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Liscio come l'olio: di ulivi e dinastie

  • Immagine del redattore: Arianna Destito
    Arianna Destito
  • 9 gen 2020
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 17 ott 2020

Lo scrittore Marino Magliani ci racconta la sua lettura del romanzo "Liscio come l'olio" (1000eunanotte edizioni, 2019) di Guido Novaro.


Qui la conversazione tra Marino Magliani e Guido Novaro.


Marino Magliani @ foto di Yuma Martellanz
Marino Magliani @ foto di Yuma Martellanz

Una delle prime impressioni che si ha durante la lettura di questo libro, che considero a tutti gli effetti un romanzo - e di ottima fattura -, è che si va per quadri (poi si parlerà molto anche di quadri veri e propri), laddove la struttura è un incastro di cornici magicamente intrecciate dalla mano dell'autore, di modo che alla fine - si trattasse davvero di sole cornici di quadri - sembrerebbe quasi impossibile liberarle una dall'altra senza rompere l'intera composizione.

Ma il bello delle narrazioni, di un tipo di narrazioni, dev'essere proprio questa possibilità che ci fornisce il caso, o la struttura, di dividere i blocchi e renderli indipendenti, per poi confrontarli, e cercarne le saldature, un po' come facevano i Romani che non potendo far cuocere negli enormi forni i recipienti-anfora fabbricavano a pezzi e alla fine saldavano il tutto col piombo, o col metodo della saldatura ne ricomponevano la forma, quando durante i viaggi in mercantile le anfore si venavano. Restavano certi sentieri di piombo, graffettati da punti di sutura lungo l'intero percorso della ferita.

In liscio come l'olio (

) si può rilevare qualcosa di analogo che attraversa i campi narrativi e assomiglia in qualche modo a delle vecchie, o meno vecchie, cicatrici. Chi scrive questa nota è un figlio di contadini della Val Prino, ponente ligure, piccolissimi proprietari terrieri, ulivi, orti, prati da sfalcio, boschi, ma principalmente ulivi, quelli che hanno sfamato la popolazione dei paesi fino a una cinquantina di anni fa.

Storie non dimenticate, e raccontate molto bene da Giovanni Boine all'inizio del secolo scorso, storie di pochi grandi proprietari e di un resto di, tanta, povera gente che aspettava l'annata per pagare la bottega. Una Liguria divisa in due fasce: in cima la severità e la sofferenza della terra scarsa e degli ulivi invasi dalla mosca, in basso la riviera abbiente che produceva l'olio. Che vendeva l'olio. Che esportava l'olio.

In questa nota, che diventa ora un'intervista, si parlerà della più grande industria olearia ligure, che è stata per tanto anche la più grande industria olearia italiana. L'Olio Sasso. Per la gente come me, per un figlio di minuscoli proprietari che non vive più da moltissimi anni in Liguria e non ha quasi mai più pagato le bollette con il ricavato della vendita di olive, Olio Sasso ha sempre identificato il marchio di un'altra Liguria, lontana, non solo geograficamente, ma <<sostanzialmente>>. Non ne sapevo molto, ad esempio non sapevo che i Novaro fossero imparentati coi Carli, e che una dinastia di soli uomini Novaro avrebbe guidato il marchio di quella che invece portava il nome di una donna: la signora Sasso. Mi sono quasi sempre occupato di scrittura, di romanzi, scritti, tradotti, curati, e in quanto a scritti da me, quasi sempre ambientati nella Liguria occidentale, e nel marsupio dell'entroterra, e questo ha fatto sì che io abbia tutto tutto Boine, e le quattro mila lettere da lui inviate a poeti, scrittori, potenti o miserabili vissuti a cavallo dell'Ottocento e del Novecento.

Risale dunque al periodo delle mie letture, la conoscenza dei Novaro, specie di quel Mario Novaro, discendendente di Agostino, illuminato e colto che ha saputo persino produrre olio attraverso la cultura. Ma è una donna, anche lei molto colta e elegante, l'architetto Maria Novaro, che mi ha messo nelle condizioni di conoscere davvero questa grande storia. A lei va il mio grazie.


Foto Marino Magliani di Yuma Martellanz


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