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"Dove crollano i sogni". Storia di Blondi e di un sogno malato

di Antonella Grandicelli




La periferia come terreno germinativo del sogno. La periferia come luogo dove quel sogno crolla, si riduce in macerie, si polverizza. Questo è il paesaggio narrativo che Bruno Morchio sceglie per il suo ultimo romanzo Dove crollano i sogni (Nero Rizzoli, 2020).

È la storia del quartiere genovese nel cuore della Valpolcevera che ha vissuto per decenni sotto l’ombra del Ponte Morandi (la copertina del libro ne riporta perfettamente il senso di angoscia incombente). È la storia di Blondi e del gruppo di ragazzi che la circondano.

È la storia di una generazione di giovani, perduta nei miasmi del fallimento di quella che l’ha preceduta e che come un morbo è trapassata di padre in figlio. Ma Blondi è diversa, lei non ci sta, lei è riuscita ad agguantare un sogno, a dargli corpo, sostanza, progettualità. E non ha intenzione di rinunciarvi, costi quel che costi.

Ancora una volta Bruno Morchio ci consegna un romanzo dalla narrazione asciutta e insieme densa, in cui si avverte tutta la tensione della staticità quando viene portata al limite. E in cui è davvero difficile compiere l’operazione manichea di scegliere chi è il buono e chi è il cattivo. Un romanzo che avvince dalla prima all'ultima riga come un noir, che stordisce in un crescendo come un thriller, che richiama a sé emozioni forti come una tragedia. Che si offre dunque a più di una lettura. Abbiamo provato ad indagarne alcune insieme all’autore.

“Tutti nel quartiere mi chiamano Blondi, ma il mio vero nome è Ramona. La mamma ripete di averlo scelto perché le ricordava una bella collega dell’Ecuador a cui era molto affezionata, ma io non l’ho mai bevuta. Le ecuadoriane hanno la pelle scura e i capelli neri e di somigliare a una come me se lo sognano di notte.” Questa è Blondie, la diciassettenne protagonista di Dove crollano i sogni, questa la sua entrata in scena, immediata, diretta. Da queste prime righe si comprende che ci troviamo di fronte a qualcuno che, se pur giovane, sa bene chi è, che ha piena coscienza delle proprie possibilità, molto di più dei ragazzi e degli adulti che la circondano, ed è consapevole che non si accontenterà della realtà come gliela raccontano. Quanto è stato complesso, se lo è stato, pensare come una ragazzina di diciassette anni, infilarsi sotto la sua pelle, sentire e immaginare i suoi sogni e bisogni? Come e perché è arrivata proprio lei, Blondi, a te, per raccontare di questi anni, di questi luoghi?


Ho lavorato come psicologo in un consultorio familiare e per trent’anni mi sono occupato di adolescenti marginali; il problema è che, guardando alle periferie, giovani come Cris, la Ketty e Samuel non sono più così “marginali”, ma tendono a diventare la norma. Una generazione che non studia e non lavora, alla quale è stato rubato il futuro. E siccome il tema del futuro è un mio chiodo fisso, era logico che dopo il crollo del ponte appuntassi la mia attenzione sui ragazzi, la generazione di domani. Vero anche che Blondi rivela un’intelligenza lucida, uno sguardo disincantato sul mondo che la circonda: tuttavia i limiti della sua formazione le impediscono di investire queste qualità in un progetto che davvero la liberi dalla gabbia del suo destino. A ben vedere il suo percorso è tutt’altro che liberatorio: come un topolino si caccia in una trappola senza vie di uscita.

L’uso della prima persona, un’attenta ricerca linguistica nella resa dei dialoghi e una presenza quasi cinematografica dei luoghi danno al romanzo una straordinaria credibilità narrativa. In che modo hai lavorato per rendere i suoni, i gesti e gli spazi di questa generazione di adolescenti? E come, per fare tua questa specifica topografia urbana ed esistenziale?


