura l’abbracciò e la bacio.


Uscimmo dalla casa che il campanile suonava la mezza e decidemmo di farci un piatto di ravioli alla trattoria del paese, un’occasione per riposarci e decidere come affrontare il discorso con Anselmo. «Di Tursi, sia chiaro: paghi tu. Così ti accorgi quanto costa fare il filo ad una figa come me, altro che coca cola sgasata e patatine scadute!»

Il tempo in periferia scorre in modo diverso. I ravioli arrivarono con molta calma così come i due dolci che la Ferraris ordinò per sé con unico scopo di fare lievitare il conto.

Avemmo modo di fare un sacco di ipotesi sulla banda e su Anselmo. Una cosa era certa: riponevamo in lui ogni speranza per scoprire qualcosa di più sulle ricerche sull’aereo caduto a Monte Leco. Decidemmo che avremmo rotto il ghiaccio parlandogli di sua figlia Simonetta, che avevamo conosciuto al cimitero e da lì ci saremmo mossi seguendo la direzione che avrebbe preso il discorso, ma cercando di tirare fuori dalla mente dell’anziano il maggior numero di informazioni possibile.

«Curioso, vero?» decretò la Ferraris, affondando il cucchiaino nel tiramisù.

«Siamo venuti qui per cercare notizie su Renata e James e abbiamo conosciuto Simonetta. Facciamo mille giri, virtuali e non, la RAF, internet, la Berio, i giornali… e alla fine torniamo in quel cimitero» mi spiegò.

«Credi nel destino?» le domandai, pronto ad attaccare una frase a effetto che si riferisse a noi due.

«Credo che i morti non ci stiano, a farsi prendere per il culo. Giovannino vuole dirci qualcosa».

La guardai scettico, poi lanciai il cucchiaino nel suo dolce e gliene rubai una generosa porzione.


Eravamo già stati davanti al cancello di Anselmo Brignole, nel nostro primo giro a Murta, ma non avevamo trovato nessuno in casa pronto ad aprirci. Il pensiero che ci colse, comunque, fu lo stesso di allora: quella era la casa di un uomo che non aveva problemi di soldi. Il cancello era uno splendido manufatto in ferro battuto, il prato all’inglese, curatissimo, era contornato da una siepe pareggiata in maniera millimetrica. La facciata della villetta era ricoperta di mattonelle a proteggerla meglio dalle intemperie.

Anselmo, che ci venne ad aprire in pochissimo tempo, era un uomo alto, magro e ben piantato sulle gambe, nonostante l’età. I capelli ormai bianchi e pettinati all’indietro coprivano più che dignitosamente il capo, donandogli un’aria elegante. Aveva il portamento di un leader, ma al contempo mostrava affabilità e cortesia.

Ci fece accomodare subito e, senza chiederci se gradissimo il caffè, mise su la caffettiera da tre tazze.

La Ferraris spalancò al massimo i fanali e, con un certo sussiego, partì con la presentazione.

«Siamo stati incaricati di svolgere un’indagine riserv…».

«So benissimo chi siete» la interruppe Anselmo, con un gesto autorevole della mano, che ammansì all’istante – e con mia grande incredulità – la mia collega. Continuò: «Mia figlia Simonetta mi ha parlato di voi. State andando in giro per il paese e siete andati a rovistare persino nel cimitero.»

«Non si tratta di rovistare…» protestai «…cerchiamo indizi!»

«Perdonate la mia franchezza» continuò calmo Anselmo «sono stato un capo partigiano e per anni un dirigente dell’Ansaldo, sono abituato a chiamare le cose con il loro nome».

La Ferraris accavallò le gambe, riacquistando vigore.


«Bene,» disse «allora arriveremo subito al dunque. Nel 1941, durante il bombardamento navale del 9 febbraio, la contraerea abbatté un aereo che cadde nei pressi di Monte Leco. Ci risulta che lei e altri suoi amici vi foste impegnati nelle ricerche…»

«Vi risulta bene» annuì Anselmo.

«Lo trovaste?» azzardai.

