top of page
  • Immagine del redattoreRedazione TheMeltinPop

Ti rubo la vita: storia di identità perdute, rubate, ritrovate

di Goffredo Feretto



Non è facile per uno come me che si definisce – mi si perdoni l’espressione – “lettore professionista” restare tanto sedotto da un libro come mi è recentemente capitato leggendo il romanzo “Ti rubo la vita” di Cinzia Leone.

Da quando è cominciato il periodo della chiusura totale a causa del Covid fino a luglio, ho letto decine di volumi, ma per nessuno è accaduto che vedessi con rammarico che, ora dopo ora, la pagina finale si stava avvicinando.

Su questo romanzo si è scritto e detto molto, prima di tutto che è un grande libro d’avventura e che si legge come tutti noi, o quasi, abbiamo letto “Il conte di Montecristo” di Dumas, trascinati da una trama affascinante, da personaggi dipinti a colori forti. E’ senz’altro vero.

Vorrei, tuttavia, fare qui alcune considerazioni del tutto personali che chi avrà la pazienza di leggermi fino in fondo potrà condividere oppure no


Prima di tutto vorrei soffermarmi sullo stile e sulla lingua. L’italiano della Leone è limpido ed efficace, “alto” senza compiacimenti. Il suo stile è scorrevole senza facilonerie, sempre elegante, sempre funzionale alla storia raccontata. Senza esibizioni, ma anche senza cedimenti alle mode imperanti.

Ma veniamo alle mie osservazioni.

A mio parere, i temi principali del romanzo sono tre: l’ebraismo o, meglio, l’appartenenza al popolo ebraico, l’identità e l’amore.

Il primo tema innerva tutto il testo. In particolare voglio richiamare l’attenzione su alcune pagine che mi paiono molto significative.


Siamo nel 1936, a Istanbul. Uno degli attori principali della storia, Ibrahim, si trova seduto su una panchina davanti alla sinagoga di Arhida: osserva la gente. Fra loro molti ebrei: Askenaziti biondi con lunghe barbe, Sefarditi dalla pelle ambrata con indosso palandrane ricamate, ma anche ebrei in ogni cosa simili alla folla che li circonda. Eppure tutti hanno qualche cosa in comune: “riserbo e dolcezza, misticismo e senso pratico, rigore corretto da un pizzico di follia e attenzione ai dettagli più insignificanti. E una straordinaria capacità di mediare attraverso la parola”. In ogni occasione – risolvere una contesa, concludere un affare, interpretare un passo del Talmud, celebrare un matrimonio o un funerale – “utilizzavano sempre e solo le parole”.

Le parole: “le usavano come giocolieri, erano la loro cassetta degli attrezzi, la loro medicina e il loro grimaldello (...). Gli ebrei si fidavano solo delle parole”.

Nella tradizione ebraica la parola ha un posto di primissimo piano, basti pensare alla gematria uno dei metodi usati dalla cabbala per derivare dal valore numerico di un vocabolo significati occulti.

In questo caso, e in molti altri, Cinzia Leoni mette in luce caratteristiche essenziali del popolo ebraico, un popolo – bisogna ricordarlo – cui si appartiene comunque per il solo fatto di essere nati da una madre ebrea. Lo si voglia o no. Si può rinnegare la propria origine, ma non si può scrollarsela di dosso: mai. Soprattutto, non si può ricusare una cultura millenaria che, volente o nolente, intride di sé ogni ebreo.

Molto ci sarebbe da dire in merito, ma devo necessariamente limitarmi a queste poche righe.


Un secondo tema che risulta evidentissimo in tutto il romanzo è quello dell’identità.

Ma che cosa è l’identità (della quale oggi si parla a sproposito)?

Possiamo dire che essa è il senso e la consapevolezza di sé come entità distinta dalle altre e continua nel tempo; il che coinvolge le idee di popolo, famiglia, cultura, classe sociale.

Non svelo nulla di inopportuno se dico che fin dalle primissime pagine del libro incontriamo un “furto di identità”.

Dopo un prologo, brevissimo e di rara potenza, nel quale si narra della famiglia di un facoltoso commerciante ebreo di nome Avrahàm Azoulay che viene trucidata da fanatici islamisti nella città di Giaffa, l’attenzione si sposta subito su una seconda famiglia, turca di religione musulmana, che abita al piano superiore di quella del defunto.

Il padre turco è socio di minoranza del ricco ebreo e, pur nella concitazione dei fatti accaduti, non resiste alla tentazione di appropriarsi di tutti i documenti relativi ai remunerativi contratti stipulati dal morto. Come fare a subentrare nella titolarietà di quel cospicuo tesoro? Semplice: sostituendosi ad Avrahàm, assumendone – appunto – l’identità. Un progetto semplicissimo a dirsi, difficilissimo a realizzarsi. Il turco lo sa, ma decide di cimentarsi egualmente nel “folle volo”.

In tale follia coinvolge la moglie Miriam e la figlia Havah.

Questo gesto genera tutta la storia raccontata da Cinzia Leone. Ma non posso aggiungere altro, pena l’ira dei lettori.


L’identità, dunque. Nel corso del romanzo, i casi di doppia identità sono più di uno.

