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IL SINDACO

CRONACHE DI UN ORDINARIO GIALLO PROVINCIALE


Parte seconda




di Chiara Ferraris e Claudio Di Tursi


La gita al campo nomadi sostanzialmente fu un buco nell’acqua. Non ottenemmo nessuna informazione utile alle nostre sgangherate indagini, eravamo andati chiaramente nel posto sbagliato.

Nessuno li aveva minacciati e il sindaco, quando li aveva incontrati, non si era mostrato preoccupato per le minacce ricevute su Facebook. Secondo Adrian, quelli della petizione erano gente capace solo a fare la voce grossa davanti allo schermo, i soliti leoni da tastiera insomma. Quei leoni che, secondo la Ferraris, saremmo dovuti andare a pescare da lì a poco.

Già, secondo la Ferraris. Io non ero d’accordo. Sfidare un gruppo di razzisti apertamente, senza essere in nessun modo incaricati delle indagini, era molto pericoloso sotto ogni punto di vista. Il problema era che non avevo le palle di dirglielo, di apparire ai suoi occhi come una mammoletta.

Non ci dormii su tutta la notte, poi mi venne un’idea.

Quando spiegai il mio piano alla Ferraris, lei rimase qualche istante a bocca aperta, poi se ne uscì con un «Sei un genio» che portò la mia autostima a vette mai raggiunte prima.

La Ferraris ed io ci infiltrammo nel gruppo Facebook con identità false, e, nel giro di un paio giorni, grazie ad alcuni commenti ad hoc, riuscimmo a ottenere un grande consenso e a convincere i più facinorosi a trasferire la discussione in una chat riservata su Communicator, un nuovo social, non intercettabile dalla Polizia. Il piano era, una volta là dentro, di estorcere informazioni.

Andammo oltre. Il fondatore della pagina Facebook, comprovata la nostra unità d’intenti e la nostra totale comprensione per la faccenda dei nomadi, propose di incontrarci per dargli una mano in una questione delicata di cui era necessario parlare a voce.


Scegliemmo un territorio neutralissimo: la passeggiata di Nervi. Dall’altra parte del mondo, praticamente. Passeggiavamo, la Ferraris ed io, sulla mattonata sferzata dal vento. Di tanto in tanto, spruzzi di mare risalivano dalle onde che si schiantavano sugli scogli per bagnarci il viso e i capelli, in quella giornata autunnale per niente fredda ma minacciosa. Il cielo prometteva acquazzoni e io già pensavo al weekend imminente e all’idea di trascorrerlo di nuovo all’erta, in attesa di un’esondazione o di qualche frana. Sfiorai la mano della Ferraris e pensai che sì, a quel punto, avrei anche potuto osare, intrecciare le mie dita con le sue, giustificando il tutto come parte della nostra copertura. Ma la Ferraris la ritrasse subito e andò a tastare la pistola che teneva sotto la giacca, come mi aveva annunciato. Poi indicò un punto poco distante. L’uomo che aveva fondato il gruppo contro i nomadi era a pochi passi da noi.

Ancora non capivo cosa volesse e ne ero anche parzialmente turbato, ma non ci volle molto perché ci svelasse il motivo del nostro incontro.

L’uomo era sconvolto.

«Mi siete sembrati subito due tipi tosti, voi due, proprio come me».

Tirai un colpetto accennato allo stinco della Ferraris per impedirle di scoppiare in una risata o in un commento sarcastico che avrebbe sicuramente contenuto troppe z.

«E allora ho pensato che potreste aiutarmi e…e…»

E scoppiò a piangere. Scuoteva la testa e si asciugava gli occhi con i palmi delle mani. Era rosso in viso, paonazzo, e la fronte con le sue incipienti calvizie era un groviglio di rughe e di disperazione.

Ci guardammo allibiti, la Ferraris ed io. Poi la vidi fare una cosa che mai, nella nostra vita lavorativa, avrei creduto di vedere.

Posò una mano sulla spalla dell’uomo e lo consolò. Era proprio entrata nella parte. O forse, stava perdendo colpi.

«Forza, su, raccontaci cos’è successo».

«Sono vittima di persone terribili. Mi hanno riempito di insulti e commenti abominevoli».

«Ma chi?» domandai, completamente spiazzato.

«Quei razzisti, quegli sporchi razzisti, in questa Italia non c’è più libertà di pensiero» e singhiozzava.

