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  • Immagine del redattoreArianna Destito

Quello che resta


di Arianna Destito




Se niente può far che si rinnovi

all’erba il suo splendore e che riviva il fiore

della sorte funesta non ci dorremo

ma ancor più saldi in petto

godremo di quel che resta.

William Wordsworth


Non so come tutto abbia avuto inizio.

Non ne ho memoria.

Non ricordo, anche sforzandomi, un prima e un dopo.

Forse tutto nasce da lì, da quel grumo di vita passata che ti si annida dentro e marcisce senza che tu te ne renda conto. Qualcosa che lentamente si accumula nei cunicoli della tua esistenza senza nessuna consapevolezza. E, sempre senza saperlo, ti costringi a indossare un'armatura che ti trasforma in un soldato. E non importa che tu sia una donna di quarant’anni, in salute e all’apparenza appagata. Di tutto questo alla vita non gliene frega niente. Perché prima o poi ti restituisce indietro tutto come un fedele cane da riporto.

Quell’inadeguatezza che credevi superata, quella sensazione di non essere mai importante per qualcosa o per qualcuno, mai all'altezza delle situazioni. Quel tentativo di accendere la luce sovrastato offuscato dall'ombra di sentirti una persona a metà, di avere una parte oscura, nera, senza mai il sole. Quella continua compulsione a masticare la vita senza gustarne i sapori.


Tutto torna indietro. Basta una telefonata.

"Deve raggiungerci al pronto soccorso, sua madre è grave".

E subito non afferri il senso. Mia madre è in perfetta salute, l’ho vista ieri, pensi.

Ora non più. Si trova nella sala operatoria della neurochirurgia; il medico, che sembra un giovane universitario norvegese, farà il possibile per fermare l’emorragia cerebrale.

E tu stai li seduta in sala d'attesa attonita, vuota, senza emozioni. Le hai parcheggiate fuori, da qualche parte.

È in quel preciso istante che tutto torna indietro.

Adesso ti guardo, dopo l’intervento, attraverso il vetro della terapia intensiva mentre lotti per sopravvivere. Una volta dentro, ti stringo la mano, ti accarezzo e tu dormi. "Guarda" ti dico "ci sono tutte le tue amiche che sono venute a trovarti". Eccole dall'altra parte. Incredule e sbigottite. Come tutte le persone che vanno al capezzale d’un loro caro, stanno in silenzio a osservare oltre quel filtro innaturale come fosse un acquario e i pazienti, in coma, tanti pesci dormienti. Nelle loro facce senza espressione rivedo me stessa. Qualcuno scrolla la testa, qualcun altro ha gli occhi lucidi. Un’anziana donna si trascina, non ha retto alla notizia che il nipote non ce la farà.

Vedo anche un uomo che viene tutti i giorni, schivo, se ne sta tutto solo in silenzio, un po' in disparte. Non ha parole ma tanto non servirebbero. Nessuno di noi ne ha. Tutti i giorni ci ritroviamo qui e ci salutiamo appena, forziamo un sorriso.

Fisso lo sguardo sul monitor dei parametri vitali. La frequenza respiratoria, la pressione arteriosa, la temperatura sono nella norma. Tutto è stabile. E allora? Perché continui a dormire? Vorrei pregare ma sono incazzata. Non abbandono con gli occhi lo schermo neanche per un attimo. Mi ipnotizza perché lo so che ora tu sei lì, sembra assurdo ma in quei suoni cadenzati e nelle luci dell’apparecchio so che ci sei tu e mi stai comunicando qualcosa. È quella la tua voce. A poco a poco l’immagine del monitor prende vita, si trasforma mentre osservo l’icona del cuore rosso che lampeggia.

È li che vedo scorrere, come in un flash, il trailer d’un film che non ricordavo più d’avere già visto. Da dove escono? Dove erano finite dopo così tanto tempo?

Vedo Angela, con i capelli castani corti, da maschio, appena tagliati.

