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  • Immagine del redattoreAntonella Grandicelli

Hebrides. Le isole al limite del mare. E la voce dell'Atlantico.


Che cosa sono le Ebridi Esterne?


Isole al limite del mare, questo è il significato in lingua norrena del termine Hebrides. E le Ebridi Esterne o Ebridi Occidentali sono proprio questo: una lunga striscia di terra frustata dai venti, suddivisa in tanti frammenti di dimensioni diverse, che proteggono il litorale della Scozia dall’imponente e tumultuosa voce dell’Atlantico.

Lewis, Harris, North Uist, Benbecula, South Uist, Barra, sono i nomi delle sole isole maggiori, mentre mille altre intorno a loro appaiono e scompaiono nell’opaco della nebbia.

E tutte insieme da una parte chiudono, dall’altra aprono all’infinità dell’oceano e al sogno di un altrove.




Il fascino dell’altrove

Forse che sia un po’ troppo “altrove”? Perché, ad essere sincera, all’annuncio della meta del mio viaggio, se molti mi hanno sorriso serafici ignorando in realtà l’esistenza delle Ebridi Esterne, quei pochi che le conoscono, il sorriso non lo hanno nemmeno tentato e sono passati direttamente allo sguardo di chi dubita della tua sanità mentale.

Certo, una manciata di briciole di sabbia perse in mezzo ai venti ultraoceanici, dove la temperatura media in agosto si aggira intorno ai 15° C, non sembrano proprio quel paradiso che il concetto di vacanza richiama. Ma vi assicuro che non è così, perché se le Ebridi Esterne non sono il paradiso, sicuramente sono ben piazzate in classifica. Ora vi racconto perché.

Harris e Lewis, dove tutto inizia (o finisce)

Ho raggiunto le isole approdando nel piccolo porto di Tarbert, su Harris, con un traghetto della storica compagnia di navigazione Calmac (Caledonian McBrayne), che con varie tratte unisce tra loro quasi tutte le Ebridi. La traversata è durata poco più di un’ora e mezza in unità di misura della testa, ma un paio di ere geologiche in unità di misura dello stomaco: attraversare il Minch, il canale che separa l’isola di Skye dalle Ebridi Esterne, un tratto di mare profondo e spesso burrascoso, è già un piccolo assaggio di ciò che sarà trovarsi al cospetto dell’oceano.




Inoltrandomi in mezzo a oscure montagne ricoperte di brughi e a un dedalo di acquitrini argentei – i lochs , sono giunta a Stornoway, la capitale dell’isola di Lewis e unico agglomerato che possa chiamarsi città in tutto l’arcipelago. In realtà Stornoway conta a malapena i 9000 abitanti di uno qualsiasi dei nostri piccoli borghi di provincia, ma è una suggestiva cittadina con un graziosissimo centro pieno di locali dove mangiare e ascoltare musica, un castello, un porto e persino un aeroporto. Certo l’approccio con la realtà delle isole è stato quanto di più simile ad un test per entrare nei navy seals: per raggiungere un pub dove cenare ho dovuto fendere un muro di pioggia plumbea e un vento laterale che continuava spingermi verso la chiesa anziché verso il pub. Un suggerimento a nutrire più lo spirito del corpo?

Vita sulle isole

Al mio risveglio la mattina , Jane, la simpatica signora da cui ho alloggiato, mi conferma che le previsioni danno ancora tempesta. Approfitto allora del tepore della sua cucina e della sua disponibilità per chiederle come è vivere sulle isole e perché compiere questa scelta. Jane, che è giunta lì da Birmingham e da una vita comune, mi racconta che, appena arrivata dieci anni prima, l’isola mise subito alla prova la sua tenacia: quattro interminabili giorni di tempesta le trascinarono via tutte le recinzioni dell’orto, il pollaio – ebbene sì, con i polli dentro – e parte della copertura del tetto. Il vicino di casa, prima ancora di darle il benvenuto, le suggerì di correre a fare provviste, perché con la tempesta i traghetti non viaggiano e, con loro, nemmeno i generi alimentari.

Insomma, le isole sono un mondo a sé. Jane, come tutti del resto, ha imparato ad avere una capra per il latte e a riempire la dispensa di conserve fatte con frutta e ortaggi del suo orto, perché qui l’autosufficienza non è una scelta. Ma Jane mi assicura che vivere qui significa anche ritrovare il giusto spazio tra noi e la natura, imparare ad assecondare le movenze della sua danza eterna, quando si avvicina luminosa e quando si allontana oscura e pericolosa. E ad apprezzare i buoni vicini.