«Stai parlando dei nomadi? Ti hanno minacciato?» non mi sembrava neanche una cosa del tutto remota, dopo quello che lui aveva scritto nel suo gruppo Facebook.

«No. Peggio! Ce l’hanno con me e con la mia famiglia. Hanno fondato un gruppo che si chiama “Via i razzisti dai social”. Mi hanno individuato come capo del nostro gruppo e mi hanno minacciato. Vogliono fare qualcosa di terribile a me e alla mia famiglia!» esplose l’uomo, dando sfogo a tutte le sue frustrazioni.

Mi grattai la fronte, mentre la Ferraris continuava a dispensare pacche amorevoli e intanto occhieggiava nella mia direzione.

Eravamo al colmo: i razzisti che avevano minacciato i nomadi erano minacciati dai non-razzisti che si stavano comportando da razzisti nei confronti dei razzisti.

Compresi subito che tutto ciò ci avrebbe portato lontano dalle nostre indagini, troppo lontano.

Declinai la proposta del buon uomo di partecipare a un’azione legale contro i non-razzisti, dicendo che noi eravamo razzisti all’antica, di quelli che risolvono le cose in proprio e provai a staccare la Ferraris per andarcene, quando un ultimo commento dell’uomo solleticò la mia coscienza.

«Aiutatemi almeno a capire chi c’è dietro il nickname che mi ha minacciato di morte».

Mi feci mandare il link al profilo su Communicator e lo congedai facendogli coraggio e consigliandogli di non rispondere alle provocazioni.


Tornammo nella nostra amata Valpocevera, delusi per l’ennesimo fallimento e con il carico di responsabilità che derivava dal fatto che una persona minacciata, senza saperlo, aveva chiesto aiuto a due pubblici ufficiali. Dovevamo fare qualcosa e non essendo a nessun titolo incaricati delle indagini, presto saremmo dovuti andare a vuotare il sacco in questura dove non ce l’avrebbero fatta passare liscia.

Quella notte, mentre la Ferraris sicuramente dormiva con due dita di crema idratante sul viso, che diversamente non si spiegava la pelle da bimba il giorno della Prima Comunione, mi misi al lavoro: dovevo capire chi fosse veramente jingle_bells, il nickname dietro cui si nascondeva la persona che minacciava il capo dei razzisti. Scrutai tra le amicizie, tutti profili anonimi che riconducevano a razzistelli e negazionisti che, visto le cazzate che scrivevano, non usavano certo il proprio nome e cognome. jingle_bells però era diverso, sembrava bipolare. Quasi sempre simpatico e ragionevole, diventava una bestia nei gruppi in cui si parlava di nomadi. Stavo per gettare la spugna quando decisi di fare un ultimo tentativo. Misi il nickname del farabutto su un motore di ricerca specializzato nella compravendita di oggetti usati e, sconsolato, premetti enter.

Comparve un solo risultato.

Il cuore iniziò a battere più forte. Cliccai sull’annuncio e fui catapultato su un sito olandese per la vendita di vespe usate. Quello che vidi mi privò completamente del sonno. Il poco tempo che separava la fine della notte dall’alba mi sembrava un’eternità. Tra meno di due ore avrei potuto dare alla Ferraris la dimostrazione lampante che non ero il genere di sfigato che intendeva lei.


La mattina dopo, mentre la Ferraris guidava la Panda su per Beleno come un pilota di rally ubriaco, cercando di mantenere un contegno che manco Humphrey Bogart in Casablanca, me ne uscii con un: «Ah, stanotte ho identificato il tizio che minaccia di morte il capo dei razzisti...».

«Come? Cosaaaa... cazzo dici, Di Tursi?»

«Quello che ho detto».

Le spiegai brevemente come ci fossi riuscito, aggiungendo: «Si è fregato per un oggetto venduto cinque anni fa. Sicuramente non se ne ricorda neanche più».

«Ma che cazzata!» inizio a canzonarmi la Ferraris «E cos’era? Una lavatrice, un frigorifero? Sai quante se ne producono tutti uguali? Si chiama catena di montaggio, hai presente? Una cosa nata parecchi anni fa...»

La lasciai ridere sguaiatamente per qualche secondo e poi sparai a voce bassissima: «Era una vespa 125. Quel coglione l’ha fotografata con tutta la targa.».

La Ferraris tirò il freno a mano e si parcheggiò in una piazzola solitamente frequentata dalle coppiette che cercavano un po’ d’intimità dietro qualche foglio di giornale.

