A vent'anni dalla morte dello scrittore marsigliese è stata inaugurata una targa a Place du Refuge nel caratteristico quartiere del Panier, a Marsiglia.
La cerimonia si è svolta in presenza del figlio Sébastien.
Assenti le autorità e i politici, come testimonia Stefania Nardini, giornalista, scrittrice e biografa di Izzo.
Solo la "gente comune" che sotto la pioggia ha celebrato lo scrittore intonando Bella Ciao.
Oggi Themeltingpop ha deciso di pubblicare l'intervento dello scrittore genovese Bruno Morchio che il 16 gennaio è stato ospite all'Istituto Italiano di Cultura di Marsiglia alla conferenza dedicata a Jean Claude Izzo. Insieme a Maurizio De Giovanni, Sandro e Barbara Ferri, Stefania Nardini, Francesco Neri, Simone Perotti, Grazia Verasani.
Marsiglia e Genova, luoghi mitici e non “location” della narrazione
Di Bruno Morchio
Con queste brevi note mi propongo di evidenziare alcune caratteristiche della poetica di Jean-Claude Izzo, con particolare riferimento a due aspetti: 1) il ruolo innovativo della sua scrittura nello sviluppo del noir europeo a cavallo degli anni Duemila; 2) la caratterizzazione “local” della trilogia e il significato di tale scelta nel panorama del cosiddetto “noir mediterraneo”.
La scrittura di Izzo è caratterizzata da un’alta temperatura emotiva: amore, desiderio, dolore, odio e morte innervano la parola segnata da una marcata, costante impronta lirica. La voce di Fabio Montale è la voce dell’autore stesso; dialogo e pensieri del protagonista, puntellati da perle aforistiche spesso riprese nell’introduzione dei capitoli (“è preferibile essere vivi all’inferno che morti in paradiso”, “dove c’è rabbia c’è vita”, “di fronte al mare la felicità è un’ idea semplice”, “anche i rimpianti appartengono alla felicità”), si impastano in una scrittura frammentata, volutamente rivolta a colpire al cuore il lettore e mobilitarne gli affetti.
Da questo punto di vista possiamo affermare che Izzo è l’anti-Manchette, la sua prosa è la negazione di quella scrittura oggettiva, “di grado zero”, che il grande teorico del polar individuava quale segno distintivo della letteratura nera, assumendo a paradigma la scrittura di Dashiell Hammett.
Eppure ci sono due tratti che accostano l’opera di Izzo alla teorizzazione di Manchette: la forte impronta morale dei suoi romanzi (il noir è l’ultima forma morale della letteratura del Novecento, sosteneva l’autore di Piccolo blues) e il fatto di scegliere la scrittura narrativa come riscatto, ultimo atto rivoluzionario quando tutti i sogni rivoluzionari sono naufragati. In questo, parente stretto di molti scrittori appartenenti alla famiglia del noir mediterraneo (Vázquez Montalbán, Markaris, Khadra, Carlotto) Izzo ci offre un quadro lucido e impietoso della società europea post-industriale, stretta fra capitale finanziario, dilagante potere delle mafie nell’economia e nella politica, totale assenza di una alternativa di classe; dopo la temperie degli Sessanta e Settanta, la speranza di un’alternativa collettiva è sostituita dalla testimonianza del singolo che si immola nella ricerca della verità e nell’esplorazione dei meccanismi del potere fino all’estremo sacrificio. Anche per Izzo vale la massima di Manchette: il policier si preoccupa della società, il polar delle persone.
E certamente le persone, le vittime, sono i protagonisti delle vicende della trilogia.
La visione di Izzo è manichea, e la sola possibile risposta al dilagare del male che si accanisce sui perdenti è, come in Denincks, una giustizia che diventa privata e si trasforma in vendetta.
A differenza di Montalbán, che risolve il conflitto con un ritiro gastronomico che tampona la depressione (“bisogna bere per ricordare e mangiare per dimenticare”), e con un paradosso che assegna alla stessa operazione letteraria il compito di riscattare il destino degli oppressi, le storie di Izzo si concludono sempre in una sfida all’ok corral destinata a finire in tragedia.
Non c’è in lui traccia di ironia e il solo registro linguistico che conosce è quello appassionato, epico o lirico.
Anche in virtù dell’uso della scrittura in prima persona, che tutto filtra attraverso la nervosa sensibilità del protagonista, e mescola attraverso la memoria presente e passato, azione e ricordo, facendo di tale intreccio il filo rosso che conferisce significato alla pagina, l’azione che si svolge capitolo dopo capitolo è percorsa da una continua tensione con il soggetto. L’ego del protagonista è onnipresente, invasivo e debordante. La voce narrante di Montale non è quella del testimone della storia che si appassiona alle altrui esistenze; è la voce ferita, dolorosa del soggetto che nella corruzione del mondo e nella perdita delle persone amate vive pezzo dopo pezzo la propria autodistruzione.
E qui veniamo al secondo aspetto: Marsiglia.
Necessariamente, in una poetica quale quella descritta, non c’è spazio per la descrizione oggettiva. Giustamente si usa dire: “la Marsiglia di Izzo”, perché la città raccontata dalla trilogia è quanto di più lontano si possa immaginare da una “location” dell’azione. È una creazione letteraria, un luogo mitico, imbevuto di suggestioni e di memoria.