“Così la smetti di frignare quando ti pettino” dice la madre con l’aria soddisfatta. Angela ha sette anni e un broncio perenne. Osserva, con gli occhi grandi, color nocciola, il mondo attorno a sé. Indossa una divisa, come un supereroe, l’uniforme dell'invisibilità. Ma non è un dono, sembra piuttosto una condanna. La osservo ancora, a scuola, a danza, a ginnastica, arranca sempre, fa fatica a vivere e ha la faccia triste. “Perché non ridi mai?” le chiede qualcuno.


Già, perche non ride mai?

La guardo ora con i suoi stessi occhi color nocciola. Vorrei proteggerla. Dirle che non sarà sempre così, che la vita, in fondo, è una cosa semplice. Ma non lo è, a volte. Non per tutti.

Metto a fuoco meglio. È un mattino d'estate. La porta di casa sbatte all'improvviso. Un rumore secco che rimbalza nello stomaco, come nel vuoto. Non può averla lasciata lì, nel lettone con lui. Deve andare in gita al mare. Ti sei dimenticata? O peggio vuoi andare da sola, con le altre mamme e i miei amichetti? Ora Angela pensa che sì, di certo è colpa sua, è una bambina ingombrante, paffuta da fare schifo, anzi grassa, enorme, obesa; una presenza fastidiosa, ammettiamolo. Chi vorrebbe una figlia obesa? Merita di essere abbandonata lì con quel padre che dorme e russa e ha scambiato il giorno con la notte e vive come farebbe un single e invece ha una moglie e figlia. Quel padre che è un estraneo e che Angela conosce appena e la mette a disagio. Respira piano per non svegliarlo e finge che vada tutto bene, rimanendo in silenzio. Rannicchiata in un angolo aspetta, senza sapere bene cosa. Poi la porta di casa si apre. Sente i suoi passi decisi: "Che ci fai ancora a letto? Sono andata a prendere i panini. Forza, andiamo che facciamo tardi". Per quel giorno è salva. Grazie alla madre, almeno lei c’è, anche se le taglia i capelli corti e la imbruttisce. Intanto, suo padre continua a dormire. E questo è un bene. Il problema è quando si sveglierà. Il grugnito da cavernicolo annuncia l'aria scura della sua faccia ancora stropicciata dal sonno. Si dirige verso la cucina e, non potendo sfogarsi in altro modo, si accanisce con chi è più vicino a lui. " Neanche un caffè decente sai preparare - inveisce - sei capace a fare qualcosa?" Quel tono sprezzante Angela lo conosce bene, ancora prima che lui apra la bocca. Lo osserva muoversi lento, con quel patetico pigiamino azzurrognolo anni Settanta, aderente come un preservativo che lo rende ridicolo; niente a che vedere con il personaggio pubblico, l’uomo fascinoso che attraversa le luci della notte e i locali fumosi dove belle donne adoranti lo avvicinano in cerca di emozioni.

In silenzio. Angela vive in silenzio quando è in presenza di suo padre. Ha timore di quell'uomo che urla e inveisce così spesso verso la moglie. Basta un’inezia per farlo sbottare. La voce è forte e potente e le rimbomba tra lo stomaco e la gola. Eppure con lei non urla mai. Solo con sua madre, che ormai non reagisce più perché ogni pretesto è buono per rovesciarle addosso la colpa di tutto. Angela non esiste. A volte essere invisibili è un bene, vorrei dirglielo, ad Angela, e poi stringerla forte e portarla via, lontano da lì.

La vedo acquattarsi sotto il tavolo per osservare. Per sentire non volendo farlo. Stringe gli occhi e si tappa le orecchie. E si crea un mondo immaginario. E sa che tutto prima o poi finirà. Anche la furia di suo padre. Si tratta solo di aspettare.

