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Teena

di Arianna Destito




Quando uscivamo insieme era sempre una gioia. Un momento importante. Lei si preparava con cura e io la guardavo, affascinata. Non smettevo mai, quasi la fissavo, mentre non vista si muoveva nello spazio. La scrutavo con grande intensità. La stessa ogni giorno della nostra vita. Mentre si truccava, seduta davanti allo specchio, il fondotinta, il mascara, la matita nera intorno agli occhi.

Conoscevo ogni gesto, potevo quasi anticiparlo. Si pettinava i capelli biondi con cura amorevole e a volte maniacale. Sapeva volersi bene e sapeva volerne a me.

Insieme per strada eravamo insuperabili. Ovunque andassimo non c’era volta che qualcuno non si voltasse a guardarci. Anche quelli tutti d’un pezzo, con la coda dell’occhio, e noi ridevamo di questo. Uomini, donne, bambini a volte si incantavano. Soprattutto i bambini che ancora sanno guardare negli occhi. Ogni età era alla nostra portata. E modestamente eravamo una coppia formidabile.

Vivere con lei era qualcosa di magico e ogni momento sapeva renderlo unico, anche la colazione del mattino. Cracker per me e pane e marmellata per lei, che a volte mi porgeva, perché era fatta così. Voleva condividere tutto ed era il pilastro di tutti. Amiche, sorella, figlia. Tutti la cercavano e io mi divertivo un mondo a sentire quello che le raccontavano e gli sfoghi assurdi che le toccava sentire.


Una volta era il turno dell’amica che tradiva l’amorevole marito. Un’altra quella tradita dal marito settantenne in tempesta ormonale senile. Un’altra ancora, l’amica ricchissima colta da una crisi di avarizia che non sapeva se risparmiare sulla carta igienica o comprarsi l’ultima Hermes. O quelle che parlavano sempre del rapporto irrisolto con la madre o di quanto fossero infelici da piccole, ad libitum. O quelle altre che “come loro nessuno”. O le pseudo-colte da salotto per le quali qualunque porcata intellettuale confezionata era molto cool.

Lei aveva sempre una parola buona per tutti. E soprattutto ascoltava. Ed io con lei, nonostante il mio egocentrismo.

Certo, a volte discutevamo. Io avevo il vizio di alzare spesso la voce, lo ammetto. Anche quando ero felice e avevo il bisogno di esternarlo, facevo un gran casino. Quelle erano le uniche volte che la vedevo alterata. Con lei tutto però si sistemava presto.

Questa era la nostra semplice vita.


Fino a quel giorno. Quel maledetto giorno che ho ben stampato in mente. Il primo giorno qualunque di una primavera qualunque.

Come tutte le mattine eravamo uscite presto. Il sole si era fatto prepotentemente varco tra le nuvole, dopo la pioggia del giorno prima, e l’aria era frizzante. Avevamo fatto, come d’abitudine, colazione insieme. Eravamo uscite con la leggerezza nei pensieri, avevamo preso il giornale, e il pane. I consueti libretti malcotti, morbidi, profumati e caldi. E i grissini per me.

Avevamo le ali ai piedi quel giorno. Non ne avevamo ancora parlato ma di certo saremmo andate al mare, con un sole così non ci saremmo perse per nulla al mondo una spiaggia dove riscaldarci e spolverare via un po’ di inverno. Tornate a casa, mentre mi occupavo delle piante, lei stendeva le lenzuola bianche e profumate di lavanda.

Aveva preso la borsa della piscina con il solito entusiasmo, l’aveva riempita con le solite cose, il costume olimpionico, la cuffia rossa, le pinnette, gli occhialini.

“ Vado a fare le mie cinquanta vasche”, aveva detto. “Ci vediamo dopo. Bacio bacio.”

Il suo ottimismo e il suo entusiasmo erano contagiosi. Con un cenno della testa e un sorriso ricambiai il suo saluto.

