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Maresfield Gardens

  • Immagine del redattore: Redazione TheMeltinPop
    Redazione TheMeltinPop
  • 1 set
  • Tempo di lettura: 9 min

L'ultima casa di Freud


a cura di Arianna Destito Maffeo

Ho deciso: ho una casa a Londra.

Una casa in cui non vedo l’ora di tornare, che è come un richiamo o una scusa per organizzare un viaggio e farla conoscere a chi decide di scoprirla con me.

Questa casa si trova ad Hampstead, un quartiere molto elegante, verde e benestante, che dista una quarantina di minuti di metro dal centro di Londra. L’indirizzo preciso è Maresfield 20.



Ricordo la prima volta che ci sono andata, la cercavo disperatamente non era molto chiara nelle cartine, e a chiedere informazioni nessuno mi sapeva indicare dove fosse. Tranne un gruppo di operai del gas per strada. Ricordo che sembravano non capire. Solo quando gli ho mostrato la via sulla mappa si sono illuminati e con sguardo compassionevole mi hanno ripetuto come si pronuncia in inglese Maresfield, mica con quel modo tutto italiano di dire le vie in inglese.


Sia come sia, quella era la prima volta che varcavo la soglia di quella dimora, non comune, ma l’ultima abitazione del padre della psicoanalisi: Sigmund Freud.


Da quella volta ci sono tornata circa tredici anni dopo.


E l’ultima, quest’anno.


Non so da dove nasca questa mia passione per Herr Sigmund. Credo derivi dalla letteratura, dal cinema, dall’Università, dalla curiosità di cercare oltre le apparenze, di osservare la gente, interpretare i gesti e i comportamenti. Forse grazie ai film di Woody Allen, o a mia cugina psicoanalista, o più probabile grazie anche ad Arturo, psicoterapeuta illuminato. Fatto sta che a un certo punto della mia vita, non solo desideravo approfondire la conoscenza di Freud ma io volevo essere Freud.


Per il genio assoluto, per il coraggio di affrontare la società dell’epoca, la rigidità del mondo accademico viennese, la determinazione a inventare un metodo nuovo per curare la gente. “Come sarebbe bello guadagnarsi da vivere interpretando i sogni” scriveva in una delle sue lettere. Non più contenta di averlo studiato all’Università, volevo immergermi nella sua vita dell’epoca.


Così ho organizzato uno Psycho Tour iniziato nel 2009 e ripercorso ciclicamente fino ad oggi.



Ho abitato la Bergasse 19 a Vienna ben due volte nello stesso viaggio, respirando l’atmosfera della sala d’attesa arredata con il mobilio originale, dove il mercoledì si incontravano tutti i più grandi psicoanalisti del tempo: Alfred Adler, Wilhelm Stekel e in seguito Carl Gustav Jung, Ludwig Binswnager, Ernest Jones. Li immaginavo tutti lì a discutere nella sala riscaldati dalla stufa in ceramica in inverno e l’aria satura del fumo dei sigari.


E poi, l’incontro felice con Maresfield Gardens a Londra che ho visitato tre volte, in tre distinti viaggi temporali.


E tuttora ogni volta che varco quella soglia, è come se entrassi in una dimensione nuova e mistica, come un ritorno a casa.


Qualcosa, tra quelle mura di mattoncini rossi mi accoglie e mi fa vedere un pezzo di storia.


Le tre volte che ci sono arrivata è stato da tre strade differenti. La prima impervia e complicata, senza Google Maps. La seconda con Bruno, mio marito, compagno di avventure, scrittore e psicoanalista, glielo avevo promesso che lo avrei portato da Sigmund.


La terza con la mia socia di blog, di eventi e di scrittura, Antonella, super organizzata e con l’aiuto di Maps.


Ogni volta che entro in quella casa mi sembra di entrare in una Wunderkammer, oggetti sparsi, gli scarponi di Freud, massicci, solidi, quelle calzature che si compravano una volta e che prendevano la forma del piede che duravano una vita e oltre. Quante scarpinate, quanta strada deve aver fatto, sempre alla stesa ora, sempre nelle stesse vie, come era solito fare lui, per le università e gli ospedali, per dimostrare che il suo metodo era scientifico, quanti chilometri macinati e calpestati per dare valore al proprio lavoro.


Ogni volta è un’emozione diversa.


Ogni volta sono una persona diversa.


Non importa se è tutto un ritorno già scritto, già conosciuto e già sentito, quello che conta è quello che sei in quel preciso momento quando ti affacci alla porta di casa con le tipiche insegne tonde e blu che indicano chi ha vissuto lì. Sigmund Freud e Anna Freud lived here.


L’ingresso ora è situato nel giardino, quest’anno c’è un’installazione che ne occupa ogni spazio, devo ammettere che è piuttosto disturbante, forse è stata collocata di proposito, chissà.