L’uomo esitò un secondo, poi attaccò: «Lo trovammo già il secondo giorno. La morte non è un bello spettacolo, soprattutto per dei ragazzi quali eravamo noi. Dell’equipaggio solo uno era vivo, gli altri due li seppellimmo degnamente. Nei giorni successivi smontammo quello che rimaneva dell’aereo e lo sparpagliammo nei boschi il più lontano possibile, aiutandoci con il camioncino che ci portava lassù. Nessuno doveva saperlo».

Solo il borbottio della caffettiera si decise a rompere il silenzio che seguì a quelle brevi parole. Un fiotto di tristezza rimase ad annacquare quel caffè che Anselmo stava spartendo nelle tre tazzine. «Quello ferito era il pilota. Aveva entrambe le braccia rotte e perdeva sangue da una gamba. Non potevamo certo portarlo in ospedale, lo avrebbero trovato i fascisti. Lo sistemammo in un fienile abbandonato e decidemmo di prendercene cura. Anzi, decisero. Io non ero così grande da partecipare alle decisioni». Sorrise, perso nei suoi ricordi.


Ci sembrò di vederlo, un ragazzino con il berretto sulle ventitré, i calzoni logori, le ginocchia sempre sbucciate, a correre per i sentieri con il segreto nel cuore di aver trovato un aviatore inglese in fin di vita. La paura di essere scoperti dai fascisti, l’eccitazione dell’incontro con uno straniero. Chissà quanto era piccolo il mondo, allora, e quanto doveva essergli sembrato grande in quel momento, ad Anselmo Brignole.

«Così ci andavate tutti i giorni…» fece la Ferraris, incalzandolo, «in paese pensavano che continuaste le ricerche, ma voi portavate viveri e medicinali al pilota».

«Esatto. Soprattutto i più grandi di noi, a turno, lo vegliavano, somministravano anche delle iniezioni di antibiotico che un nostro amico medico ci faceva avere. Insomma, sembrò ristabilirsi per un lungo periodo, poi…»

Ci fu un’altra pausa. Anselmo perse di colpo la sua imperturbabilità, si fece scuro in volto; mentre sistemava la caffettiera e le tazzine sul vassoio per riportarle in cucina, vidi le sue mani tremare. Non doveva essere facile aver visto quello che aveva visto lui.

«…e niente, non ce l’ha fatta. Ferite troppo gravi, il suo corpo si arrese. Lo seppellimmo insieme agli altri e la storia si chiuse lì».

«Vi ricordate come si chiamava, il pilota?» domandai.

Anselmo portò una mano alla fronte, strizzando gli occhi, in un estremo atto di concentrazione.

«Si faceva chiamare Jimmy, se non ricordo male».

La Ferraris ed io ci scambiammo un’occhiata. Jimmy, diminutivo di James?

«Sa se ha fatto sapere qualcosa alla sua famiglia?» proseguì la Ferraris.

«Ho spedito un paio di lettere da parte sua. Penso che fossero per la famiglia, sì, erano indirizzate in Inghilterra».

Anselmo alzò le mani, come a dire, ecco, abbiamo finito, quando io lo gelai con un’ulteriore domanda.


«C’era anche Renata Zamperini con voi?»

L’uomo annuì lentamente, poi rispose: «Sì, faceva parte del nostro gruppo».

«Sono intercorsi rapporti particolari tra lei e l’aviatore? Pare che avesse dato il suo nome come riferimento alla famiglia».

«Si sa come vanno queste cose» spiegò Anselmo: «Le donne sono più brave in questo. Noi lo curavamo, lei lo viziava» e si lasciò andare a una risatina di circostanza. Poi tentò una pacca sulla mia spalla. La Ferraris stringeva gli occhi e sembrava lanciare frecce aguzze che colpissero direttamente le parole di Anselmo.

«Si erano affezionati o…» tentai ancora.

«Non saprei dirle, agente Di Tursi» fece l’uomo, mentre ci dirigeva verso la porta. «Come le ho già detto, non ero tra i più grandi, ero un po' l’ultima ruota del carro. Non potevo certo accorgermi di una tresca tra la Renata e James».

Ci aprì la porta.

La Ferraris si girò un’ultima volta: «E dove li avete sepolti, gli inglesi?»