"Non c'è niente per pranzo? Vuoi che deperisca? Ma che donna sei? Ma ti vedi? Quanto sei imbruttita. Hai le tette così molli che sembrano uova fritte. E sì, vuoi saperlo? Non ti ho mai amato. E non fare la maestrina! Come non sopporto le donne che vogliono primeggiare. Sta’ zitta, piantala o ti spengo la sigaretta in un occhio! E dai, ora non tenere i musi, quanto sei permalosa! Tua madre è la solita esagerata. E poi lo sai che quando sono incazzato dico cose che non penso. Mica te l’ho spenta la sigaretta nell’occhio! Quanto la fai lunga!”

Scuote il capo, come se avesse ragione.

Per me puoi crepare gli avrebbe risposto la donna. Ma non lo fa, non vuole che dia in escandescenze. Perché sa che tutto ricomincerebbe da capo.

È stanca di quelle scenate. Non ne può più. La sfiancano e le tolgono la voglia di vivere. È estate, fa caldo e lei indossa una maglia consumata. La casa cade in pezzi, le porte scricchiolano; una volta, in un impeto d’ira, lui ne ha sfondata una. Da allora cigola sui cardini e si chiude a fatica. Le piastrelle del bagno traballano, la tappezzeria a fiori comincia a staccarsi e a perdere colore, le crepe del muro si allargano e le ante dell'armadio non combaciano più. Gli oggetti come le persone non vanno trascurati. Prima o poi si ribellano. La televisione frigge, l’antenna non prende bene il segnale. Il frigorifero raffredda poco. C' è mai stato un tempo in cui tutto funzionava, compresi loro due, sua madre e suo padre? Forse c’è stato, ma lei era troppo piccola e non se ne ricorda.

Angela a scuola scrive un tema. Descrivi il tuo papà. Svolgimento. Mio papà è tanto bravo, si veste sempre con la cravatta, lavora tanto, aiuta la mamma nei lavori di casa e mi fa sempre giocare.

Ora vorrei accarezzare quella bambina e dirle che non è sola. Non so se c’è stato un tempo in cui tutto funzionava. Nella sua fantasia deve esserci stato per forza. Un tempo in cui i fiori della tappezzeria erano luminosi e le piastrelle del bagno splendevano e le ante dell'armadio si chiudevano perfettamente e le porte erano integre e non cigolavano. Ma ora nessuno aveva più voglia di pensarci. Gli uomini come lui ti sfiniscono perché la rabbia se la portano dentro, la coltivano e la curano come una belva che si alimenta di vittime sacrificali.


Non c'è via di scampo. È uno scacco perenne.

E quando il padre esce di casa e la porta si richiude alle sue spalle, per Angela e la madre è una liberazione. Un sollievo temporaneo, ma pur sempre una liberazione. Gli sguardi che appena si incrociano e con pudore subito si abbassano ne rendono tangibile testimonianza, anche se mai una lo confesserebbe all’altra. Non si dicono queste cose. La vergogna e l'inadeguatezza nascono così, quando qualcuno ti usa come vittima sacrificale e tu non puoi parlarne con nessuno.

Fisso ancora il monitor. Angela ora ha nove anni. Sempre in estate, è in auto, una Fiat 126 bianca, con la sua mamma e si dirigono verso il lungomare per prendere il gelato. E lì, a un incrocio, si ritrovano tutti insieme, uno di fronte all'altra come in un duello: Angela e la mamma da una parte e lui, il papà, con una biondona vaporosa, dall'altra. Un attimo infinito.

Alla fine la bambina e la biondona restano ognuna nella sua macchina, lo sguardo perso nel vuoto, mentre papà e mamma discutono in un bar scadente all’angolo della strada. Uno di quei locali che ti tolgono la voglia di entrare, con un vecchio stanco dietro al bancone che zoppica e indossa un grembiule sudicio, e ne ha viste troppe nella vita e nulla lo smuove più.

