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  • Immagine del redattoreAntonella Grandicelli

INCENDIO NEL BOSCO: le risposte del fuoco






“[…] non tradendo il magistero fondamentale di ogni poesia che sia poesia, ovvero che è la natura a dirci chi siamo e cosa dobbiamo fare in questo mondo, e se scrutata bene, ci dicono Montale e Baudelaire, la natura avverte sul destino delle cose, sull’esistenza dell’amico e dell’avversario, sul permanere in questa terra del bene e del male […]”


La poesia e la natura sono sempre state strettamente legate l’una all’altra, essendo la prima specchio della seconda e la seconda scaturigine della prima. È sorta, la poesia, per dare parola a quell’universo che circonda la vita umana; per tradurre in un linguaggio comprensibile quello che è il linguaggio della natura. Insomma, una linea di comunicazione. Una via attraverso la quale la natura ci rende l’ineluttabilità del nostro fluire, ci avverte sul senso nucleale del bene e del male, ci da figurazione antropomorfa di impulsi universali. Dalla poesia al teatro, proiezione di un corpus sentiens collettivo, il passo è stato dunque breve. È del teatro della Grecia antica, della sua tragedia dunque, il dare immagine di sentimenti ed emozioni. E questo è ciò che Marco Candida ci propone nel suo ultimo romanzo Incendio nel bosco (Tarka Edizioni, 2019).

La lettura del romanzo di Marco Candida trasmette le stesse emozioni di una tragedia greca. Della tragedia il romanzo ha infatti la struttura, l’azione drammatica, lo stile poetico e la funzione pedagogica. Il lavoro dell’autore narra una storia di sentimenti e lo fa con uno sguardo dall’alto, come l’entomologo osserva ed esperimenta le reazioni di piccole creature animali che si muovono in un habitat che conoscono benevolo e ritrovano all’improvviso ostile: il bosco. Non è un bosco qualunque, ma una zona inserita all'interno del Parco Naturale Regionale del Beigua sul Monte Argentea. Candida osserva così i suoi personaggi, il loro vivere lo spazio che li circonda nei diversi momenti e nelle diverse forme in cui questo spazio si presenta loro: ospite premuroso, nemico ostile, trappola o via di fuga, salvezza o annientamento. Perchè questa è la natura, rifugio e violenza, pace e delirio.

E l'autore ci avverte che in fondo i poeti, a cui "in un mondo pieno di turpitudini [...] basta una verza, un aglio, una cipolla, fin anche una cornacchia o una chiocciola per vedere l'immenso, l'infinito", a leggere bene i loro versi, di ciò hanno detto. Montale e il suo"rivo strozzato", Baudelaire e le sue "foreste di simboli", Leopardi e il suo"infinito", Blake e il "girasole".


La storia offre il suo prologo nel momento in cui si innesca la catastrofe: un poderoso, inesorabile incendio divoratore. “Viene alla luce su un letto di ramoscelli ai piedi di un abete rosso, rosa infuocata, petali mossi da un venticello quasi dolce”, il fuoco nasce quasi come soffio delicato, come carezza tiepida, per trasformarsi presto in un sabba infernale, in un contorcersi, stridere, crepitare, sciogliersi che Marco Candida descrive con un linguaggio che ha non solo riverberi poetici, ma anche scientifici, botanici, zoologici, chimici. È mirabile la capacità di Candida nel portare il nostro sguardo fuori e dentro l’incendio, in un movimento di camera che allarga e restringe sul guizzo rabbioso e freddo della fiamma, sul prodotto combusto che si sgretola, si dimena, sulla materia che sconvolge il suo stato. Perché questo è un incendio: un giungere al fondo, all’osso, alla verità.

E dentro alla fornace dove tutto tende verso la sua fine troviamo i due personaggi, che ci vengono presentati da una sorta di coro estraneo all’azione nell’attimo prima in cui la tragedia abbia inizio: “Ed eccoli, infatti, l’uomo e la donna, noi da quassù possiamo già vederli, stesi su un greto di latifoglie almate e lanceolate, lobate e rifogliate, piovute da pioppi e betulle e ontani […]” Il riferimento ad una sorta di Eden, un bosco primigenio, è scoperto, così come i loro nomi ci riportano ad un emblema di identificazione con ciò che li circonda, “Lui si chiama Fiore. Lei Rosa.”

Fiore e Rosa – i nostri Adamo ed Eva contemporanei - sono due amanti, giunti nel bosco per consumare una passione che arde come fuoco e di questo fuoco si nutre. Proprio in quel bosco che è di proprietà di Silvano, il ricco marito di Rosa. Non solo, è anche la sua opera d’arte, il rifugio delle sue ambizioni creatrici, il perfetto macro/microcosmo dove esercitare le sue capacità di dominio e di equilibrio, “[…] il mio Eden interiore, la parte incontaminata della mia anima.”