Anselmo fece un gesto seccato con la mano. «Ah, anche se lo ricordassi alla perfezione, sarebbe inutile. Nell’area ci hanno fatto uno dei cantieri del terzo valico, chissà che fine hanno fatto quelle povere ossa».

Poi prese un bel respiro e concluse: «Spero di esservi stato utile, buona giornata a entrambi».



La Ferraris si sparò giù dai tornati di Murta come la biglia di un flipper.

«Hai visto?» attaccai per spingerla a rallentare l’andatura prima che i ravioli del pranzo che già si stavano riproponendo non decidessero di farsi un giro sui tappetini della Panda. «Caso risolto! Un altro successo della famosa coppia Di Tursi - Ferraris!» commentai, per irrompere nei pensieri che, lo vedevo benissimo, sembravano saltellare impazziti negli occhi della mia collega.

«Risolto un cazzo!» si inalberò la Ferraris, scalando le marce con maggiore veemenza per poi inchiodare davanti a un discount Ekom.

«Perché ti sei fermata qui?»

«Il vecchio non mi ha convinto e visto che ne dobbiamo parlare, stasera ceno da te. E siccome mi sono rotta il cazzo delle tue patatine scadute, andiamo a fare la spesa. E paghi tu!».


A casa, davanti a un costosissimo piatto di penne al salmone annaffiato da un Valdobbiadene millesimato, mi spiegò le sue perplessità.

«Non ha gradito che andassimo a rovistare nel cimitero. Ha detto proprio così… rovistare».

«O forse non vuole che rompiamo le scatole alla figlia» replicai io.

«Mmmm… e i resti del povero James sono irrecuperabili. Che peccato, eh? Che coincidenza»

La guardai pensieroso. Aveva ragione, un vero peccato.

«Tra l’altro,» commentai, seguendo la scia dei dubbi che la Ferraris stava instillando in me, «hai notato che ha parlato di un Jimmy e poi alla fine lo ha chiamato James?»

La Ferraris posò la forchetta, guardandomi galvanizzata.

«Stai dicendo che ha fatto il finto tonto?»

«Sto solo cercando di seguire le tue ipotesi… Per galanteria» e le regalai un sorriso ammiccante.

La Ferraris, in risposta, ruttò, afferrò la bottiglia e versò una quantità generosa di vino nel bicchiere.

«E i resti della Renata, dove saranno?»

Dove possono essere sepolti i resti di un paesano se non nel cimitero del paese?


La signora del cimitero, la Simonetta, la figlia di Anselmo Brignole, improvvisamente smise di essere così disponibile com’era parsa la prima e unica volta che ci eravamo visti.

Alla nostra richiesta di poterla andare a trovare ancora, mentre puliva il cimitero, rispose laconicamente adducendo scuse di qualunque genere. Un giorno non c’era, un giorno non poteva, un giorno sarebbe andata a pulire il cimitero, sì, ma a orari improponibili, un giorno non rispondeva al cellulare.

I nostri cellulari, invece, continuavano a squillare, in particolare risuonava il motivetto della cavalcata delle Valchirie del Nokia 3310 della Ferraris, un telefono che pensavo si fosse estinto insieme ai dinosauri e che invece lei continuava a usare, senza schiodarsi dall’idea che ogni avanzamento tecnologico dal 2000 in avanti era stato del tutto inutile, ai fini della comunicazione. E in mezzo alle telefonate degli ammiratori, c’era anche quella del questore, che voleva che tirassimo le somme per dare una risposta all’ambasciatore inglese che gli stava con il fiato sul collo. E noi, da una parte avevamo una storia semplice, lineare, di un testimone oculare che sosteneva che l’aviatore fosse morto dopo che un gruppo di ragazzi si era preso cura di lui per qualche tempo. E che tra l’aviatore e una giovane ragazza genovese fosse nata una simpatia, il che avrebbe spiegato le lettere del fratello per chiedere notizie sulla sua salute.

Dall’altra parte, c’era una pista, una pista sgangherata, che diceva che i resti dell’aviatore erano, a detta di Anselmo, irrecuperabili e, contemporaneamente, il cimitero del paese non era più così accessibile.


