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  • Immagine del redattoreArianna Destito

Ti voglio bene

di Maurizio De Giovanni


La perse un martedì, una decina di giorni prima di Natale.

Se ne andò in punta di piedi, come aveva vissuto; di pomeriggio, senza far correre nessuno in piena notte, senza causare scompiglio.

Un mese prima Mario era tornato a casa dal lavoro e l’aveva trovata con la testa appoggiata al tavolo, addormentata in mezzo ai fagioli sbucciati a metà, mentre la piccola televisione della cucina celebrava naufraghi su isole lontane. Gli avevano spiegato che una bollicina d’aria in una vena aveva percorso tutto il corpo di Laura e s’era fermata nel cervello. Così, vedete?, gli aveva detto il dottore indicando la flebo. Allora Mario aveva chiesto: ma se la bollicina d’aria si vede, non si può togliere? Il dottore se n’era andato, scuotendo la testa. Aveva perso già troppo tempo.

E per un mese Mario se n’era stato là, seduto sulla piccola sedia traballante ai piedi del letto dove la sua donna respirava attaccata a una macchina. Attorno a lui l’ospedale correva frenetico, ma lui e lei vivevano come in una bolla fuori dal tempo. Una signora che veniva a fare visita al padre, là in rianimazione, gli aveva raccontato che forse parlarle le avrebbe fatto bene; che la sua voce, magari, Laura la poteva sentire ancora. Il medico frettoloso si era stretto nelle spalle: col cervello in quelle condizioni, aveva detto, mi pare difficile che la signora possa sentire qualcosa. Si può solo aspettare. Si capiva che con così pochi letti, la speranza era che l’attesa non fosse troppo lunga.

Mario comunque non avrebbe saputo cosa dire. Non era uno che parlava molto, e non lo era mai stato. Un vecchio scherzo con Laura era proprio questo, lei che bonariamente gli chiedeva se era diventato muto perché, diceva, se fosse successo lei se ne sarebbe accorta solo anni dopo. Del resto anche lei non parlava molto. Insieme per quarant’anni, un’intera vita in salita; lui cameriere in un ristorante della riviera, lei a mandare avanti la casa e i figli e a moltiplicare cento volte i pochi soldi. Solo lei nella sua vita, solo lui nella vita di lei. Uno sguardo, un gesto e si capivano: che bisogno c’era di parlare?

Qualche volta, forse un paio in tutti quegli anni, lei gli aveva chiesto: ma tu mi vuoi bene? Lui, imbarazzato, rispondeva sì, lo sai. E perché non me lo dici? Perché non c’è bisogno. Lo sai. E allora Laura sorrideva, scuoteva un po’ la testa e si rimetteva a cucinare, o a guardare quel po’ di televisione che la sera gli faceva compagnia, ora che i figli se n’erano andati per la loro strada. Non te lo dico, perché non c’è bisogno.


Finché un mese prima si era addormentata. E non si era svegliata più.

Mario non era tornato al lavoro. Se ne stava al buio, in casa. Dormiva in poltrona, se gli capitava di spostare qualche oggetto lo rimetteva a posto con attenzione. Ogni tanto mangiava qualcosa, un pezzo di pane vecchio, un po’ di formaggio. Ripuliva le briciole una a una. Si sentiva solo il custode della casa di Laura; pensava che, quando sarebbe tornata, se avesse trovato disordine avrebbe sospirato e si sarebbe rattristata. Sapeva di stare impazzendo, lo aveva detto la figlia prima di tornarsene al nord, aveva i figli piccoli, non poteva starsene là dietro alle manie di un vecchio pazzo. L’aveva sentita dirlo al telefono, chissà con chi parlava, il marito, il fratello all’estero.

Quando era partita per Mario era stato un sollievo: poteva starsene finalmente a pensare. A ricordare. Sapeste quante cose ho, da ricordare, avrebbe detto: quarant’anni di fatica, preoccupazione, gioie, dolori. Non c’è emozione, non c’è palpito di cuore che non abbiamo vissuto insieme. Sono un’ala che è rimasta da sola, dove volo più?

Capì che Laura non sarebbe tornata la vigilia di Natale, di mattina. Al di là della tapparella serrata sentì suonare forte una canzoncina, di quelle americane fatte con le campanelle, strillata da un megafono, qualcuno che vendeva roba con la macchina in giro. Pensò che se Laura avesse potuto in qualche modo tornare sarebbe stata già là, con lui. E gli prese la frenesia. Si vestì di fretta, senza badare troppo a quello che prendeva dall’armadio ordinato, e uscì in strada.