Il padre ha l'atteggiamento strafottente e agita le mani nell’aria. Cosa si siano detti in quel bar nessuno lo saprà mai. Lui riparte con la sua macchina e al fianco la bionda vaporosa.

Niente gelato. Quanto a gelo, per quella sera poteva bastare.

"Bella la fidanzata di papà!"

Piccola Angela che finge di credere normale che un papà, oltre a una moglie, abbia anche una fidanzata.


Ogni bambino spezzato si sente addosso una ferita che non cicatrizza mai. Ogni adulto spezzato si sente in credito con il mondo intero, come se gli dovesse qualcosa, ma non è così, il mondo, per dirla tutta, non gli deve proprio un cazzo.

La scritta Terapia Intensiva mi accoglie tutti i giorni due volte al giorno. Ormai compio gesti meccanici, la vestizione per entrare a trovarti è allo stesso tempo un dolore e un rito pacificatore. Indosso il mio costume, come facevano i gladiatori prima di entrare nell'arena. Disinfetto le mani, infilo il camice verde, la cuffia, i guanti in lattice. E solo dopo queste operazioni posso entrare e venire da te.

"Sembri un uccellino."

Sento improvvisamente alle mie spalle la voce di quell'uomo che vedo tutti i giorni davanti al vetro.

"Mi può sentire?" chiede alle infermiere. Loro non si pronunciano e si limitano ad alzare le braccia verso l'alto. È evidente che non vogliono disilludere i parenti.

"Abbiamo indotto un coma farmacologico per sospendere le attività cerebrali” risponde qualcuna in tono più professionale.

“Anche i sogni?” anela l’uomo.

L’infermiera stira un sorriso forzato, gli appoggia una mano sulla spalla e aggiunge: "Non smetta di parlarle".


Non si possono disattendere le speranze.

Mi domando ancora se lui, mio padre, ti abbia mai chiamata con nomignoli affettuosi, dolci, almeno una volta. Se sia mai stato spinto da un moto di tenerezza. La solita ossessione che hanno i bambini bacati, guasti. Loro due si sono voluti bene almeno una volta? A ripensarci vi avevo sempre visto come due entità a sé stanti, due monadi che non comunicano, salvo poi farlo in maniera esplosiva, come bombe a scoppio ritardato.

Respiri regolarmente, forse accenni a qualche movimento. E’ estenuante l’attesa senza tempo.

Ti stringo la mano. Resto lì, avvolta nel camice verde, parlo, dico stupidaggini, forse accenno un’ombra di sorriso.

Tu dormi. Mi guardo intorno, l'uomo che viene tutti i giorni è lì, anche lui sperso; la divisa verde con la cuffia in tinta gli restituisce un'immagine un po' buffa, e quello sguardo vacuo sembra domandare: cosa sto aspettando?


Guardo ancora il monitor.

Si sovrappongono immagini lontane.

E’ notte, vedo Angela svegliarsi. Nel buio si mette in ascolto di tutti i rumori strani della casa e della strada. Qualche urlo da fuori, forse un ubriaco che vaga senza una meta. Poi il suono metallico dell'ascensore. Può intuire con assoluta precisione a quale altezza si arresti. Se è un suono prolungato vuol dire che sale all’ultimo piano, quello del suo appartamento. Sente la serratura scattare e la cadenza dei passi che si avvicinano alla sua stanza. Avverte lo sguardo su di lei. Nella semioscurità solleva appena la testa dal cuscino: "Mi porti un bicchiere d'acqua?" E’ l'unico momento in cui vede il padre sorridere. In quella minuscola finestra temporale, nelle ore notturne, riescono a comunicare.

Per un attimo non si sente più invisibile.

Angela non ha quasi mai sete.

Entrambi lo sanno.

Angela non si rassegna mai, come solo i bambini sanno fare, alle stupidità degli adulti. Quella forza e quell’energia nell’attesa di qualcosa. Probabilmente di niente.