«Te l’ho già detto che sei un maledetto genio?» fece la Ferraris, con uno sguardo talmente allibito che non sapevo se esserne orgoglioso o risentito. Possibile che la sua opinione nei miei confronti fosse così bassa? Guardai la piazzola e pensai che fosse il momento di tentar….

Un fortissimo sganassone mi fece voltare la faccia dall’altra parte.

«Cosa ti prende?» urlai, massaggiandomi la guancia.

«So cos’hai pensato! Non mi sono fermata qui per chissà quali motivi. Voglio sapere cos’altro hai scoperto!»

La guardai in parte offeso, per aver pensato male di me, e in parte affranto, per aver carpito benissimo i miei istinti.

«Ho controllato la banca dati dell’ACI, so come si chiama».

«Lo conosco? Sputa il nome se non vuoi che passi al trattamento speciale» disse, indicandomi le parti basse.

«Lo conoscono tutti, è Nereo Morlano, il campanaro» rivelai.


Rimanemmo qualche tempo in silenzio, mi sembrava quasi di sentire distintamente il ticchettio tipico degli ingranaggi in movimento provenire dalla testa della Ferraris. Anch’io avevo qualcosa che mi ronzava in testa, ma non riuscivo ancora mettere a fuoco con precisione cosa fosse. Sapevamo chi era stato a minacciare il capo dei razzisti e con lui potevamo chiudere la partita senza passare per la temutissima questura. Nereo era famoso per essere fumino, ma non aveva mai fatto del male a nessuno, sicuramente la sua intenzione era solo quella di spaventare un violento vero e, a quanto pare, ci era riuscito benissimo. Sarebbe bastato parlagli e vistosi scoperto avrebbe sicuramente desistito dai suoi propositi pseudo criminali.

Ma tutto questo aveva a che fare anche con la morte del sindaco? Mi sembrava di no, mi sembrava di galleggiare ancora in alto mare, oppure di affondarci dentro.

A ogni modo, decidemmo di andare a parlare con il campanaro.

L’indomani ci recammo a casa di Nereo che erano appena suonate le otto. Ci aprì la porta già vestito di tutto punto, non sembrava stupito nel vederci. Ci fece accomodare in cucina e si diresse verso i fornelli. «Ora metto su un caffè in grado di resuscitare i morti» fece, mentre sistemava la miscela nel filtro della caffettiera.

«Chissà se farebbe resuscitare il nostro povero sindaco» commentò la Ferraris.

«Già…» rispose il campanaro, mettendo una quantità esagerata di zucchero nelle tazzine, come se non si fosse accorto di averne già versato una buona misura, come se la sua testa fosse da un’altra parte «… già, povero ragazzo, eh, proprio povero… comunque, non se ne sa niente, eh, di questa faccenda, vero?»

Non feci caso alla sua domanda, perché ero sul punto di lanciare la battuta che avevo pronta dalla sera prima: «Invece, delle minacce di morte al capo del gruppo Facebook dei razzisti, mister Jingle Bells, che ne sai?»

Nereo sbiancò.

«Jingle Bells… cosa, cosa… come fate…?» farfugliò, mentre appoggiava sul tavolo il cabaret sul quale le tazzine avevano iniziato a fare rumore per il tremore indotto dalle sue mani.

«La Vespa 125, ricordi? Quella che hai venduto in Olanda...»

Nereo si sedette lentamente, poi si passò le mani sulla fronte, si ravviò il ciuffo ben pettinato, con due dita tentò di allentare il colletto della camicia perfettamente stirata e infine, dopo essersi schiarito la voce, si vide costretto ad ammettere: «Quel bastardo voleva far chiudere il campo nomadi alle porte del paese, sono buone persone, non vanno a rubare. Sono come noi. Se si è cagato addosso meglio, era quello che si meritava. Io volevo solo spaventarlo...»

«A quanto pare conosci bene i nomadi. Come mai?» lo incalzò la Ferraris.

«L’anno scorso a dicembre hanno montato il tendone dentro il parcheggio della chiesa. Facevano due spettacoli al giorno e così ho imparato a conoscerli, ad apprezzare le loro usanze. Spesso mi invitavano a cena da loro e...»

Calò il silenzio. Vidi gli occhi della Ferraris farsi aguzzi come cocci di bottiglia appena rotta.

«…e tu ne approfittavi per guardare le tette a Lavinia?» terminò lei, lasciando me completamente sbigottito.

