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Quando vedono portar via la loro casa. Poi fuggono per trovare una nuova casa

Cronache dall'Afghanistan



di Gholam Najafi


Oggi è un sabato di novembre calmo e tranquillo perché i venerdì sono passati senza i soliti feriti e morti a cui il popolo afghano si è dovuto abituare. La città di Herat è molto gradevole per fare due passi, i bambini e le bambine giocano per la strada, ognuno di loro sa creare un nuovo gioco, perché molti parchi sono ancora chiusi oppure vi possono accedere parzialmente solo gli uomini o le famiglie.


Uscivo di casa e spalancavo la porta nel quartiere Hazara a Jibrail, dove moltissimi Hazara hanno cercato un rifugio emigrando dai luoghi della loro nascita. I luoghi d’origine sono i vecchi villaggi dove quest'estate i contadini sono stati colpiti da torrenti di pioggia che hanno distrutto interamente le loro coltivazioni. Mi raccontano la trasformazione delle loro terre.

"Uscendo dalla porta o guardando dalla finestra, non riconoscevamo più i nostri campi da quante pietre quella tempesta aveva portato, tutti i nostri raccolti sono stati portati via, in altre terre lontane, alberi, mucche, capre, pecore, galline. Le case sono state sepolte sotto le macerie. Non rimaneva più nessuno se non i pochi che si erano riparati in una grotta. Il cielo non aveva i soliti lampi, ma un continuo tuono, e non mostrava pietà per noi contadini. La tempesta sembrava partita dalle nostre case; noi abbiamo mandato messaggi ai villaggi più a valle, dove godevano ancora il sole, dicevamo di abbandonare le loro case e rifugiarsi in zone alte sulle montagne. I rami degli alberi facevano un piccolo movimento per poi sparire sotto violentissime raffiche. Il giorno dopo, quando è uscito il sole anche da noi, molti hanno iniziato a litigare per ritrovare i loro alberi, solo gli alberi perché gli animali erano già carcasse, ma anche gli alberi erano feriti e diventavano sconosciuti. Le case erano state abbattute dalle onde della intensa pioggia di quella settimana. I tuoni avevano colpito violentemente questi villaggi afghani, dopo 40-42 anni di tranquillità. Sembrava che tutto fosse da risistemare.”

A me tornavano in mente i versi di Ovidio nella Metamorfosi che purtroppo non ho potuto portare qui con me.


Qui oggi, in questo quartiere, ognuno cerca di crearsi un lavoro per sopravvivere, oppure lascia la famiglia e va in Iran o in Pakistan.

Tutta Herat è fra le braccia di una serie di catene montuose, ma non solo, la città è recintata dalle diversità linguistiche fra le varie etnie e dalla diversità di fede, c'è, però, una continua festa tra chi arriva e chi accoglie i nuovi arrivati, i contadini inizialmente festeggiano lo scampato pericolo mescolando i loro costumi, tradizioni, cibi, poi, giorno dopo giorno, si rendono conto delle difficoltà economiche: qui tutto è da comprare con il denaro, chi ha denaro vive bene e chi non ne ha inizia a sentire la disperazione. Non è un problema di oggi, già ne scrivevo ne Il tappeto afghano di questo cambiamento e di questa mescolanza.


Finché non ci sarà la libertà di girare il mondo e conoscere, ognuno penserà che l'incubo di quest’estate sia finito, invece è appena iniziato, come questo vento autunnale secco e duro come una pietra. Io non festeggerei tanto né per questa strana stagione né vorrei illudermi per quello che è appena finito.

Vorrei scrivere, scrivere finché la mia penna è nella mia tasca, come questa mia valigia sempre pronta a partire per l'Italia, dove ho lasciato cari amici e parenti, ma vorrei anche ritornare qui dove il mio cuore vive con più serenità, perché conosce ormai bene le tante difficoltà del vivere. Cammino in mezzo alla nebbia e fingo di essere a Venezia, invece no, sono qui a camminare sul fango di questa città, sento profumi familiari, racconti già sentiti mille volte quando ero bambino.

Moltissime donne curano dolci fiori, i fiori dello zafferano, di cui abbiamo conoscenza fin da piccoli: sono petali che sembrano aver rubato i baffi e le ciglia delle farfalle. Ogni donna prende 40/50 centesimi al chilo per questi fiori. Altri arrivano con i semi di girasole, mandorle, arachidi, uvette, albicocche secche, coltivate e raccolte da loro stessi; l'Afghanistan è un paese ricchissimo di questa frutta secca.


Molto spesso i venditori si addormentano sulla propria fatica, io giro studiando l'arte di queste vie tormentose. Cercano di alzarsi sui propri piedi ma cadono ogni volta che si appoggiano alle mani degli altri e allora provano a utilizzare le proprie mani e piedi.

Alla fine mi scoppia il cuore nel vedere come la gente ha fiducia anche in un momento così difficile per l'economia afghana. Torno sempre a casa con un autista che è nato in questa città e che conosce ogni più piccola via senza navigatore, andando verso il nostro quartiere lo ascolto: "Questa zona della città una volta a nessuno interessava, per il suo vento forte, per la quantità di sabbia e polvere che d'estate arrivava nelle case, era un deserto, mentre ora sta diventando la zona che più penetra nel cuore."

Intorno alla strada c'è una folla di drogati che si stringono fra di loro sotto un velo senza voce.



 

Gholam Najafi è nato in Afghanistan a Ghazni.

Ha trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino. Dopo la morte del padre, all’età di dieci anni, è fuggito dal suo paese d’origine verso il Pakistan, l’Iran, Turchia, Grecia e infine l’Europa.

Dal 2007 risiede in Italia, a Venezia con la sua famiglia. Si è laureato in soli due anni in “Lingua e letteratura araba-persiana” e si è specializzato in “Lingua politica e economia dei paesi arabi” all’Università Ca’Foscari.

È autore di “Il mio Afghanistan” (Meridiana) da cui è stato tratto un film omonimo, “Il diritto di famiglia in Iran tra le due rivoluzioni” e, "Il tappeto afghano"(Meridiana)

Si dedica a scrivere articoli, racconti e poesie sulla situazione afghana.

Il suo ultimo libro è Tra due famiglie (La Meridiana) . Le foto presenti nell'articolo sono di proprietà riservata dell'autore.

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