Avevamo recuperato ancora una notizia da Norma, davanti a un ennesimo caffè: Renata era effettivamente sepolta nel cimitero di Murta. Era necessario che facessimo un altro sopralluogo, quindi, un pomeriggio, ci appostammo in fondo alla mattonata e, una volta vista passare Simonetta con il suo armamentario, attendemmo che si fosse ben sistemata e la sorprendemmo alle spalle.

«Carissima, finalmente ha trovato un momento per venire a lavorare» esordimmo, accompagnati da una camminata prosaicamente disinvolta.

Simonetta saltò come se le avessero pizzicato il sedere.

«Oh, oh… ma che… ma che sorpresa, sì, sono stata molo impegnata, ultimamente».

Su una cosa potevamo essere certi: non era brava come suo padre a mentire. Qualcosa, in quel cimitero, puzzava e quel qualcosa avrebbe dovuto rimanere sepolto.

Anselmo lo sapeva, forse Simonetta lo aveva scoperto da pochi giorni e già malediceva la sua idea di aver voluto riportare alla luce il piccolo cimitero. Ma cosa? Questo continuava a tormentare me e la Ferraris. Se anche l’aviatore fosse stato sepolto lì, cosa ci sarebbe stato di male?

Era un corpo occultato, d’accordo, ma a quei tempi le motivazioni erano state sensate. Ormai, quella storia non aveva più valore. Perché ostinarsi a mistificarla?

La Ferraris tentò qualche domanda di circostanza a Simonetta, e lei sembrò per un attimo recuperare la sua affabilità e rispose con energia. D’improvviso, vidi la mia collega aggirarsi intorno, guardando a terra.

«Dove sono finiti i pezzi della lapide di Giovannino?»

Simonetta si guardò intorno.

«Ah, devo averli spostati, saranno sicuramente in mezzo a qualche altra lapide da sistemare», poi, con noncuranza, riprese a tagliare rovi con il falcetto.

La Ferraris tagliò corto, mi raggiunse e mi trovò intento a osservare la grande croce di pietra che si ergeva al centro dello spiazzo.

«Di Tursi, la lapide di Giovannino è sparita e Simonetta sostiene di non aver trovato quella di Renata. Qui c’è qualcosa che non va…. Di Tursi, mi ascolti?» bisbigliò.

Se non fossi stato completamente assorto dai miei pensieri, mi sarei beato della sua mano che sembrava volermi scrollare ma, sia mai, magari invece tentava di palparmi.

«Ferraris, guarda quella croce».

«Cosa, cosa? È una croce, cosa pensi di trovare in un cimitero?»

«Non è una croce qualsiasi, Ferraris».

«Ah, no?»

«È una cazzo di croce celtica!»

Sollevammo lo sguardo entrambi sul monumento di pietra grigia che si confondeva con il cielo solo a tratti più chiaro. Una croce che, in effetti, in un cimitero genovese non c’entrava nulla.

Sarebbe stato bene… in un cimitero inglese.



Capimmo subito che se avessimo voluto la verità, avremmo dovuto cercarla sottoterra.

Quella notte saremmo sì, tornati al cimitero, ma a scavare. Solo un’ulteriore telefonata a Norma, prima di partire, ci diede l’ultima informazione che ci caricò come molle: Renata, prima di morire, aveva speso ogni suo ultimo risparmio per far erigere un monumento nel cimitero.

«Una croce, Norma?»

«Sì, quella grande. Si era fissata con quella roba. Ma mica una croce normale, una cosa strana, straniera, non so».

Caricammo gli attrezzi in macchina e andammo a riposare: ci aspettava una lunga notte.

A mezzanotte e mezza la Ferraris agghindata stile Lara Croft si presentò sotto casa. Percorremmo la strada fino a Murta molto lentamente. Nel tragitto, cominciammo a rimettere insieme i pezzi di quanto sapevamo: l’aviatore morto, Renata che si innamora di lui, tutto tornava con le lettere che erano arrivate: James doveva aver detto alla sua famiglia che lì, a Genova, c’era una ragazza che si stava prendendo cura di lui. Dovevano essere sepolti lì, insieme. Per un qualche motivo, il nome di James non poteva essere scritto, per cui, Renata aveva fatto erigere una croce che in qualche modo lo ricordasse. Ma perché mentire su questo? Perché Anselmo mentiva su questo e Simonetta aveva nascosto i pezzi della lapide a lei tanto cari?

