di Miriam Sassani
L'etiope, con la "i" accentata. Così chiamavano la ragazza nera, bellissima, che era venuta a vivere nel mio palazzo. Abitava nella mansarda al settimo piano , e visto che l'ascensore era sempre rotto, scendeva le scale passando davanti alle porte di tutti gli appartamenti, spalancate per il caldo alla ricerca di un refolo d'aria.
Sarah, avrei scoperto dopo il suo nome, scendeva come una modella sulla scalinata di Trinità dei Monti, elegante, sinuosa, con la gran massa di capelli neri e ricci tirati sulla sommità del capo, a scoprire il lungo collo di giraffa. Era arrivata da noi un paio di mesi prima e subito aveva attirato l'attenzione di tutti per la sua bellezza altera e il mistero che la avvolgeva come un mantello. Era sempre da sola, non un'amica, non un fidanzato, non un parente che mai avesse salito tutti quegli scalini fino alla sua porta. La signora anziana del terzo piano, quella saccente che sapeva sempre tutto, decise che quella ragazza meravigliosa che non dava confidenza a nessuno esercitava il mestiere più antico del mondo, e tutti le credettero. Una sera bussò alla mia porta per chiedermi un uovo e del pane.
Normalmente, non avrei nemmeno aperto, normalmente sopravvivevo affacciata alla finestra della mia vita, indifferente a chi passava e che qualche volta si fermava. Ma ero in uno dei miei giorni fragili, in cui la solitudine pesava troppo anche se scelta, uno di quei giorni in cui mi sarei accontentata di un gatto, o di un uccellino o di un criceto, a cui assomigliavo sempre di più, visto che non facevo altro che girare nella ruota. Era uno di quei giorni in cui il mio ventre sterile era la perfetta sintesi della mia esistenza vuota, uno di quei giorni in cui ero sbriciolata dal dolore con i pezzi sparsi sul pavimento: in me solo grappoli di pensieri appesi, pesanti come sassi e immobili come uno stagno.
In quei momenti, io ero il tempo, io ero lo spazio e in quei momenti io dovevo trovare una strada in cui indirizzare il dolore, un percorso che avrebbe generato ancora speranza. E la mia strada, la mia speranza fu Sarah, che quella sera bussò alla mia porta per chiedermi un uovo e del pane. Quando entrò nel mio appartamento fu come se fosse penetrato un raggio di luce, una luce nera, interrotta solo dal bagliore degli occhi. E fu subito parte di me, fu subito figlia, generata dal mio pensiero, amata come nessuno mai.
Dopo un paio di settimane, Sarah lasciò la mansarda e venne a vivere con me, occupò col suo corpo lungo la camera degli ospiti e le mie giornate. Dal momento in cui era venuta a vivere con me avevo ricominciato a sognare, a fare bei sogni, a sognare il mare con la sua risacca, la spiaggia bollente, il mio corpo giovane e nudo disteso sulla battigia. Sognavo cose belle e mi svegliavo felice come non accadeva da tanto, troppo tempo. Sarah non mi aveva mai parlato del suo lavoro, vigliaccamente non volevo saperlo, mi bastava avere la certezza che sarebbe tornata da me, alla cena che le preparavo, alle lenzuola fresche di bucato che ogni giorno cambiavo nel suo letto.
Le storie degli altri hanno sempre una forma, una struttura, un significato che sembra non appartenere alla nostre vite, scialbe e ripetitive. La storia di Sarah era come un film ben scritto e ancor meglio girato, con sfondi perfetti esaltati da eccezionali direttori della fotografia.
Il mistero dell'Africa, l'Etiopia e la terra rossa dei suoi villaggi, i baobab nella savana immensa, gli animali sconosciuti, tutto, ma proprio tutto, rispondeva a canoni narrativi precisi, ed io immaginavo la sua vita come un romanzo d'avventura pieno di colpi di scena. Uno di quei romanzi che vale la pena leggere e che si ricorderà per sempre. La Storia che si intrufola nelle nostre storie.
Una sera, mentre eravamo a tavola a mangiare un uovo in camicia, Sarah adorava le uova, mi feci coraggio e le chiesi il perché. Non cosa, o quando, o dove. Semplicemente perché. Fu come aprire il vaso dei venti di Eolo.
Quello che mi racconto' sfiorava l'orrore, tanto che mi pentii di averglielo chiesto mentre vedevo il dolore che sgorgava dai suoi occhi sbarrati. L'avevano rapita, seviziata, stuprata e poi avevano iniziato a sfruttare il suo corpo. La sua bellezza le aveva in qualche modo fatto evitare la strada, ma quel che faceva nei luxury hotel non era meno disgustoso, i soldi dei suoi ricchi clienti erano ugualmente umilianti, alla stregua degli spiccioli dei poveracci che caricavano le ragazze per strada.
Anche Sarah si affeziono' a me, immagino che le ricordassi, anche se piccola e tonda, sua madre in Africa, che tante speranze aveva riposto in quella figlia bellissima.
Sarah era passione pura, esprimeva vita con i gesti, con gli occhi e i sorrisi, ed io ero fiera di lei come se davvero fosse la figlia che non avevo mai avuto, o che avevo perso, chissà. Una mattina non uscì di casa, e nemmeno la sera. Era serena, rimase con me tutti i giorni seguenti, aiutandomi in casa e facendomi ridere con il suo italiano strampalato. Rimase con me. Il senso di tutto, forse, era quello: anime che si trovano.
Qualunque peso porti addosso, il cuore pesa sempre di più.
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