Verticale e orizzontale

Percorrendo queste isole, il concetto di verticale ed orizzontale si fa concreto.

All’apice di Lewis, il Butt of Lewis è conosciuto per essere in assoluto il luogo più ventoso di tutte le isole. E il bello dei miti è che riescono sempre a non deluderti. Raggiungo infatti il faro abbandonato, uno dei tantissimi costruiti da David Stevenson, zio del grande scrittore Robert Louis, lottando fieramente con un vento così poderoso che nemmeno una seduta in palestra mi avrebbe fatto perdere tante calorie. Ma ne è valsa davvero la pena. Il faro sta lì, davanti a me, solitario ed imponente, vertice del mondo conosciuto, ad est linea d’arrivo, ad ovest ultimo sguardo prima dell’ignota immensità.

A circondare il faro, magnifiche, oscure scogliere che s’inabissano vertiginose, schiaffeggiate dal mare in burrasca. Per quei tre o quattro minuti in cui riesci a resistere alla pioggia sferzante e all’ululato del vento, la sensazione di essere alla fine del mondo si fa emozione potente. Ed esaltante, perché qui l’onda arriva ruggendo selvaggia e si ritira con l’eco dolente di un canto.




Riporto la direzione verso sud per intraprendere i 190 km che separano la punta più alta di Lewis da Barra, l’ultima delle isole maggiori. Procedo fiancheggiando piatte distese d’erba rossastra, bassa e bagnata, acquitrini, una pianura paludosa, orizzontale fino all’infinito. Ma ciò che sembra povero ed inutile, è sempre stata in realtà una grande risorsa per queste isole. Intere porzioni di queste distese vengono infatti tagliate come fossero moquette e suddivise in mattoncini scuri, messi a seccare e bruciati nei camini e nelle stufe. E’ la torba, un combustibile a chilometro zero che si rigenera continuamente grazie all’umidità e alla pioggia. E il profumo della torba che brucia, acre e pungente sì, ma così caratteristico, impregna l’aria e seduce persino l’anima cristallina dell’ Harris Gin.

Procedendo ancora, incontro le Callanish Stones, cerchi di pietre neolitiche, che hanno proprio l’aspetto di lunghe dita protese verso il cielo, misteriose come gli uomini che le hanno erette, a testimoniare che abbiamo sempre saputo che gli dei hanno residenza oltre la nostra vista. E chissà, magari il messaggio delle lunghe dita è che in fondo ce ne siamo un po’ risentiti.



Nella vecchia fattoria

Lungo la strada incontro gli scheletri di molti croft abbandonati. Costruiti in pietra, erano le tipiche fattorie dove viveva gran parte della popolazione e dove si esercitava la difficile e coraggiosa arte dell’autosufficienza, coltivando piccoli campi, allevando pecore e parlando il gaelico, una lingua dura come la vita che doveva raccontare. Hanno un fascino triste di focolare spento, di generazioni che hanno lottato per conquistarsi un giorno in più, di mani laboriose che tessevano al telaio la grezza carezza del tweed. Non tutti però sono in stato di abbandono. Alcuni sono stati acquistati da qualche inglese che, innamorato delle isole, una volta in pensione ha deciso di trasferirvisi, ridando loro nuova vita e trasformandoli con passione e fiuto per gli affari in bed&breakfast. All’esterno la tradizione, all’interno il business.



Chi ha portato i pop corn?

Raggiungo nuovamente Harris, che condivide con Lewis parte del suo corpo, essendone in realtà la prosecuzione. Harris è fatta degli unici veri monti che si possono trovare in queste isole. A chiamarli monti, a noi, figli delle Alpi, vien da ridere, quando il più alto non arriva agli 800 metri. Sono quindi poco più che colline, ma sono così ripide e scoscese e così sempre inguantate di nebbia da mettere soggezione. Qui il padrone è il cervo, che come un animale totemico campeggia sui segnali stradali, ma di lui in carne ed ossa, nemmeno l’ombra. E le uniche regine rimangono le pecore, bianche e morbide, che a centinaia punteggiano le rive dei lochs, i tappeti erbosi delle torbiere e si accomodano sprezzanti del pericolo lungo i bordi della strada osservando il passaggio delle auto come fossero al cinema. E in fondo il movimento lento e circolare delle loro mascelle è proprio lo stesso di quando noi mastichiamo pop corn inebetiti davanti alla nostra serie preferita.