Quella mattina ho aspettato. A lungo. Ma lei non arrivava.


Tardava come non aveva mai fatto. Non mi resi conto di quanto tempo era trascorso, mi sembrava comunque un’eternità. Tutto era molto strano.

“Ora arriva”, pensai, “si sarà fermata a parlare con qualcuno”.

Ma non arrivò quel giorno. E nemmeno quelli successivi.

In compenso arrivarono tutti gli altri. La figlia, la sorella, gli amici. Gente che non avevo mai visto. Una gran confusione. Teena era sparita. Sembravano tutti increduli. E sembrava che non volessero dirmi la verità.

“Come sarebbe sparita? Come può sparire una persona? Non scherziamo, ragazzi.”

Frastornati, mezzo addormentati, mi guardavano come fossero burattini inanimati che avevano perso i fili e fissavano il nulla. Senza reagire mi escludevano, mi pareva non volessero coinvolgermi. Capisco che la nostra era una relazione intensa e fuori dal comune e che potesse suscitare sentimenti strani e ambivalenti, ma addirittura essere evasivi e mistificare la realtà in una situazione simile mi pareva assurdo e ridicolo.

Eppure, non essendo una parente diretta, non avevo diritto di essere informata. Dovevo accontentarmi di quello che mi veniva riferito. Quello che riuscii a carpire era che, secondo gli esperti, sarebbero state determinanti le quarantotto ore successive alla scomparsa e che solo dopo si poteva fare una previsione.

Ma quello che avevo imparato da Teena era la tenacia: bastava volerlo e si arrivava da qualunque parte.

Decisi che avrei fatto di testa mia. L’avrei cercata in ogni angolo del mondo, seguendo i miei metodi e quell’istinto che non mi aveva mai tradita. Avevo una sensibilità e un sesto senso particolari. Era soprattutto questo che ci legava e sapevo che lei, ovunque fosse, sentisse il mio amore e il mio pensiero vicini e che, in qualche modo, ci sarei sempre stata e non l’avrei mai lasciata sola.

Almeno lo speravo.


La cercavo nei luoghi che frequentavamo e conoscevamo bene. Indizi, tracce che riconducessero a una pista che mi portasse fino a lei.

Avevo esaminato la Matiz rosso fuoco abbandonata nel parcheggio della piscina. Neanche fossi un carabiniere dei Ris. Ma è inutile dire che non mi sarei fidata nemmeno di loro.

Volevo metterci il naso nelle cose. Volevo impiegare il mio fiuto, capire e ritrovarla. Ogni nuovo tassello, per quanto piccolo, poteva essere vita guadagnata per me e, forse, per lei.

Nelle sere fredde di una primavera che non arrivava mai, con l’eccezione beffarda di quell’unico giorno soleggiato – il 21 di marzo − in cui Teena non tornò a casa, vagavo in un buio più cupo di un blu notte.

L’adrenalina mi teneva su come una droga perché sapevo che, prima o poi, l’avrei ritrovata.

Possono forse sparire nel nulla le persone?

Certo, quando tornavo a casa il dolore di un letto vuoto e l’ascolto degli oggetti che mi parlavano della sua assenza era un’esperienza troppo forte che mi annientava. Mi sdraiavo sul divano, mi arrovellavo, mi sentivo in scacco e la sola speranza era che il telefono squillasse. Oppure sentire le chiavi nella serratura che scattava di colpo e vederla entrare. Quante volte l’ho sognato!

Alla Valletta non si parlava d’altro che della scomparsa di Teena. E si azzardavano ipotesi sulla fine che avesse fatto.

C’era chi diceva fosse stata rapita da spacciatori di ottimismo per distribuirlo agli altri. Chi, al contrario, sosteneva che fosse stata imprigionata dal regime-ombra per lo stesso motivo. Le persone entusiaste e ottimiste non erano viste di buon occhio, non si potevano controllare, erano come mine vaganti. E soprattutto erano libere. Cosa inaccettabile per tutti i regimi.

