L'appuntamento settimanale con Tettamanti & Traverso
di Stefano Tettamanti & Patrizia Traverso
Per anni ho saputo di non sapere. Più o meno dalla prima liceo, quando qualche insegnante di filosofia, spiegando Socrate (finalmente, dopo un mesetto buono di presocratici, si cominciava a capirci qualcosa), a «conosci te stesso» faceva seguire l’altro pilastro del suo insegnamento, quello che vuole l’uomo saggio consapevole dei limiti della propria sapienza, «tutto quello che so è di non sapere». Fino a poco tempo fa, quando, scendendo dal treno alla stazione centrale di Milano, un uomo saggio come e forse più di Socrate, guardandomi con gli occhi sbalorditi dopo un’ora e cinquanta (nessun ritardo quel giorno) di ininterrotte chiacchiere enciclopediche, mi ha detto: «Ma ti rendi conto di quante cose non sappiamo di sapere?»
Dalla prima liceo è passato un mezzo secolo abbondante. Così, se per tutto questo tempo ho saputo di non sapere, da qualche settimana so anche che non so di sapere. Siccome, come è noto, di ciò di cui non si può parlare è bene tacere, ho pensato di scrivere di alcune cose che so. Prima di dimenticarmele tutte.
1.
Una cosa che so è che compiango chi disprezza le chiacchiere da bar. In realtà mi domando quali bar abbia frequentato per sostenere una scempiaggine del genere. Ora, non dico in quelli dove Fran Lebowitz sostiene si sia dipanata la storia delle idee dell’ultimo secolo, e nemmeno in quelli che George Steiner individuava come luoghi chiave per definire l’essenza più profonda dell’idea di Europa (Steiner, come Claudio Magris, li chiamava caffè, ma il senso è quello, forse qualche grado alcolico di meno ma parecchie molecole di caffeina in più a conferire lucidità e energia ai pensieri e alle parole) e neanche al più bel locale della letteratura di sempre, il Bar delle grandi speranze raccontato da J.R. Moehringer, ma almeno un’occhiata dentro ai bar della Genova degli anni Settanta del secolo scorso, avrebbe potuto buttarla, prima di dar aria ai denti con quella scemenza delle chiacchiere da bar.
Lo avesse fatto, avrebbe potuto assistere, fra l’altro, ad alcune delle discussioni più democratiche, civili e inclusive che si siano mai svolte (nessuno interrompeva mai nessuno, nessuno parlava addosso a nessuno, nessuno alzava la voce o insultava nessuno, alla peggio partiva qualche gnêra se qualcuno tendeva ad allargarsi troppo senza sostenere le sue argomentazioni con evidenze scientifiche) e politicamente corrette (potevano intervenire, pur se brevemente, anche quelli del Pci, certo non i figiciotti, peraltro quasi tutti astemi). In uno di quei bar, credo fosse il Frutteto (o era il King’s del signor Tedeschi? Forse il Gioiello di Giugi? O Sopraviaventi? Amedeo a Boccadasse? Lino in piazza Alimonda? Il bar del Liceo? Lo Shaker, cara, vecchia, accogliente bara di legno?) venne nominato il presidente a vita (e anche dopo) della Repubblica italiana.
La discussione fu ampia ma intensa e senza inutili sbrodolature e coprì svariate serate. Archiviate in fretta le opzioni più nostalgiche (Mazzini, troppo triste, Garibaldi, troppo piccino, Colombo, porta sfiga, Marconi, ambiguo nei confronti del fascismo, Pertini, non ancora pronto), presero via via quota candidati illustri poi tutti regolarmente trombati: Gian Maria Volonté, bravo, forse troppo bravo; John Cassavetes, troppo nervoso; Pier Paolo Pasolini, conversatore eccellente ma romanziere mediocre, poeta scostante, regista discreto e nulla più; Paride Batini, console dei camalli del porto, troppo aristocratico); un pugno di atleti, Abdon Pamich, Pietro Mennea, Eraldo Pizzo, Dino Meneghin, Klaus Di Biasi, meravigliosi maestri di vita ma a cui mancava sempre quel quid. Finché l’irruzione di Rombo di Tuono, Luigi Riva da Leggiuno (a nessuno veniva in mente di chiamarlo Gigi, non scherziamo, tutt’al più, brerianamente, Luìs) mise d’accordo tutti.
