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La rivincita della signorina Felicita


Sulle colline a Settignano, 1885 Telemaco Signorini
Sulle colline a Settignano, 1885 Telemaco Signorini

Ecco giungere il 10 luglio, il giorno della signorina Felicita. L’estate ha già preso il suo spazio nella luce folgorante dei pomeriggi, nel verde denso delle foglie, nell’intenso azzurro di lavanda e lei, la signorina Felicita, ne prende le sembianze. Perchè per noi l'estate comincia davvero con lei.

Dobbiamo il suo ritratto al poeta crepuscolare Guido Gozzano che ne ha fatto la protagonista dei suoi vagheggiamenti estivi di intellettuale in villeggiatura, prima ancora che consegnarcela per sempre nel suo famoso poemetto uscito ne I colloqui del 1911. E, suo malgrado, trasformandola in un personaggio che più vivo non si può. Perché, leggendo i versi di Gozzano, non possiamo fare a meno di immaginarla - no, di più - di vederla e di chiederci, chi era Felicita e che vita avrà avuto dopo che “l’avvocato” non fece ritorno?

Signorina Felicita, è il tuo giorno! A quest’ora che fai? Tosti il caffè, e il buon aroma si diffonde intorno? O cuci i lini e canti e pensi a me, all’avvocato che non fa ritorno? E l’avvocato è qui: che pensa a te. […]

Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga…

E rivedo la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere, e il volto squadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi leggiere e gli occhi fermi, l’iridi sincere azzurre d’un azzurro di stoviglia…



Così ce la presenta Gozzano nei suoi versi, una figura combattuta tra gli ossimori: lei è “quasi brutta”, ma non del tutto; porta vesti “quasi campagnole”, ha un’espressione buona in un viso squadrato dove l’unico vezzo è una spruzzata di lentiggini e dove in un riso largo si aprono labbra vermiglie, ma non di belletto, bensì arrossate dal buon vino. E poi, gli occhi, azzurri sì, ma non dello smalto di un cielo raffaellita, piuttosto del modesto ceruleo decoro di una comune stoviglia. Chi è dunque questa rubiconda campagnola il cui ritratto, se non poco lusinghiero, quantomeno intellettualmente paternalistico, avrà fatto storcere il naso a più di una femminista? Non v’è dubbio che questa ragazza sia realmente esistita e abbia avuto a che fare con il poeta: in una lettera del 3 agosto 1907 Gozzano ne scrive all’amica poetessa Amalia Guglielminetti e ne da una descrizione piuttosto precisa.

“Non ho una Mila per compagna, ma una servente indigena e prosaicissima. […] È un’onestissima fanciulla, figlia di Maria, ed io nutro per lei la più rispettosa ripugnanza: immaginate un corpo diciottenne, ma che in città, sdegnerebbe una vecchia ottuagenaria, immaginate un volto quadrato, scialbo, roseo, lentigginoso, senza pupille, senza ciglia, senza sopracciglia e un viscidume di capelli gialli, tirati, tirati lisci aderenti e stretti alla nuca in un fascio di trecciuole minute e su tutto il volto diffusi i segni dell’idiozia ereditaria…”

Ora, pur rendendoci conto che il buon Guido, che aveva il gusto delle descrizioni venate d'ironia e che ne raccontava in questi toni ad una donna dal temperamento tutt’altro che quieto - con cui tra l'altro aveva in piedi un altalenante amoreggiamento - resta tuttavia evidente il suo sentire di "rispettosa ripugnanza" (altro ossimoro) nei confronti di questa creatura, sicuramente semplice, modesta, dai tratti e dai modi contadini. Che però non era passata oltre come una figurina sfocata sullo sfondo, una testa persa nella folla, un banale buongiorno nel passeggio meridiano. "E l’avvocato è qui: che pensa a te." Ne è attratto; da lei, dal suo mondo, dal suo modo di vivere. Guido la pensa. A tal punto da renderla immortale nei suoi versi.