Cosa c’entrava Lavinia? Voleva essere una battuta o c’era qualcosa di più?

La reazione di Nereo fu istantanea: «Taci sgualdrina, tu non sei degna di nominarla!»

C’era qualcosa di più. E come aveva fatto, la Ferraris, a capirlo?

«Stai buono, Nereo. Stai calmo. È successo qualcosa con Lavinia?»

«Ci amavamo, lo ammetto, ci amavamo. Ma Adrian, suo zio, le impediva di frequentarmi perché non sono uno di loro. Le aveva persino tolto il cellulare».

Sembrava essersi calmato un poco, anzi, sembrava essersi perso nei suoi ricordi, in quegli attimi d’amore che, si capiva benissimo, ormai erano distanti nel tempo.

«E allora io suonavo le campane. Suonavo per lei, ogni volta che la pensavo. Poi divenne il nostro segnale» i suoi occhi si accesero all’improvviso, guardavano nel vuoto, e sorrideva: «Se suonavo le campane regolarmente, lei veniva qui. Ma se era impossibile vederci a casa mia, sapete, a volte gira troppa gente in questo vicoletto, allora suonavo le campane in anticipo e lei sapeva che ci saremmo dovuti vedere nel bosco dietro ai capannoni. Suo zio credeva che lei andasse a fare la spesa».

Trattenne una risatina: «A volte le facevo trovare la spesa pronta, così da non perdere tempo. Da non perdere i nostri preziosissimi minuti insieme… ma poi…»

L’uomo posò la testa tra le mani, come se fosse il grembo di una madre, e cominciò a scuoterla, evidentemente disperato.

La Ferraris lo avvinse con una stretta di conforto. La mia collega stava diventando una sentimentale e a me, questo, non piaceva affatto. Provammo a concludere la conversazione con Nereo, ma lui sembrava ammutolito e i caffè nelle nostre tazzine erano freddi, ormai, imbevibili.

«Facciamo una cosa, Nereo. Ti lasciamo due minuti da solo, così ti riprendi. Scendiamo a prenderci un caffè e quando torniamo, finisci la tua storia, che dici?».

L’uomo borbottò un «Andate, andate…» e ci fece un cenno verso la porta, completamente perso nelle sue confusioni.


La Ferraris ed io scendemmo le scale in totale silenzio. Dovevo raccogliere le idee. Ce n’erano tante, che mi giravano per la testa.

Sostammo nell’atrio del portone, parlando a bassissima voce.

«Hai capito perché Arnaldo ha dovuto bloccare le campane? Il campanaro innamorato le faceva suonare a caso, a seconda di come gli suggeriva il cuore» riepilogai.

«O di come gli suggeriva qualcos’altro» completò la Ferraris, alla quale scoccai un’occhiata di fuoco. Non era il caso di lasciarsi andare a stupidi commenti e, per una volta, ero io il primo a capirlo.

«Di Tursi», quando la Ferraris mi chiamava per nome mi tremavano le ginocchia. «Possibile che Nereo non abbia commentato in alcun modo la faccenda delle campane su Facebook?»

«Non mi pare. Non c’era nessun jinglebells tra i commenti. C’è stato solo un facinoroso sul quale vorrei indagare, appena chiudiamo questa faccenda delle minacce al razzista».

«E come si chiamava il facinoroso?».

Pensai alla mia notte in bianco a cercare di capire perché quel secondo nickname mi dicesse più di quanto avrei creduto. «El_nero_Romano» risposi.

Vidi la Ferraris saltare con gli occhi in tutte le direzioni, come se stesse leggendo frasi scritte ovunque.

«A cosa stai pensando, Ferraris?» «Al fatto che dovresti fare la Settimana Enigmistica invece che leggere i tuoi minchia di romanzetti.» «Spiegati meglio…» dissi timidamente. «El nero Romano è l’anagramma di Morlano Nereo, il campanaro. È stato lui a minacciare il sindaco!» Ecco, cosa mi aveva solleticato, la sera prima. La mia mente fu invasa dai ricordi dei commenti che avevo letto nei vari gruppi, quelli di jinglebells e quelli di El_nero_Romano: stessa sgangherata costruzione delle frasi, stessa mania di non usare mai le maiuscole e, cosa che in assoluto mi faceva imbestialire, stessa crudeltà nel mettere le virgole e i punti staccate dall’ultima lettera delle parole.