Ricordo che la perorazione finale per sostenere la sua designazione venne affidata a Massimo Marcenaro, primo esegeta universale di Riva. Massimo dissipò gli ultimi dubbi dell’assemblea con una semplice osservazione che tutti noi grandi elettori avremmo poi mandato a memoria: “Citami, citami anche solo una volta in cui Riva abbia tirato fuori. Qualche traversa, forse, qualche palo, alcune parate dei portieri, ma fuori Riva non ha mai tirato”. In coscienza, e soprattutto in incoscienza, nessuno fu in grado di indicare un’occasione specifica in cui una conclusione di Riva fosse terminata a lato. Dunque la mozione Marcenaro venne approvata per acclamazione e da allora Luìs Riva è rimasto il nostro unico, vero e indiscusso presidente della Repubblica. E qualcuno avrebbe il coraggio di chiamarle chiacchiere da bar?
Foto di Patrizia Traverso (tranne dove altrimenti accreditate). Non è consentita la riproduzione.
Genovese di madre anglo-bolognese e padre svizzero-comasco, Stefano Tettamanti ha fatto il commesso di libreria, poi il libraio, il direttore commerciale, editoriale, generale e il consulente di diverse case editrici. Da oltre trent’anni è agente letterario e socio fondatore di Grandi&Associati, una delle prime agenzie letterarie italiane ed europee. Ha pubblicato, firmandoli con il suo nome, una dozzina di titoli (fra questi Il calendario goloso, Garzanti; A capotavola, Mondadori; Il cibo non era niente di speciale, Utet, tutti con Laura Grandi) e almeno altrettanti come curatore (Racconti gastronomici, Einaudi; Hai voluto la bicicletta, Sellerio; L’originale miscellanea di Schott, Sonzogno, sempre con Laura Grandi), come ghost writer (di arbitri di calcio, chirurghe estetiche, chef stellati, registi cinematografici, imprenditori, sindacalisti…) e, sotto pseudonimi che non rivelerà mai, romanzi rosa di impressionante (per i suoi parametri) successo. Ha tradotto dall’inglese alcuni classici (Stevenson, Kipling, Chesterton…), alcuni contemporanei di alta qualità letteraria (Raymond Federman, Athol Fugard, William Wall…), alcuni altri di alta qualità commerciale (Michael Connelly, George Pelecanos, Andy McNab…) e un’infinità di autori e autrici di nessuna qualità. Ripete spesso che più di quelli scritti, promossi, curati e tradotti è orgoglioso dei libri che ha letto.
Patrizia Traverso, genovese, ha al suo attivo diversi volumi nei quali l’aspetto determinante è l’assemblaggio dei suoi scatti fotografici con testi letterari di poeti e scrittori, nel tentativo di sollecitare una riflessione, talvolta spiazzante, tra pensiero e immagine, parola e fotografia. Per questo le piace definirsi Fotonarratrice.
Tra i suoi titoli più recenti: Nel cuore di Genova. Viaggio nella città di Bacci Pagano, il Canneto, con Bruno Morchio e Gianni Ansaldi; Genova che scende e che sale. Itinerario zen tra ascensori, funicolari e crêuze, il Canneto, con Giampiero Orselli; Genova ch'è tutto dire. Immagini per "Litania" di Giorgio Caproni, il Canneto, con Luigi Surdich; La parola ai gatti, Lo sguardo e il gusto, Preferisco leggere, Tea; Camogli, companion guide e Golfo dei Poeti, companion guide, Sagep.
Le sue immagini sono pubblicate su quotidiani, riviste e libri (tra questi Archeologia industriale e architettura contemporanea nel porto di Genova, Ville in riviera tra ecclettismo e razionalismo, Grandi alberghi e ville della bella epoque nel golfo del Tigullio, Sagep).
Ha esposto in gallerie e musei in Italia e all'estero.
Insieme, Tettamanti & Traverso hanno firmato rubriche fotoletterarie su quotidiani e periodici di carta e online, pubblicato un paio di libri (Genova è mia moglie. La città di Fabrizio De André, Rizzoli; Andar per statue, a Genova e in Liguria in 85 tappe, il Canneto), viaggiato in tre quarti di mondo, condiviso una dozzina di case e quasi altrettanti traslochi durante più di quarant’anni di divertentissimo matrimonio.
Nota. Alcuni di questi testi sono stati pubblicati nel blog letterario di Chicca Gagliardo Ho un libro in testa, altri sono stati raccolti nel libretto Cose che so. Libri, pesci combattenti, scaloppine al limone, ancora libri e poco altro, L’amico ritrovato. La maggior parte sono inediti.
Per quanto riguarda la mia storia personale, sono propenso a pensare che da Amedeo, a Boccadasse, fosse luogo deputato, sia pure di un'umanita non consapevole, all'elaborazione della conoscenza. Dopo il terzo giro di single malt, la dialettica epistemologica s'imponeva come caratteristica primaria del locale stesso, e del muretto prospiciente.
Ciao, Patrizia.