C’era chi addirittura diceva che fosse morta. O all’estero. O in vacanza su un atollo in mezzo all’Oceano. Chi si professava suo amico senza averla mai vista.

Ne avevo sentite di ogni tipo.


Un giorno mi rivolsi a Ugo, detto Barbone per la capigliatura folta, nera, riccia e arruffata. Era un avventuriero della zona e stava spesso alla Valletta.

“Non dovrei dirtelo perché non sono sicuro della veridicità della soffiata, ma sembra che Teena sia prigioniera in un vecchio e fatiscente aeroporto dismesso, al confine tra la Liguria e la Toscana. Non chiedermi altro. Se ti fidi farò in modo di saperne di più. Ma la situazione è delicata. Un passo falso e potresti non rivederla mai più.”

In un aeroporto dismesso?

Ma chi e perché l’avrebbe portata in un luogo simile?

Non era possibile.

Un aeroporto fantasma. Come poteva esistere un aeroporto dal quale non si partiva per alcuna destinazione? Era un’assurdità in sé e un nonsenso portarci una persona piena di vita come Teena.

E, soprattutto, perché?

Sarei corsa all’istante ma dovevo aspettare e in questi momenti la cosa peggiore è rimanere in sala d’attesa, soprattutto se si tratta dell’anticamera di chissà cosa.

Fino al giorno in cui Barbone mi parlò dei traghettatori. Uomini che, forse in cambio di denaro, aiutavano a passare il confine. Qualunque confine presidiato da guardie in uniforme che impedivano a quelli come me di superare il varco ed entrare.

Costoro mi accompagnarono fino all’aeroporto. Senza dire una parola.

C’erano precise regole da seguire. Pena la sospensione immediata del viaggio, il peggio che potesse capitare. Ma loro dicevano che se ci avessero scoperto sarebbe stata la fine. Per tutti.



Non potrò mai dimenticare quel giorno.

I traghettatori mi avevano bendato, per evitare che il Pollicino che è in me ritrovasse quella strada. Mi avevano infilata in un sacco per entrare senza destare sospetti. Avevo caldo chiusa nella iuta, accecata da un grande foulard color fucsia che, a dire il vero, non era il massimo del travestimento per passare inosservati.

Avevo perso il senso dell’orientamento.

Captavo rumori di ogni tipo, voci diverse, lingue sconosciute che non capivo. Automobili che partivano e arrivavano. Via vai di persone. E odori. Tanti.

Odore di campagna ed erba tagliata e, all’improvviso, di medicinali e disinfettante. Il fastidioso suono di un grande portone che sbatteva alle mie spalle mi aveva catapultato all’interno dell’aeroporto.

Qui le voci delle persone giungevano ovattate. Un check-in senza passeggeri.

Un cigolante ascensore mi accompagnò molto molto lentamente in un luogo dove probabilmente nessuno avrebbe voluto arrivare mai. In alto, dove i rumori, mano a mano che salivamo, si facevano più lontani fino ad annullarsi del tutto. Una porta scorrevole ci introdusse in un lungo corridoio deserto. Un’altra grande porta pesante, sbattendo, mi fece sobbalzare nel sacco dove ero acquattata.

Il mio cuore sembrava un rap di Jay Z.

Nonostante non dovessi vedere dove mi trovavo, mi fecero respirare un po’ d’aria allentando la chiusura del sacco. Finalmente potei scorgere qualcosa. Nessuno. Non c’era nessuno. Altre due porte e poi eccomi in un corridoio bianco e grigio illuminato da luci al neon. Vuoto, con qualche carrello sparso qua e la, ricoperto da lenzuola bianche sotto le quali non capivo cosa fosse custodito.