Circondati dalle fiamme, avvolti dal terrore di una fine prevedibile, Rosa e Fiore fanno quello che qualunque essere, umano o animale che sia, tenta di fare: salvarsi. La cercano, questa salvezza, fuori ma anche dentro di sé e i loro pensieri diventano schermo dove l’autore – ancora con sembianze di coro - proietta l’infinito nonsenso dell’agire degli uomini, del loro cercare di affermarsi nella sopraffazione, nell’abuso, nella crudeltà verso i propri simili e verso la natura.


“È là. Arde nel fuoco. La cattiveria umana. La collera dell’uomo. Il senso di impotenza del mondo che si trasforma in ira, odio cupio dissolvi, volontà di sterminio e di abominio. È là. Nelle fiamme di quell’immane devastazione di bellezza naturale. Uomini uno contro l’altro armati a massacrarsi senza ragione, sulla base di decisioni d’altri uomini.”


Attraverso i loro pensieri ci arrivano visioni di altri amanti che il bosco ha accolto e non più restituito, come è successo con Silia e Liam, il cui amore che appariva risplendente come gemma si è avvizzito, accartocciato su sé stesso come foglia arsa. O l’amore sterile di Fiore e Zara, perso nel logorio di continue prove di resistenza, imploso nella sua stessa inconsistenza.

Tra il fosco diaframma dei fumi e i freddi gemiti della rovina a cui tutto sembra tendere, la tragedia trova la strada per la sua soluzione. E sarà il deus ex-machina stesso a svelarla.


“Silvano è lì. Seduto su una poltrona di pelle. Chino su alcune carte sulla scrivania di mogano. Le tende della finestra alle spalle tirate creando una condizione di semibuio.”


Silvano è figura onnipresente nello svolgersi del romanzo, anche se solo evocata. Dell’Eden rappresentato dal bosco lui è il padrone ed è anche il serpente tentatore, colui che attira a sé con la bellezza della conoscenza, con le promesse della ricchezza, “ […] Silvano rappresentava per Rosa una persona attraente, oltre a quel che di seducente aveva Silvano, a cominciare dall’aspetto per finire con il conto in banca.”

Silvano, dal suo apparire, è un uomo dalle caratteristiche di un semi-dio: è bello, è colto, è ricco; possiede qualità che attirano Rosa lontana da quell’Eden in cui aveva trovato con Fiore un amore adolescenziale. Quello stesso amore, istintuale e primigenio, che la riporterà proprio nel bosco, nel suo punto d’origine, l’innesco della vampa distruttrice dell’incendio.

Silvano non poteva tollerare che il loro amplesso sfregiasse la teca contenitore di quello che egli ritiene il meglio di sé, “[…] il bosco rappresenta il mio testamento spirituale per le generazioni future o ancora meglio: un monumento a ciò che sono e cercherò di essere”. Non è dunque l’atto agli occhi dell’uomo che va a rappresentare la colpa, quanto il luogo dove questo atto si va a perpetrare. Questo è ciò che glielo rende inaccettabile.

Giunta al termine, la tragedia scioglie i suoi nodi. Lo fa in una presa di coscienza collettiva di responsabilità d’atti, una sorta di catarsi dove ognuno riconosce il proprio ruolo e dove la divinità stessa ristabilisce i propri limiti. Nell’apoteosi della deflagrazione, quando l’incendio-vendetta biblico pare aver distrutto tutto intorno a sé e aver ristabilito l’ordine, in quel momento la divinità si accorge che i resti non sono che cenere fredda. Non un calore vitale, un soffio di rinascita, un nuovo germoglio vive nella vendetta; è solo un acre sapore di annientamento, di nulla, in cui anche la divinità stessa si è persa.


"Ho pensato che in questa storia i cattivi non siete voi. Il cattivo sono io. Io ho invaso il confine dei vostri segreti. […] Vi ho giudicato colpevoli. Vi ho punito. Chi sono io, per decidere che un segreto è una colpa?”


Ed ecco dunque, nell’intrecciarsi di motivi pagani e cristiani, che la narrazione ha portato con sé la catarsi di redenzione e pentimento, perché “l’uomo sbaglia, ma nasconde, e in questo nascondere, in questo gesto, c’è decenza, c’è ancora uno spiraglio di luce, salvezza”.




Marco Candida ha esordito nel 2007 con il romanzo La mania per l'alfabeto (Sironi Editore). Ha pubblicato quattordici libri di narrativa, tra romanzi e raccolte di racconti. Il suo precedente romanzo è Nelle mani dell'amore (Edizioni Effigie, 2017). È presente nell'antologia americana Best European Fiction.

Le foto presenti risalgono alla presentazione del romanzo avvenuta il 09/02/2020 presso il Museo della Carta di Mele ad Acquasanta (GE), organizzata dall'Associazione Culturale Le Muse con l'introduzione dello scrittore Marino Magliani, curatore per Tarka Edizioni insieme a Paolo Ciampi della collana Appenninica di cui il romanzo fa parte.



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