Giro la maniglia della porta finestra, entriamo subito nello spazio del bookshop. Passare dal giardino mi dà l’impressione di entrare come una ladra che in fondo è quello che siamo, ladre di emozioni e voyeur di ricordi altrui. La signora alla cassa sente che siamo italiane e ci accoglie. Ci fa pagare il biglietto e ci spiega cosa fare in caso volessimo diventare membri del Freud Museum. Le spiego che non è la prima volta che ci vado in quella casa e che, come minimo, mi spetterebbe un riconoscimento, non so, almeno una tessera minuscola, in fondo è anche un po’ casa mia - ma questo lo ometto, non vorrei che mi prendesse per pazza, anche se come appassionata di Freud non farebbe una piega. La donna ci spiega che all’interno è allestita una mostra sul femminile e che troveremo installazioni qua e là sparse tra i mobili antichi, quelli orientali, nell’ingresso e in ogni angolo.


Girando per la casa, mi sembra di non essere mai andata via da lì, come se fossi rimasta chiusa lì dentro, magari proprio nello studio di Herr Sigmund.


La prima volta, nel 2010, non potevo fare nemmeno mezza foto. Era vietato. Forbidden. Ora è un tripudio di cellulari accesi e video, con smartphone super tecnologici. Anche io mi metto d’impegno e scatto foto rigorosamente senza flash e faccio video. Voglio immortalare ogni istante. Con il QR code ascolto la storia della casa e la voce metallica ormai la riconosco dall’ultima volta, due anni fa, e riconosco persino quello che ha da raccontare.


Nello studio di Herr Sigmund mi perdo, in mezzo ai colori della stanza. Lo sguardo rimbalza tra la scrivania, la libreria e lui. Il protagonista. Il Divano. È lì davanti a me. Quante storie potrebbe raccontare? Solo la posizione della poltrona dietro la testa del divano dove Herr Sig si sedeva per non essere visto dai pazienti. Ogni mistero è racchiuso lì. È tutto terribilmente troppo. Ho come una sorta di sindrome di Stendhal che mi carica.


Il mio sguardo continua a rimbalzare sui dettagli che non voglio dimenticare.



La sedia di Freud ideata dall’architetto Felix Augenfeld perché Freud aveva il vizio di leggere seduto in una posizione particolare, in diagonale, con una gamba penzoloni, un po’come gli adolescenti, forse, per questo la sedia è stata fatta proprio per leggere e non per scrivere. Come aveva chiesto la figlia Mathilde per assecondare le abitudini di lettura del padre. La scrivania con oggetti di tutto il mondo antico, archeologico, simboli religiosi e mistici, ogni statuetta rivolta verso la sedia situata davanti alla scrivania. Tutte disposte una accanto all’altra, in attesa, del regista come a teatro, spettatori e attori di un atto magico.


Energia di quel mondo animistico che viene dal passato. Gli occhialini tondi appoggiati su un manoscritto. Un lavoro eterno forse, mai finito davvero. O come se lui, il Maestro, fosse sempre lì a lavorare, a tessere storie e interpretazioni e di notte a cancellarle, come un eterno ritorno, una rinascita. Ogni volta. A raccontare quello che resta.


Di fronte a cosa vorremmo essere guardati? Di fronte a chi? Quale oggetto che ci guarda abbiamo sulle nostre scrivanie?


Nell’ingresso prima di salire al piano superiore, una vetrinetta con il loden, gli scarponi. La borsa di cuoio con le iniziali. Salgo e scendo. In preda all’entusiasmo e siccome conosco già quasi tutto, mi permetto di non seguire l’itinerario e salto da una stanza all’altra. La mia socia, invece che è la prima volta in casa Freud, è ligia all’itinerario e all’ascolto della guida.


Ovunque mi giri c’è qualche simbolo, qualche dettaglio curioso. Di certo il minimalismo non era per Freud.


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I libri della libreria, il ritratto di Lou Salomè e di altre donne della famiglia. Oggetti e reperti archeologici. E ancora, i biglietti da visita, il timbro con il suo nome, gli appunti scritti fitti fitti. Quanto ho fantasticato sulla nascita della psicoanalisi. Sul significato della creazione di questo movimento storico, che ha contribuito a vedere il mondo con altri occhi e il cambiamento di tale portata che ha significato in quegli anni. Sul dolore di vedere distruggere dai nazisti le proprie opere messe al rogo. Londra ha rappresentato la salvezza, per un Freud ormai provato dal cancro alla bocca e dalla persecuzione degli ebrei, costretto ad abbandonare di tutta fretta la casa a Vienna, ormai occupata dalla Germania di Hitler. Salvato su insistenza della figlia Anna e della principessa Marie Bonaparte, sua paziente e psicoanalista. Lui non avrebbe mai lasciato la sua casa.