Felicita (o qualunque fosse il suo nome, dal momento che il 10 luglio il calendario dei santi non festeggia realmente Santa Felicita, bensì i suoi figli) è il pieno dove lui aveva il vuoto, è il solido dove lui aveva l’effimero, è la luce satura dove lui aveva la penombra. Il suo sentirsi addosso la malinconia del poeta – accompagnato dalla consapevolezza di una vita breve - non gli fa provare una reale invidia per la dimensione prosaica e bucolica in cui è inserita l’esistenza di Felicita, anche se giocando con i versi per un attimo si astrae dalla realtà e si gode la visione del suo possibile alter ego che compie scelte diverse e giunge a diverse conclusioni.


Unire la mia sorte alla tua sorte per sempre, nella casa centenaria! Ah! Con te, forse, piccola consorte vivace, trasparente come l’aria, rinnegherei la fede letteraria che fa la vita simile alla morte…


Oh! Questa vita sterile, di sogno! Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta, meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita! Io mi vergogno sì, mi vergogno di essere poeta!


Tu non fai versi. Tagli le camicie per tuo padre. Hai fatto la seconda classe, t’han detto che la terra è tonda, ma tu non credi… E non mediti Nietzsche… Mi piaci. Mi faresti più felice d’un’intellettuale gemebonda…


Tu ignori questo male che s’apprende in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti, tutta beata nelle tue faccende. Mi piaci. Penso che leggendo questi miei versi tuoi, non mi comprenderesti, ed a me piace chi non mi comprende.


Ed io non voglio più essere io!

Non più l’esteta gelido, il sofista, ma vivere nel tuo borgo natio, ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido, in oblio

come tuo padre, come il farmacista…


Ed io non voglio più essere io!

Gozzano è perfettamente consapevole che quello che descrive non è lui, non potrà mai esserlo (“ E che nostalgia spaventosa ho delle Signore ben vestite, ben calzate, ben pettinate… Che desiderio di stringere una bella toilette di taglio perfetto! Ah! Le pastorelle e la campagna non son fatte per me…”, scrive sempre nella lettera alla Guglielminetti). Il suo non è che un gioco, il divertissement di un uomo colto e arguto, dalla sensibilità egocentrica e dall’ironia malinconica. Ed è proprio per dire della sua malinconia esistenziale che Guido ha bisogno di Felicita, ben “più d’ogni conquista cittadina”.

Ed è qui la rivincita di Felicita.

Perché il poeta ha bisogno della luce per parlare dell’ombra e Guido ha bisogno di Felicita per essere poeta. Ed è a questo punto che avviene uno scambio, non sappiamo se equo, se voluto, se davvero compreso, ma comunque avviene. A Gozzano la gloria del poeta. A lei, Felicita, la gloria dell’immortalità.

Signorina, s’io torni d’oltremare, non sarà d’altri già? Sono sicuro di ritrovarla ancora? Questo puro amore nostro salirà l’altare?» E vidi la tua bocca sillabare a poco a poco le sillabe: giuro.


Giurasti e disegnasti una ghirlanda sul muro, di viole e di saette, coi nomi e con la data memoranda: trenta settembre novecentosette… Io non sorrisi. L’animo godette quel romantico gesto d’educanda.


E in questo continuo farsi e disfarsi del possibile, in questo andirivieni di realtà e finzione, chissà che il giuramento d'amore della giovane ragazzotta campagnola, avvezza per costume ed ereditarietà alle astuzie e alle sottigliezze del commercio, non fosse a sua volta altro che la sottile e divertita celia di chi, anche se non sa di poesia e di Nitezsche, ha capito perfettamente chi ha di fronte e si prende il gusto di stare al gioco, "Quello che fingo d’essere e non sono!". Almeno così a noi piace pensarla.

Redazione themeltingpop.com

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