«Hai notato, Di Tursi? Questa volta, non c’entra nessuno dei tuoi libri. Non è un’indagine letteraria, solo… solo un’indagine normale»

«A volte, la vita è più pazzesca di quello che si riesce a inventare in un romanzo».


Parcheggiammo dietro la chiesa che era quasi l’una e aspettammo in macchina ancora un quarto d’ora per capire se ci fosse qualcuno in giro.

Nessuno, il paese dormiva.

Prendemmo la pala ed il piccone dal bagagliaio e ci dirigemmo verso il cimitero. La Ferraris balzò dall’altra parte del cancello in quattro e quattr’otto che manco un grillo. Io semplicemente lo aprii, qualcuno aveva dimenticato di chiudere il lucchetto. Ci dirigemmo subito verso la zona in cui avevamo trovato la lapide di Giovannino e iniziammo a scavare con molta delicatezza per non danneggiare quello che avremmo potuto trovare e per non fare rumore. Scavammo per una buona mezz’ora e finalmente iniziarono ad affiorare i resti di quella che poteva essere una bara. La luce di una torcia di colpo illuminò a giorno il luogo delle operazioni.

«Non è lì che dovete scavare».

Guardammo verso la direzione da cui proveniva la luce che ci stava abbagliando e vedemmo i contorni della persona della quale avevamo riconosciuto comunque la voce.

«Dovete scavare qui» disse Simonetta, dirigendo il fascio di luce dalla parte opposta. «Qui ci sono due bei posti liberi: i vostri!»


Mentre Simonetta armeggiava con la luce, vedemmo chiaramente che nell’altra mano aveva una pistola. Non potevamo far altro che ubbidire e iniziare a scavarci la fossa.

«Lo vedo come la guardate. Abbandonate le vostre speranze, anche se vecchio, questo macinino funziona benissimo. È una Luger P08, una delle tre che mio padre ha sottratto ai tedeschi che avevano fatto prigionieri con quelli della Balilla. È un grand’uomo, mio padre, un partigiano valoroso, un dirigente dell’Ansaldo stimato e amato dagli operai: non infangherete la sua reputazione per un fatto accaduto più di ottant’anni fa».

«E cosa c’entra questo grand’uomo con la morte di James Billington?» sputò la Ferraris con il suo solito tono impertinente.

«C’entra con l’amore» biascicò Simonetta, al limite delle lacrime.

«Amore di chi?» la incalzò con perfidia la Ferraris mentre sollevava la terra col badile.

«Era solo il classico ragazzino innamorato di quella più grande. Mio padre aveva preso una brutta sbandata per Renata e quando la vide tra le braccia dell’inglese non capì più nulla».

Se avessi potuto vedere l’espressione della Ferraris, sono sicuro che sarebbe stata di sorpresa. Ma certo! Come avevamo fatto a non pensarci! Anselmo voleva liquidare la questione, perché era stato lui il responsabile della morte dell’aviatore. E tutto per gelosia nei confronti di Renata.

Filava. Filava quasi tutto.


«È seppellito qui, vero?» chiese la Ferraris che ormai le stava azzeccando tutte.

«Sì, proprio dove stavate scavando. Lo ha voluto lei per averlo vicino. Sotto c’è lui, sopra Giovannino».

Ecco, l’ultimo tassello. Ormai, ci eravamo arrivati da soli, ma sentirlo dalla voce di Simonetta aveva tutto un altro effetto. Quel bambino dal sorriso storto continuava a guardarci con le sue iridi bianche. Ai morti non piace essere presi per il culo, ci eravamo detti, la Ferraris ed io. O meglio, Giovannino era il frutto di un grande amore, un amore che era degno di essere ricordato, non sepolto sotto ai rovi. Glielo dovevamo, sebbene la nostra posizione, adesso, non fosse delle migliori.

«Ma allora…» esclamammo quasi all’unisono.