Ma vado oltre in questo girovagare tra un piano e l’altro. Mi soffermo tra gli oggetti nella camera di Anna che ha vissuto in quella casa fino alla sua morte. Il telaio ne occupa una parte. Me lo ricordavo molto più grande, la prima volta che lo vidi. L’ultima, non era esposto. Mi colpisce. La manualità, tessere con i fili colorati, costruire e impegnare la mente con l’azione. Dicono che forse aveva a che fare con l’elaborazione del lutto. Penso a questa figlia, che ha dedicato la vita al ricordo del padre, portando avanti i suoi studi, le sue teorie, approfondendo la psicoanalisi infantile e i meccanismi di difesa. Figlia amorevole schiacciata dalla figura di un padre così ingombrante e difficile da gestire.


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Ancora, quadri, ritratti di Sigmund. E un proiettore che va in loop con le immagini di un documentario, che scorrono ricordandoci che tanto è accaduto in quell’anno tra il 1938 e 39 in quella casa. Un anno intenso con la prima e unica intervista a Herr Sigmund della Bbc. E in sottofondo la voce pacata di Anna. Un Freud, che appare malato, sdraiato sulla poltrona in giardino, con i suoi amati cani, il Chow Chow Lun e altri che scorrazzavano scodinzolanti. Lo stesso giardino che ci ha accolto oggi, con un gattone nero, pacifico e serafico, seduto come una sfinge su una sedia e che si fa fotografare come una star nell’aria fresca di Londra.


Si dice che Anna Freud avesse una grande passione per i gatti e che durante la sua vita a Maresfield Gardens i mici girassero indisturbati per le stanze della casa e si sdraiassero persino sul famoso divano del padre. Si dice anche che molti visitatori raccontino di aver visto un gatto nel giardino, anche se gatti non ce ne sono più. Quel pomeriggio noi non solo lo abbiamo visto, ma ne abbiamo anche catturato l’immagine e la misteriosa essenza.


Che poi esista davvero o no poco importa.


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Nel mio girovagare a zonzo tra le stanze, immaginando Sigmund che vaga con il sigaro in mano, ne scopro una nuova, mai vista prima. Allestita per i fanatici come me. Piena di biglietti e matite colorate, con una scrivania e la sedia famosa, quella che abbraccia e lascia dinoccolati e abbandonati di Felix Augenfeld. Ma soprattutto c’è lui. Il divano. O meglio una riproduzione del divano. Il protagonista assoluto. In preda all’entusiasmo vado a recuperare la mia socia e la trascino al piano di sopra. L’orario di visita sta per terminare. Ci sdraiamo sul divano. Ci analizziamo. Ci fotografiamo e cerchiamo di non perdere ogni attimo prezioso. Terapia breve, brevissima. Lascio segni in giro. Scrivo un biglietto che lascio insieme agli altri.

Thank you, Herr Sig. I’ll be back, again and again.


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Un uomo comincia a chiudere le finestre. Ci guarda, stira un sorriso.


Ci avviciniamo alla signora alla cassa. Colpita dalla nostra curiosità ci racconta un aneddoto. Ci mostra una foto, dove sono tutti sorridenti, Anna, Marie, la sorella di Sigmund, e la nipote, Angela Seidmann, in breve ci racconta la storia della nipote di Freud, Martha Gertrud Freud, che all’età di quindici anni decise di farsi chiamare Tom Freud e iniziò a vestirsi con abiti maschili, era una pittrice e illustrò libri per ragazzi. Morì suicida nel 1930. Prendo appunti su questa storia che merita un approfondimento a parte. Sembra che intorno alla vita di Sigmund si siano sviluppati talenti ma anche conflitti e tragedie. Le sorelle moriranno nei campi di sterminio nel’42. Come le sorelle di Kafka. Anche questa storia merita un approfondimento a parte.


Sono le 17. È l’ora di chiusura.


Saluto la signora della cassa, ma tant’è non riesco a prendere la via d’uscita. Le dico: “Ora esco, eh.”


E intanto faccio un giro velocissimo per la casa. Lo studio, poi su. Assorbo tutto quello che posso assorbire.


Ancora un giro, come al Luna Park. Corro nella stanza dove ho lasciato il biglietto per Sigmund, facciamo ancora una foto. Appoggio la borsa. Non c’è più nessuno. Questa volta dobbiamo uscire davvero.


Salutiamo la cassiera. La mia socia ribadisce che dopo la terza visita dovrebbero eleggermi membro onorario del Sigmund Freud Museum. Concordo.


Usciamo e inizia ad alzarsi un po’ di vento. Faccio per prendere il cappello. Non lo trovo. Guardo meglio. Di sicuro l’ho appoggiato per l’ultima foto. Deve essere stato in quel momento, sul divano. Rido. Come da manuale: Psicopatologia della vita quotidiana (1901), non è un caso se ho lasciato la testa sul divano di Herr Sigmund.


Ho una casa a Londra. Di preciso ad Hampstead e non è mia e non è neppure una casa normale. È stata l’ultima dimora di Sigmund Freud e della figlia Anna. Ora è il Freud Museum London e si trova al 20 di Maresfield Gardens.


Foto di Arianna Destito Maffeo e Antonella Grandicelli

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