La Marsiglia multietnica e multiculturale, il porto che da sempre accoglie i profughi del Mediterraneo non è una fantasia, è una realtà storica e politica (o almeno lo è stata). Quando Izzo afferma che la sua “non è una città per turisti” dice la verità. E spiega: “Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma antico dove l’eroe è la morte”. Ma Marsiglia esiste soprattutto nella soggettività che la ricrea sulla pagina, non descrivendola, ma vivendola e raccontandola. Natura, architettura e urbanistica sono sempre caricati di significati che vengono da due fonti di ispirazione: la memoria del protagonista e il suo rapporto con la gente che ci vive. Paesaggio naturale, spesso evocato liricamente, e paesaggio umano sono sempre intrecciati (e in questo si può leggere il segno della formazione giornalistica di Izzo), e la lingua, la cucina e la musica costituiscono il tessuto significante che li connette l’uno all’altro. Leggendo la trilogia si disporrà di una eccellente guida della città, o per lo meno della città di fine millennio, e il turista letterario potrà approfittarne per cercare suggestioni e atmosfere, non dimenticando però l’avvertenza dell’autore: quando si riesce a scoprirla è troppo tardi , “si è già in pieno dramma”.
Il paradosso esistenziale, per cui è la coscienza della morte che scatena la voglia di vivere, è un altro ben noto tratto della poetica di Izzo.
Caratteristica ubiquitaria del noir mediterraneo, l’esplorazione della dimensione locale come studio in vitro dei mutamenti planetari determinati dalla globalizzazione, in Izzo diventa messaggio politico militante, manifesto antirazzista e insieme denuncia della caduta, nell’economia finanziaria, del confine tra economia legale e affari criminali. Il protagonista vi reagisce con veemenza, fino all’estremo sacrificio. Non c’è traccia del disincanto che caratterizza l’amara ironia montalbaniana, Izzo non brucia i libri ma li legge voracemente e li cita. Non c’è alcuna distanza letteraria dalla materia incandescente del plot, e i processi di corruzione collettiva sono vissuti dal protagonista sulla propria pelle, come stimmate.
Destino collettivo e destino individuale diventano tutt’uno nell’impasto della materia narrativa. Tante volte ho pensato che la lotta contro l’oscura persecuzione della mafia che invade le pagine di Solea, rappresenti una metafora della malattia, del cancro che ha portato l’autore alla morte; ma si potrebbe anche affermare il contrario, che il senso di morte indotto dal cancro sia la risonanza emotiva della corruzione della società.
In ultimo, si parva licet componere magnis, due parole sulla mia Genova e sul mio investigatore dei carruggi, Bacci Pagano.
Quando ho cominciato a scrivere, alla fine degli anni Novanta, Izzo ha rappresentato una stella polare. Mi sembrava impossibile scrivere noir senza attraversare quel modo di raccontare le storie e la città. La scelta linguistica della prima persona, che peraltro mi è congeniale, ha costituito uno dei capisaldi di questa operazione. Anche la mia Genova non è mai descritta, ma sempre raccontata attraverso il vissuto e la memoria del personaggio.
Tuttavia liberarmi dal contagio della prosa del marsigliese è stato un lavoro duro: un percorso faticoso durato ben dodici romanzi, l’intera saga. Mi ha preservato dal rischio del plagio l’urgenza di raccontare Genova, anch’essa città portuale del Mediterraneo, ma così differente da Marsiglia per storia, cultura, mentalità, vicende socio-economiche, assetti politici e imprenditoriali.
Sul piano letterario, ho attinto a materiali e stilemi di altri grandi maestri: in primis Vázquez Montalbán che scrive usando una terza persona fortemente focalizzata su Pepe Carvalho, e Raymond Chandler, che parla con la voce di Philip Marlowe, una voce neutra, pragmatica, spesso modulata dall’ironia.
Se dovessi definire questo cammino con una parola, direi: ridimensionare. Come tagliare un vestito troppo grande per adattarlo alla mia misura. Ridimensionare il personaggio, che diventa sempre più testimone – talvolta dimesso e perfino defilato − del suo tempo; lavorare a una lingua più personale, dove frasi brevi e periodi ampi e ariosi si alternano a seconda della necessità; accedere a più registri, dall’ironico al lirico all’epico al comico. Ma soprattutto adattare le trame e la scrittura alle dimensioni di una città vecchia e stanca (tra le più vecchie d’Europa), che in mezzo secolo ha quasi dimezzato la sua popolazione, segnata da un territorio fragile e duramente provato dal cambiamento climatico, e il cui problema più urgente è immaginare un possibile futuro che non sia segnato da emigrazione, impoverimento e marginalità. L’ottimismo di facciata, le fanfare che celebrano gonfaloni, dogi e orgoglio marinaresco sono una miope mistificazione della realtà che nasconde il tentativo di coprire di retorica la situazione drammatica della città.
Sono trascorsi vent’anni dalla morte di Izzo e dalla edizione italiana dell’ultimo romanzo della trilogia. Lo scenario internazionale è cambiato profondamente. Le magnifiche sorti e progressive del mercato globale senza regole stanno mostrando la corda e il mondo scopre le immense diseguaglianze create dal liberismo capitalista. Dovunque gli oppressi cercano una via per recuperare il diritto di parola; è un processo contraddittorio, e spesso sono le destre nazionaliste e razziste che si impadroniscono del bisogno di cambiamento per riportare indietro l’orologio della storia, verso sbocchi inquietanti già tragicamente sperimentati nel secolo scorso.
Il pubblico continua ad amare i romanzi di Izzo e il mondo ha ancora bisogno della sua lezione: della sua denuncia e della sua passione.
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