La città correva impazzita come sempre, la sera della vigilia. Non c’è niente che arrivi imprevisto come la sera di Natale. Mario camminava invisibile, in mezzo a persone cariche di pacchi alla ricerca dell’ultimo addobbo, dell’ultimo regalo, dell’ultima bottiglia di spumante. La via era lucida dell’ultima pioggia, faceva freddo: una pungente umidità attraversava la leggera giacca e entrava nelle ossa, ma non era per questo che Mario rabbrividiva. Gli pareva di essere un fantasma, nessuno lo vedeva, forse potevano persino passargli attraverso. Accelerò il passo: aveva un appuntamento, doveva fare presto.


Si erano conosciuti sul ponte della Sanità, quello che regala un inatteso panorama in mezzo a una strada principale. Per i mesi dei loro primi incontri si vedevano là, e se ne stavano vicini a guardarsi sorridendo, senza parlare, mentre attorno a loro la città vorticava nei suoi traffici. Gli sembrava di essere invisibili, due fantasmi felici in mezzo alla folla. Mario aveva pensato che non poteva essere che là, che Laura lo aspettava per farsi guardare sorridere almeno un’altra volta, per consentirgli di dirle quello che le doveva dire. Quarant’anni, pensava; e non ho avuto il tempo di dirti quello che ti dovevo dire.


Arrivò sul ponte che il traffico cominciava a scemare, come una canzone che finisce. Si guardò attorno: Laura non c’era. Non fu deluso, forse era in anticipo. C’era ancora gente che passava veloce, qualcuno lo urtava e non gli chiedeva scusa. Correte, correte, pensava Mario. Non perdete tempo. Avete ragione, a correre. Sapeste quanto è poco, il tempo. E quanto passa in fretta.

Poco più in là c’era un banchetto, tre assi di legno messe in croce, e dietro un vecchietto imbacuccato in una coperta. Attaccati al banchetto una decina di biglietti della lotteria. A Mario la presenza dell’uomo diede fastidio: e se Laura per presentarsi a lui avesse avuto bisogno di trovarlo solo? E se per colpa del vecchio non si fosse presentata, e avesse potuto farlo stasera o mai più, che è la vigilia di Natale? I pensieri gli mettevano ansia, mentre i minuti passavano e la folla si diradava. Le dieci. Il quartiere che si vedeva dal ponte sembrava un presepio, con tutte le piccole finestre illuminate. Arrivava l’eco di risate e canzoni.


Mario guardava il vecchio, che non accennava a sbaraccare. Coperto com’era, nel vento tagliente che soffiava sul ponte, non ne vedeva il volto. Ma che aspettava, se non c’era più nessuno in giro per comprare i maledetti biglietti della lotteria? Non aveva dove andare, a passare il Natale? Ormai Mario era sicuro che, se non fosse stato solo, non avrebbe incontrato Laura. Rabbrividendo per la febbre e il vento, ebbe un’idea. Abbrancò quello che aveva in tasca e si avvicinò al vecchio. Quanto volete, per i vostri biglietti? Ve li compro tutti, così andate a casa. L’uomo girò il capo verso di lui. La coperta gli arrivava al naso, il berretto di lana gli copriva la fronte. Si vedevano solo gli occhi, due lacrimanti occhi cisposi dietro un paio di occhiali tenuti insieme col nastro adesivo. Tutti?, chiese. Tutti i biglietti? Sì, disse Mario. Tutti. Basta che andate via.

Ci fu un lungo silenzio, Mario in piedi con una manciata di banconote strette nella mano, i capelli scompigliati dal vento, il vecchio seduto come un Budda di lana che lo guardava dal basso. Il destino, disse. Che?, chiese Mario. Il tempo passava.

Il destino, ripeté il vecchio. Non lo puoi comprare, il destino. Io vendo solo una possibilità. Un biglietto è il destino. Dieci biglietti non sono dieci destini: è sempre lo stesso destino.

Il destino non esiste, disse Mario. E pensava alla bollicina d’aria nel tubo della flebo. Il destino lo facciamo noi. Con quello che facciamo, con quello che diciamo. E con quello che non diciamo, forse. Anzi, soprattutto.


E tu, disse il vecchio, che cosa cerchi sul ponte della Sanità la notte di Natale? Non senti che mangiano, che bevono? Non hai chi ti aspetta a casa, per festeggiare?

No, vecchio. Non ho chi mi aspetta. Se qualcuno mi aspetta, mi aspetta qui, su questo ponte. E aspetta che io sia solo, per venire da me un’ultima volta. Per ascoltare quello che ho da dire, quello che non ho detto quando potevo ed è rimasto qua, e si batté in petto. Vai via, vecchio. Prendi i miei soldi e lasciami il ponte, per questa sera. Mario guardò in basso, la strada lucida di pioggia che rifletteva i lampioni. Venti metri, forse trenta. Il tempo di una frase, prima di abbracciarti ancora.

Il vecchio disse: il destino non si compra. Metti via i tuoi soldi. Cosa vuoi, dal Natale? Cosa vuoi che ti regali, il tuo destino?