Ora percepivo altri suoni in lontananza, sfrigolare di elettrodi e battiti cadenzati di macchine. Ancora porte, una accanto all’altra, che davano su una fila di stanze che ricordavano le celle di una prigione, e odori strani che non mi piacevano per niente. Mentre mi addentravo vidi alcuni carrelli con ferri e strumenti che mi gelarono il sangue.

Una sensazione di panico mi aveva bloccato.

Senza fare rumore mi spinsero in una cella, con uno dei traghettatori che faceva il palo all’ingresso.

“Fai presto. Questa è Teena, ma non c’è molto tempo. Se ci scoprono è la fine.”

Lo spettacolo che si aprì davanti ai miei occhi era straziante.


Due letti e due persone, una accanto all’altra. Nude, calve e attaccate a strani macchinari che cadenzavano il tempo come in un gioco a premi dove non si vince nulla. Suggerivano l’idea sinistra di un macabro conto alla rovescia. Le persone sembrava che dormissero. Mi avvicinai.

“Non è lei. Non è Teena. Lei ha bei capelli lunghi e biondi.”

“Guarda bene. Cosa c’è scritto sul cartellino? Lo leggi il nome?”

Ero davanti alla donna che amavo di più al mondo. Ma non riuscivo a distinguere nulla di lei e non provavo nulla. Certo, vedere quell’essere umano mi lasciava sgomenta. Ma non la riconoscevo.

Era una persona che faticava a respirare, con un intrico di tubicini nel naso, nella gola e sulle braccia, la pelle delicata cosparsa di strani lividi e ferite aperte e il corpo di una magrezza spaventosa. Non avrei neppure saputo definirne il sesso. Era calva e ridotta pelle e ossa.

Se davvero era Teena, cosa le avevano fatto?

Mi avvicinai con il naso alla sua mano che penzolava fuori dal letto. La baciai. Un bacio destinato alla persona che mi stava di fronte, chiunque essa fosse. Aprì i grandi occhi azzurri, stanchi ma paurosamente vivi. Fece un piccolo cenno con la mano e la allungò verso la mia. Nient’altro. Silenzio. Solo il rumore del monitor e la voce delle sentinelle che attente e quasi isteriche continuavano a ripetere che il tempo era scaduto e dovevamo scappare.

I traghettatori mi prelevarono con la forza senza neppure nascondermi né nascondersi. Dovevamo correre via, stavano arrivando gli uomini in nero con la tunica lunga insieme ai burattini di gesso in bianco. Li potevo vedere da lontano avanzare verso di noi.

Ci infilammo dentro una stanza per non essere visti e anche lì lo stesso, desolante spettacolo. Cadaveri che respiravano attaccati a complicati macchinari e sospesi nel vuoto, appoggiati a letti alimentati da pompe che gli permettevano di vivere nell'aria. Erano più vivi i letti delle persone che c'erano sopra.

Nascosti nel bagno, sentimmo i passi concitati di sconosciuti che irrompevano proprio lì, nella stanza. E in quel momento accadde qualcosa che mi sconvolse. Le voci alterate, il fragore di altre macchine e una confusione eccessiva di persone intorno a uno dei due uomini che si trovava inerme, con gli occhi chiusi, in quel letto da chissà quanto tempo.

Potevo scorgere, non vista, quello che stava succedendo. I burattini di gesso in bianco circondavano l'uomo compiendo strani rituali e gesti meccanici, attraverso strumenti a me sconosciuti, con i quali si accanivano su quel corpo, aspiravano e iniettavano e auscultavano un battito che probabilmente stentava a riprendersi. Ancora, infierivano collegando le sacche che pendevano dall'alto, con tubicini che facevano da ponte tra la vita e la morte. Strane placche venivano posizionate intorno al corpo che era attraversato da scariche elettriche cadenzate. Stavano tutti concentrati su un monitor come fosse un totem.

Un uomo in nero con la tunica lunga che girava da quelle parti si avvicinò all'uomo, fece strani gesti con le mani ed estrasse una boccetta di olio che gli fece scivolare sulla fronte.