Tutte le declinazioni dell’acqua: North Uist, Benbecula, South Uist

Un’ora di traghetto mi porta dall’ultimo avamposto di Harris, Leverburgh, al primo di North Uist, l’isola di Berneray. Questa volta il viaggio è più tranquillo e riesco ad assaporare la sensazione dell’andar per mare senza fare testamento.

Lascio Berneray e mi inoltro attraverso quel mondo fatto d’acqua che sono North Uist e South Uist. L’acqua è proprio dappertutto: nell’interno costellato di laghi, laghetti, acquitrini, punteggiati di ninfee e piante del cotone; lungo la costa, bordata di spiagge bianchissime, protette da alte dune erbose, e lambite da un mare che guizza come un pesce grigioazzurro; nell’aria, bagnata da sottili gocce indecise, che vanno e vengono senza mai decidersi a chiamarsi pioggia. E qui le criptiche lezioni di inglese sulla distinzione tra rain, drizzle, showers assumono finalmente senso.



In tutto questo a regnare è il machair, la distesa di piccoli fiorellini colorati che ricopre le dune oltre le quali si allunga la spiaggia. Il vento li spettina e tremolano incessantemente come dita che suonano un’arpa. Il machair è continua tavola imbandita per greggi di pecore tranquille, le famose Black Face, che si sparpagliano ovunque, loro sì assolutamente indifferenti alla pioggia. E dopo tutto il giorno che vengono lasciate libere di intenerirvi con i loro musetti neri, vi assicuro, non trovo affatto carino inserirle alla sera nel menu.



Il Paradiso non è perduto …

L’ultima tappa del viaggio è l’isola di Barra, un’autentica gemma che lascia senza fiato.

Barra è di una bellezza che commuove, nelle immense spiagge bianchissime, nelle insenature strette e profonde, piccoli fiordi in cui il mare si insinua lontano dalla furia dei marosi e diventa uno specchio limpido dove si perde il confine tra l’acqua e cielo. E nel corso di un’intera giornata i colori se li prende tutti, ma proprio tutti.



… e ci si arriva in First Class

Sull’immensa spiaggia di Eliogarry le acque risplendono di ogni sfumatura che va dal verde al blu e la marea lascia infinite conchiglie, i cui riflessi rendono la sabbia di un bianco così luminoso che per un attimo pensi di essere ai Caraibi. Non è strano vedere qualcuno chino sulla distesa di sabbia, armato di rastrello e secchio, raccogliere molluschi contendendoli ai tantissimi uccelli. E all’improvviso, il ronzio di un motore ti fa alzare gli occhi e ti vedi venire incontro un bimotore che scende nella classica manovra di atterraggio. Perché la spiaggia di Eliogarry altro non è che l’aeroporto di Barra. Ma gli operativi di volo è la marea a deciderli.



Ma le sirene si abbronzano?

Riuscire a trovarle non è poi così facile e i pochi abitanti di Barra mantengono stretto il segreto. Ho camminato a lungo, su e giù per ripidi saliscendi erbosi, sfidando un vento teso oltre i 40 nodi, e lontano da sguardi indiscreti, sono finalmente apparse. Sdraiate sugli scogli, incuranti delle onde che flagellano di spruzzi la roccia, trentasei splendidi esemplari di foche se ne stanno pigramente sdraiate al sole. A vederle così tranquille stiracchiarsi, mettersi su un fianco, poi sull’altro, sbadigliare e socchiudere gli occhi sembrano proprio delle bagnanti dalle morbide forme intente ad abbronzarsi. E per un po’ ci siamo osservati, proprio come si fa con il vicino d’ombrellone, gettandogli qualche occhiata curiosa mentre fingi di non farlo.



Le isole al limite del mare

Ma dov’è dunque questo limite? Se lo cerchi, non lo troverai. Perché quello di oggi non sarà quello di domani. Quando il limite è liquido non sai mai da che parte stai. Le isole hanno una mappa incerta che dipende dal mare e dai suoi movimenti; hanno confini labili che non sono mai uguali perché le maree li modificano, le tempeste li stravolgono, i venti li disegnano sempre diversi. La marea scopre praterie di alghe brune, svela piccoli universi sulla spiaggia, che poi sommerge e che potrai solo indovinare. E allora ti arrendi a quella carezzevole incertezza del confine che rende la loro vita così simile alla nostra.

Queste sono le Ebridi Esterne, sottili frammenti di roccia consumati dall’eterno abbraccio del mare.





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