Un altro Natale, disse Mario. Solo un'altra sera di Natale, per guardarla ancora mentre si muove nella sua casa, in quella danza silenziosa che mi sono goduto quaranta volte, per le quaranta vigilie di Natale che abbiamo vissuto insieme. Darei la vita, do la vita per un altro Natale. Per stare ancora una volta vicino a lei, per sentirne il profumo. Puoi chiedere al destino se posso avere un’ora, solo un’ora di un altro Natale?

Rimasero là, uno di fronte all’altro, circondati dal gelido vento del ponte. Non c’era più nessuno, tranne il vecchio dietro al banchetto della lotteria e l’uomo in piedi, con i soldi in mano. Dopo un lungo silenzio il vecchio parlò.

Lo vuoi e l’avrai. Un’ora, solo un’ora. Ma dovrai tacere. Dovrai guardarla, sorriderle, dire le cose che avresti detto, ma niente di più. Non dovrai fare o dire nulla di diverso, il destino ha un equilibrio che nessuno deve alterare. Se dovessi dire quello che non hai mai detto, che non avresti detto, ti sarà sottratta per sempre e non la rivedrai mai più. Hai capito? Hai capito bene? Nulla di quello che non avresti detto. Nemmeno una parola.

Era un sussurro, niente più di un sussurro che veniva da una lercia coperta. Ma a Mario parve il canto di mille angeli. Che devo fare?, disse. Prendi in cambio quello che vuoi, ma regalami quest’ora. E regalamela subito.

Vola, disse il vecchio. Fai presto. Manca un’ora a Natale. E Mario volò.


Si accorse che Laura non era mai andata via sin dall’androne del palazzo. Il profumo inconfondibile della sua cucina, una magia che si ripeteva ogni Natale: teneva da parte i soldi da un mese, per preparare la cena di quel giorno, pesce, frutti di mare, contorni, dolci. La pizza di scarole, con le acciughe, quella di cipolle dolci. Entrò in casa senza fiato, la trovò leggera, la televisione spargeva canzoni per la casa, un coro di bambini. Ciao, gli disse. Hai fatto tardi. Lui si mostrava calmo e dentro stava impazzando di felicità. Nel silenzio che gli era stato imposto, sorrideva di fronte alla calma di lei. E alla sua casa che aveva vissuto buia e fredda negli ultimi giorni, e che ora era il posto più caldo e luminoso della terra.

La tavola era splendida, due lunghe candele accese, la tovaglia buona, i fiori freschi. Suoni, profumi. E soprattutto Laura, dolce e viva, calda e sorridente. Il loro tenero silenzio consapevole, quello che li aveva cullati e protetti per quarant’anni, adesso gli pesava: avrebbe voluto urlare, cantare tutta la sua felicità. Ma doveva rispettare la consegna del vecchio: non avrebbe sopportato di veder dissolvere quello spettacolo tanto amato.


Mangiarono, si sorrisero. Parlarono anche, le solite cose, i figli, i nipoti. La casa. Laura gli parlò di quello che aveva da fare, piccole dolci faccende domestiche. Lui cercò di nascondere le lacrime dietro un colpo di tosse. L’ora passò.

Quando ebbero finito di sparecchiare e lavare i piatti, fianco a fianco nel loro speciale, dolce silenzio pieno d’amore, lui si fermò e le prese la mano. Guardandola negli occhi, pieni di lacrime disperate i suoi, di sorpresa e curiosità quelli di lei. Si portò la mano alla bocca per un lungo bacio: capiva solo ora quanto gli fosse necessaria. E quanto fosse necessario che lei lo sapesse.


L’infermiere ai piedi del ponte guardava lo scomposto fagotto di stracci, illuminato dal lampeggiante dell’ambulanza. Qualcuno si era affacciato dalle finestre, incuriosito. L’uomo pensava che la notte di Natale era terribile, una calamità. E maledì ancora una volta i turni che, per avere il capodanno libero, lo costringevano a lavorare quella sera.

L’uomo a terra ebbe un piccolo tremito, stava morendo. Un piccolo colpo di tosse, doveva essere stato quello: perché all’infermiere pareva impossibile, che prima di smettere di respirare avesse sussurrato ti voglio bene.






Maurizio De Giovanni è nato a Napoli nel 1958. È autore di fortunatissime serie poliziesche tradotte in molti Paesi. Ha creato le serie bestseller del commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone. Per Rizzoli ha pubblicato Il resto della settimana (2015), I guardiani (2017), Sara al tramonto (2018) e Le parole di Sara (2019). Dodici rose a settembre (2019) è stato edito da Sellerio.

Con Il pianto dell’alba (Einaudi 2019) il romanzo con protagonista il commissario Ricciardi, De Giovanni chiude la serie che lo ha fatto conoscere al grande pubblico.

Nozze per i Bastardi di Pizzofalcone (Einaudi) è il suo ultimo romanzo.


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