«Si, Giovannino era il figlio di James e Renata, lo avevano concepito qualche giorno prima della sua morte. Se lo portò via il tifo, c’era ancora la guerra. Nessuno qui sapeva chi fosse il padre».

«E tu come sai tutta la storia?» la incalzai a mia volta, nella speranza che continuando a parlare, si distraesse e ci permettesse di disarmarla.

«Spesso, mio padre esagera con il whisky, prima di andare a dormire; dice che gli allontana dalla mente certi vecchi pensieri. E farfuglia frasi senza senso. Dopo che voi siete entrati in scena, lui mi ha ingiunto di sbarazzarmi della lapide e di non far entrare nessuno nel cimitero. Anzi, sarebbe stato meglio lasciarlo perdere, questo maledetto cimitero, e lasciare i morti nelle loro tombe. Ho collegato le cose ad altre frasi che avevo sentito da lui nei suoi deliri e ora…», Simonetta sollevò la pistola verso di noi, tenendola più saldamente con due mani, esplodendo in un forte singhiozzo: «… è un grande uomo, ha ancora pochi anni da vivere, merita di essere onorato, non punito! Se lo avessi saputo, non mi sarei mai imbarcata in questa folle impresa!»

Mi trovai a pensare, ascoltando la donna, quanto fosse assurda la vita, davvero degna di un romanzo: Simonetta e le altre volontarie avevano iniziato a occuparsi del cimitero proprio per la scoperta della lapide di Giovannino, scoperta che ora segnava la disfatta del padre.

«Sapevo che sareste venuti, vi ho visti come guardavate la croce. Non ho altra scelta, dovete morire! Coraggio, scavate!»

«Non moriranno, invece. Loro non moriranno!».


L’ingresso di Anselmo in scena, anche lui con la sua bella Luger spianata, aveva del teatrale. «In questa storia è già stato versato troppo sangue. È ora che io paghi il mio debito. Ho ucciso io James, lo avvelenai con del veleno per topi che misi senza farmene accorgere nella minestra che Renata gli aveva preparato. L’ho fatto per Renata, perché fosse mia, ma lei non volle più nessuno al suo fianco, mai più. E quel bambino… una sofferenza quando morì, era tutto ciò che le era rimasto. Ma non è per salvare me che ho cercato di sviarvi. È stato per rispettare lei. Lei ha voluto che questa storia non tornasse più a galla, lei me lo ha chiesto, il giorno che seppellimmo suo figlio, prima che la madre e la sorella tornassero dalla città. Che nessuno ne sappia niente. E che, una volta morta, io possa dormire in pace, vicino al mio uomo e a mio figlio, per l’eternità. In pace. Così ha detto. Non le ho mai detto di essere stato io la causa della sua infelicità, per cui le dovevo qualcosa. Non mi ha permesso di proteggerla da viva, ho deciso che l’avrei protetta da morta, con tutto ciò che aveva di più caro».

Poi si rivolse alla figlia: «Quando hai deciso di avviare il progetto del cimitero, ho provato a dissuaderti, poi mi sono detto che nessuno avrebbe fatto troppe domande su una lapide di un bambino senza nome. Ma il destino è sempre pronto a tendere qualche agguato».

Anselmo abbassò testa e pistola, poi con la voce flebile di chi non ha più verità da mostrare, ordinò alla figlia: «Simonetta, dai la pistola alla ragazza, subito!»

A quel punto, la donna iniziò a piangere disperata e la mano in cui stringeva l’arma tremò vistosamente. La Ferraris balzò fuori dalla buca come un gatto e le strappò la pistola di mano.

Fu a quel punto che Anselmo si puntò la Luger alla tempia e fece fuoco. Come impazzita, Simonetta afferrò il badile e sferrò un colpo verso la Ferraris che con un movimento fulmineo lo scansò, cosicché la badilata in testa me la beccai io. Prima che il sangue mi annebbiasse la vista feci in tempo a vedere la Ferraris buttare a terra Simonetta e ammanettarla dietro la schiena.

Mi risvegliai al Pronto Soccorso di Villa Scassi e la prima persona che vidi, purtroppo, era un volto conosciuto. «Ci si rivede, cagasotto».


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