Era lui al cento per cento.

«Hai capito il nostro campanaro?» esclamò la Ferraris.

Ci guardammo negli occhi. Era arrivato il momento di dire la frase. Quella frase.

Sospirai, sapendo che fosse mio, il compito di dare il via. «Chiama i rinforzi, Ferraris. E tieni la pistola pronta. Dobbiamo tornare da Nereo».

Ci mancava ancora una confessione vera e propria, però. E ci tenevo che la nostra indagine fosse perfetta. Che figura avremmo fatto, se, una volta arrivati gli investigatori, si fosse scoperto che Nereo non c’entrava nulla con l’omicidio del sindaco? No, dovevamo consegnare nelle mani della polizia l’esatto colpevole.

Entrammo in casa di Nereo e lo trovammo nella stessa posizione di prima, ancora sconvolto. La faccia slavata e gli occhi persi nel vuoto mi fecero capire che la sua coscienza traballava di brutto. Bastava poco per farlo crollare, ma dovevamo stare attenti: poteva anche spaventarsi e ritrattare tutto. Ci voleva un fine escamotage psicologico, adesso, e io ne avevo uno sulla punta della lingua, ma la Ferraris prese la parola prima di me.

«Allora, Quasimodo dei miei stivali» disse, estraendo la pistola e lasciandomi sorpreso per il richiamo a Notre Dame de Paris. «Sei stato tu, quindi, a uccidere il povero Arnaldo, perché voleva impedirti di suonare le campane con cui organizzavi le scopatine con la tua Lavinia alias Esmeralda, dico giusto?» continuò.

Avrei voluto soffermarmi sulle sue metafore letterarie, ma la Ferraris, con il suo delicatissimo interrogatorio, aveva scelto decisamente il momento meno opportuno per darmi la soddisfazione di avere ascoltato il mio consiglio su Hugo.

«Non per quello!» iniziò a piangere a dirotto Nereo, che si lasciò andare completamente sulla sedia. «L’ho ammazzato perché quel porco le aveva messo gli occhi addosso. Ho visto come si guardavano, se non lo avessi ucciso sarebbe stata sua, ne sono sicuro».

«Però senza il suo intervento, il campo nomadi sarebbe stato smantellato» aggiunsi, seguendo tutte le tracce che avevamo seguito per arrivare fino a lì.

«Questo dimostra che fosse innamorato di Lavinia. E lei non poteva essere sua. Non poteva… non poteva… non poteva…».

Nereo era esausto, inerme, in preda al rimorso e alla coscienza che urlava quanto la sua colpa.

La Ferraris gli mise le manette senza sforzo.


Il trambusto fu notevole, nel vicoletto, con l’arrivo della polizia. L’ispettore ci strinse la mano, ringraziandoci per la collaborazione e definendoci “colleghi”, parola che accettammo tra una risatina e la consapevolezza che, come aveva detto la Ferraris, le botte di culo esistono, ma a volte sono accompagnate da una bella dose di pensieri notturni.

Risalimmo in macchina, io e la mia collega, pronti ad assalire qualche automobile parcheggiata abusivamente nei posteggi per disabili o cittadini distratti che dimenticavano di raccogliere cacche di cane dal centro del marciapiede. Insomma, la vita sarebbe tornata quella di prima, con o senza Arnaldo Panna e Nereo Morlano.

«Sei stato bravo, Di Tursi. E così, abbiamo chiuso il nostro secondo caso» biascicò la Ferraris, mentre spingeva sull’acceleratore.

«Secondo caso letterario, collega. Sei stata brava anche tu e devo dire che mi ha stupito che tu abbia ascoltato il mio consiglio su Hugo. Come vedi, i libri sanno sempre dire qualcosa di utile. Quando ti sei accorta che c’era un collegamento tra Lavinia e Nereo?».

«In Notre Dame de Paris ci sono tanti uomini innamorati» commentò lei, scalando la marcia «e una donna bellissima che tradisce. E si sa che l’amore gioca brutti scherzi».

Provai a sondare quel suo sguardo mai limpido, quegli occhi che non lasciavano trapelare nessun sentimento. O forse no, forse ero io a non riuscire ad afferrare il reale significato delle sue parole.

«Ferraris, mi piacerebbe parlarne ancora con te. Magari questa sera, a cena…»

«Di Tursi, l’amore gioca brutti scherzi. Ma non così brutti. Tieniti forte, adesso, che faccio uno sterrato».


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