Nessuna pretesa di documentare con esattezza filologica lo slang giovanile, quanto piuttosto la creazione di una lingua “basica”, artificiale e letteraria, che rendesse attraverso alcune particolarità lessicali e una sintassi molto semplificata la parlata dei ragazzi. Alcuni lemmi dialettali consentono di collocare la vicenda non in una periferia qualsiasi, ma proprio lì, in Val Polcevera. I dialoghi partono vuoti e ripetitivi, come vuota è la vita di questi ragazzi (con alcune eccezioni), poi però si caricano di elettricità non appena vengono alla ribalta emozioni e pulsioni elementari come la paura, l’umiliazione, la rabbia e il desiderio sessuale.

In questo romanzo sono molte le macerie che tu racconti, fisiche e morali. Il fallimento di una società e della generazione degli adulti che le appartiene è ciò che questi ragazzi ereditano, in un mondo dove le colpe dei padri ricadono, eccome, sui figli. I genitori sembrano patetiche figure chiuse in sé stesse, incapaci di accorgersi davvero di ciò che li circonda. Blondi e Cris sono in fondo doppiamente orfani, sia dei genitori morti o mai conosciuti, che di quelli che possiedono ma che sono evanescenti come fantasmi. Quanto i tuoi occhi di autore e gli occhi di Blondi, sentono queste figure di genitori realmente colpevoli? Provocano più compassione o più rabbia?


Non sono colpevoli più di quanto siano vittime; provocano sia compassione sia rabbia. Il padre di Cris, Franco, testimonia esemplarmente questa ambivalenza: nella prima parte del romanzo, quando lo scopriamo a bruciarsi lo stipendio ai videopoker, suscita un sentimento di ripulsa, mentre dopo la tragedia ne scopriamo anche i sentimenti più profondi, un embrione di senso morale, un conflitto autentico e sofferto. Lo stesso vale per la madre di Blondi, donna che ha perso la capacità di sognare, che affoga la propria disperazione nel cattivo vino dell’hard discount consumato in solitudine davanti alla televisione, che però ama sua figlia e riesce a conquistare un nuovo equilibrio quando la ragazza sembra imboccare la strada del riscatto. La signora Randazzo si rispecchia nei successi e nei fallimenti della figlia (mentre Blondi ha il terrore di rispecchiarsi nel fallimento della madre).

“Quando stai a Rancy, ti rendi nemmeno più conto che sei diventato triste. Non hai più voglia di fare granché, ecco tutto. A forza di fare economie su tutto, per tutto, tutte le voglie ti son passate.” L’esergo scelto per iniziare il tuo romanzo – una citazione da Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline – svela molto sull’identità della vera protagonista di questo romanzo, la periferia di oggi. Che rimane sì sullo sfondo, ma che trasuda da ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola dei personaggi che la popolano, ne definisce, oltre che la storia, anche il rapporto con il mondo, l’estetica del quotidiano, la geografia dei passi. Una periferia che non è set cinematografico, non è ammantata di luce romantica, non è madre di spinte sociali al riscatto o di amalgama di classe. In che cosa dunque la periferia odierna è diversa da quella che la letteratura ha narrato?


È il destino delle classi subalterne quando manca un progetto collettivo di emancipazione e di trasformazione della società. Dopo la fine del comunismo e la crisi delle socialdemocrazie, nelle periferie italiane abbiamo scoperto la disarmante fragilità culturale del proletariato privato d’una coscienza di classe: le nostre classi subalterne assomigliano sempre più a quelle americane, i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura che compattamente hanno votato prima Bush e poi Trump. Alla solidarietà di classe, che implica un sistema alternativo di valori, si è sostituita l’invidia di classe, che si nutre degli stessi miti dei ceti dominanti.

Il crollo del ponte Morandi è l’ombra incombente su questo romanzo ed è stato probabilmente l’elemento scatenante che ha generato in te l’urgenza della storia. Un crollo che ha segnato per sempre la città di Genova, la cui cicatrice rimarrà indelebile nel tempo. I sogni che questo crollo trascina con sé non sono solo quelli di Blondi, ma anche quelli di una città vissuta troppo a lungo in stato di torpore. Credi che il forte tuono possa averla risvegliata?