È da lì, forse, da quell’illusione disattesa, che nasce l’insicurezza che indossi come un vestito scomodo che non riesci a dismettere. Perché quell’abito è diventato la tua pelle.

Ora vedo Angela con sua nonna. Gusta il caffelatte dolce che le ha preparato per colazione. O fa ruotare la manovella del macinino di caffè con cui la lascia giocare. Come i vasi di terra che si diverte a riempire e svuotare all’infinito. Ancora flash. Profumi lontani che tornano. Gesti felici. Semplici.

La nonna che ogni giorno fa sempre le stesse cose da quando Angela ne ha memoria. I lavori domestici, sempre e solo quelli, le rare uscite, solo per fare la spesa per poi ritornare a casa e cucinare per gli uomini di famiglia, senza che loro muovano un dito per aiutarla. I tre uomini, i suoi padroni. Il marito, il fratello e il figlio che ritorna a ogni fallimento di una storia. Tre inutili e ingombranti presenze alle quali mai si è ribellata. Gretti e vigliacchi. Il nonno inetto, nemmeno una tazza di caffè è capace di farsi, piuttosto rovescia tutto sui fornelli per ripicca. E la vecchia, in silenzio, si lascia vivere come se fosse giusto così, perché lei è solo una donna. Non deve fare domande, può solo discutere del mangiare e servire gli uomini a pranzo e a cena. Quella cena che lei consuma in disparte, da sola, per ultima, quando tutti hanno finito. In un angolo della cucina dalla luce fioca. Dopo che i maschi di famiglia si sono saziati.

"Nonna, ma tu ami il nonno?" chiede Angela.

"Certo gioia, è stato l'unico amore della mia vita."

Si. Tutto deve essere cominciato in quella casa. Da come venivano trattate le donne in famiglia. Dal vecchio zio Ciccio, gagà dai capelli impomatati, nostalgico degli anni Venti del secolo scorso, che della mediocrità e dell’indolenza aveva fatto uno stile di vita.

"Angela, non farti crescere i capelli, stai così male."

"Mi piacciono lunghi, zio"

"Non devi piacere a te, devi piacere agli altri" pontificava tronfio con una smorfia disgustata.

Si deve essere stato lì, in quell'aria satura di malessere, che deve essere cominciato tutto. In quei rapporti insani Angela deve aver imparato, suo malgrado, a incassare meglio d’un pugile di strada. Senza mai dare a nessuno la soddisfazione di farsi vedere fragile. Come le ha sempre ricordato sua madre. Quella che ha trovato il coraggio. L’unica che si è ribellata destabilizzando gli equilibri malati di generazioni cieche alla deriva. Quella che è riuscita a scappare con una valigia e una figlia, via, lontano da tutti.

“Da piccola, piuttosto che dare la soddisfazione di farti vedere piangere, ti irrigidivi tutta e stringevi i pugni”.

Dentro bruciavo di rabbia, mamma.

Il nemico, a volte, è nascosto dentro casa.

E’ passato un mese. Nella Terapia intensiva il monitor continua a parlare al posto tuo. Le speranze si affievoliscono.

Lo vedo sempre, quell’uomo, ogni giorno viene e staziona davanti al vetro.

Una volta sola è entrato nell’acquario. Non sapeva come muoversi, non sapeva cosa fare, totalmente incapace com’è di prendersi cura degli altri.

Ma il volto, quello parla, e non ha bisogno di parole. E’ una maschera contrita di incredula mortificazione. Ha abbandonato l’arroganza di sempre. L’ho visto bene. E ho provato un’improvvisa compassione. Per lui, mio padre, il tuo ex marito. Il tuo ex carnefice.

È un peccato che tu non lo veda, ora, quell’uomo che piange al tuo capezzale.

Ma forse lo vedi e io non posso saperlo.

Per quanto riguarda me, non ho che da prendere per mano Angela, la bambina che sono stata, e trovare la forza di andare avanti. La forza di vivere, in quello che resta.

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