Fu a quel punto che si fermarono tutti. Lasciando nella stanza solo l'uomo in nero e un burattino di gesso che compilava un foglio.

"Ora del decesso?".

"Le quindici e otto minuti", rispose il burattino di gesso.


Aspettammo che la stanza fosse vuota per provare a uscire. Nella penombra di una luce bluastra avanzammo verso la porta passando accanto all' uomo morto.

Non sembrava esserci molta differenza rispetto a prima, a parte il fatto che il torace non si muoveva più. Il colore livido era lo stesso e l’immobilità non lasciava spazio alla vita.

Ci affacciammo alla porta per vedere se ci fosse qualcuno, ma erano tutti in riunione in una sala poco lontana, sentivamo le voci arrivare dall’interno.

Avevo paura. Cominciammo a correre come forsennati verso l'uscita, un uomo in nero mi vide da lontano e diede l'allarme. I traghettatori provarono a legarmi per trascinarmi via con loro. Ma mi divincolai con una forza che non immaginavo di avere e mi catapultai giù dalle scale antincendio, anche se odiavo quelle cazzo di grate che ti fanno vedere il vuoto.

Chiusi gli occhi e volai su quello scheletro di ferro. Fino ad arrivare, con il respiro in gola, in mezzo alla strada. Sempre più lontano, senza fermarmi, verso i campi di sterpaglia, sotto un sole cocente e nel cuore la pesantezza e il dolore per aver lasciato Teena in un luogo di morte e di torture come quello.

Mentre scappavo le parole di Ugo Barbone, mi tornarono alla mente, quasi emergessero da un groviglio di ricordi che avevo voluto cancellare.

Non ci volevo credere.

Era una delle ipotesi che Ugo aveva ventilato e che avevo scartato perché non accettavo che tutto questo potesse essere accaduto a lei.

"Sembra che Teena si trovi in un posto che non ti piacerà. Forse ti ricorderai di Green Hill, il laboratorio che imprigionava i beagle, li allevava e manteneva in vita con l'unico scopo di preparare i cuccioli a un viaggio di sola andata verso la morte e un giro di affari che coinvolgeva multinazionali e case farmaceutiche. Ricordi? Ecco, quello dell’aeroporto sembra un posto così, è un laboratorio come Green Hill, solo che anziché animali ci sono gli umani. Dicono che lì imprigionino le persone, come fanno con noi, per scopi incomprensibili. E la cosa assurda è che per loro è normale. Alle solite, cucciola, ci sono umani che fanno cose orribili senza rendersene conto. Molti si abituano a tutto. La tortura spacciata per cura. Il sadismo a fin di bene. Devi essere forte perché la tua padrona probabilmente non la rivedrai mai più come prima. Forse non la rivedrai e basta. "

Ugo Barbone aveva ragione. La donna che amavo era sparita per sempre.


E ora ricordo tutte le lacrime degli altri umani che non mi parlavano e mi tenevano all’oscuro di tutto.

Non era cattiveria, era solo dolore.

Un immenso dolore misto all’impossibilità a comunicare.

Non potevano e non sapevano spiegarmi cosa le fosse accaduto. Non sapevano soprattutto trovare il modo per dirlo a me, un cane.

Eppure Teena sapeva parlarmi.

Nei quattro mesi in cui tutta la vicenda si sviluppò vidi Teena solo una volta. In seguito capii, con non poche difficoltà, che era stata trasferita in un altro laboratorio governato da altri uomini in nero. Aspettavo sempre di sapere dove si trovasse.

Ancora adesso non lo so. Quello che so è che non mi fermerò.

La storia sulla carta finisce qui. La mia ricerca no, quella non terminerà mai finché non l ' avrò trovata e sottratta ai suoi torturatori, restituendole la dignità di uno spirito libero che si libra sul mare.




Questo racconto fa parte dell'antologia Animali Noir (Falco Editore, 2013) curata da Cristina Marra.


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