No, non sono così ottimista. Non credo alla “retorica del ponte” e non credo nemmeno a quella della pandemia che ci renderà migliori. Già oggi facciamo i conti con messaggi inquietanti: dopo tante lodi al sistema sanitario pubblico, alla necessità di un nuovo modello di sviluppo, al ruolo virtuoso dello Stato in economia, ecco che si torna a chiedere deregulation, mano libera alle imprese, meno controlli. Un conto è alleggerire la morsa delle pastoie burocratiche (che è operazione sacrosanta), un altro è il messaggio “liberi tutti” nel Paese che, dopo i condoni fiscali ed edilizi, vanta la presenza sul territorio delle tre organizzazioni criminali più potenti del mondo.

L’unico elemento della compagnia di Blondie che ha in sé elementi di positività è Pablo, figlio di immigrati che trova soddisfazione in un lavoro fatto bene e che riesce forse a conservare un tratto limpido nel suo sguardo. Potrebbero le nuove culture che giungono da fuori immettere in questa periferia asfittica e secca una nuova linfa e una nuova vitalità?


Penso di sì, almeno in parte. Non vi è mai capitato di assistere al funerale di un anziano dove la sola persona in lacrime era la badante? La verità è che gli immigrati, in una società in regressione, sono quelli che sperimentano, integrandosi, una condizione di miglioramento ed emancipazione. E questo fa la differenza. Inoltre, in un Paese dove la natalità è stagnante, sono i soli che fanno figli, e questo rappresenta un altro punto a loro favore e un segnale di speranza (almeno per loro).

Come molti dei tuoi romanzi, anche Dove crollano i sogni si può leggere come un acuto studio della società contemporanea. Ma è - e pur sempre resta - un noir dal meccanismo impeccabile, dalla scrittura trascinante, dal fascino torbido, che ti avvince dalla prima all’ultima pagina. Ritieni che il noir sia ancora lo strumento prediletto attraverso cui far passare il ritratto di una società e dei suoi protagonisti?


Credo che lo sia la letteratura in generale, così come il buon cinema e le buone serie tv. Quella che però va riconosciuta al noir di qualità è la capacità di intrattenere il pubblico senza venire meno a uno lavoro di scavo, di conoscenza del reale. Questo non significa che esso si sostituisca alla cronaca giornalistica. È una questione di linguaggio, di strutture formali, di costrutti e tradizioni letterarie. Per esempio, nella letteratura si dispiega sempre un sottotraccia mitico. In Dove crollano i sogni Blondi vagheggia, mediante la fuga in Costa Rica, un ricongiungimento ideale con il padre, che la madre le ha detto essere un marinaio (Blondi-Telemaco), ma nel seguito del romanzo emergerà un’altra inquietante costellazione mitologica (Blondi-Edipo). Massimo Carlotto recentemente ha sollevato il problema: il noir italiano si sta cristallizzando in schemi ripetitivi che finiranno per stancare i lettori. Ha ragione. La mia risposta è stata: per evitarlo dobbiamo rileggere e studiare i grandi maestri. È quello che ho provato a fare con questo romanzo: riesumare la lezione di Caine, Simenon, Malet, Dard e Manchette. Spero di esserci (almeno in parte) riuscito.


Chi leggerà troverà la risposta. Che per noi è sì.



Foto di Gianni Ansaldi
Foto di Gianni Ansaldi

Bruno Morchio è nato a Genova, dove vive e dove ha lavorato come psicologo e psicoterapeuta in un consultorio familiare pubblico. Ha scritto numerosi romanzi con protagonista il personaggio dell’investigatore privato Bacci Pagano (editi da Fratelli Frilli Editori e successivamente da Garzanti), la cui ultima avventura, uscita nel 2019, è Le sigarette del manager. Per Rizzoli ha pubblicato la spy story Il testamento del greco (2015) e Un piede in due scarpe (2017)

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Nel video l'incipit di Dove crollano i sogni letto da Lucia Caponetto.


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