In alcuni, la duplicità ha conseguenze devastanti, in altri la convivenza tra due personalità diverse, due diverse culture, due appartenenze è possibile, sebbene spesso penosa. Di una delle protagoniste principali del libro, l’autrice ci dice: “Il destino di Esther era essere due in uno, sempre e comunque”.

Dimenticavo, colpevolmente, di sottolineare come il romanzo sia tutto, per così dire, “in chiave femminile”, giacché segue le vicende di tre donne, Miriam, Giuditta ed Esther cui, non per niente, sono intitolate le tre parti del libro.

C’è una frase, secondo me, che la dice lunga in proposito: “I figli sono delle madri, da loro succhiano latte e parole...”: latte e parole, molto e ebraico. Le parole sono alimento essenziale come il latte materno.


Il terzo tema è l’amore. Tutto il libro, infatti, può essere letto come una grande storia d’amore. Ma è anche molto di più.

Ci sono alcune pagine – tra le altre - molto eloquenti.

Siamo nel 1951. Due giovani si trovano in Israele, nel kibbutz di Hanita, dove hanno scelto di vivere provenendo dall’Europa. In quel luogo l’esistenza è molto dura, basata su regole rigide e dove la proprietà è collettiva: persino i figli sono allevati in comune. Se la comunità ha bisogno d’un ortolano, anche se al tuo paese eri professore di filologia, sarai ortolano.

La ragazza, per seguire l’uomo di cui è innamorata, ha abbandonato una condizione privilegiata di grande ricchezza.

Incontriamo i due nella loro stanza. Lei è nuda, ha i capelli bagnati. Senza esitazione impugna le forbici e taglia di netto una prima ciocca, cui seguono le altre. E’ il segno della rinuncia definitiva, la scelta di tagliare, insieme con i capelli, ogni ponte dietro di sé.

Accanto ad Havah il suo compagno: è a torso nudo, “allungato su una delle due brande che, insieme a un tavolo e a una corda con sopra appesi pochi abiti, costituiscono tutto l’arredamento della stanza”.

Dopo un breve dialogo circa la difficoltà di poter leggere giornali recenti, “Yaacov tentò di afferrarla ma mancò la presa. Poi con un balzo riuscì ad acciuffarla e la trascinò sopra di sé. La branda s’incurvò sotto le spinte di una lotta che si trasformò rapidamente in qualcosa di diverso”. La scena è intensamente erotica, ma l’autrice non ha bisogno di scendere in particolari, come farebbe la maggior parte degli scrittori di oggi, consapevoli che le scene di sesso fanno aumentare le vendite.

“Yaacov e Havah pensarono nello stesso istante, ma senza avere il coraggio di confessarselo, che possedevano tutto ciò di cui avevano bisogno”.

La donna guarda il suo uomo: “E’ bello come il sole, è carne della mia carne”. Richiamo, di sfuggita, l’attenzione sul fatto che Havah usa un’espressione biblica.

L’incontro si conclude con un pensiero di lei: “Lo strappo della fuga da Basilea le era bastato per avere la certezza che era suo per sempre”.


librimondadori.it

Il grande amore, dunque, e l’amore per sempre, l’amore romantico.

La realtà, però, sarà diversa. Basta andare avanti nella lettura per imbatterci in una considerazione di ben altro tono: “La carne acceca e confonde, ricatta e ossessiona. Si prende a forza la felicità dell’istante senza saperla custodire. La carne è pronta a tradire, perché come il dolore non ha memoria se non di se stessa”.

L’amore, in ogni modo, domina moltissime pagine del romanzo: ne ho citato solo alcune.

Ma che cosa ne pensa l’autrice stessa?

Azzardo un’ipotesi: il pensiero di Cinzia Leone lo troviamo espresso dalle labbra di un personaggio apparentemente minore, ma, a mio parere, di assoluto rilievo: Jakub Bielski.

Questi è un “omino pelato con una barbetta bianca e occhi guizzanti dietro spesse lenti da miope incorniciate da una montatura di metallo”.

Alle spalle ha una storia da una parte molto dolorosa essendo ebreo polacco che ha vissuto l’orrore della persecuzione nazista, dall’altra addirittura “miracolosa” poiché ha incontrato casualmente su una spiaggia in Israele Edna la donna di cui era innamorato prima che la guerra li dividesse. Ora, nel 1992, vive a Giaffa e commercia in macchine da scrivere d’epoca.

Esther lo incontra nella sua bottega. Lo sguardo della donna è attirato da “uno strano oggetto seminascosto: una mano di ceramica a grandezza naturale, con dita sottili e affusolate e unghie dipinte di un rosso acceso, montata su un supporto dorato”.

Si tratta della riproduzione della mano di Edna. Prima le mani di ceramica erano due, poi una era stata rubata da un bullo che Jakub ha perdonato, arrivando al punto di regalargliela, giacché voleva offrila alla fidanzata per chiederla in sposa.

Edna è morta da sei anni ma “Il Signore prende il Signore dà. Ogni carezza di mia moglie è impressa nel mio cuore”, dice il vecchio.

Poiché Esther somiglia molto alla defunta e ne ha la stessa andatura “Vederla, per un istante, mi ha restituito mia moglie”. E’ così che anche la mano rimanente lascia la bottega di Jakub avvolta nella carta velina: “E’ deciso, gliela regalo!... Purché prometta di continuare a camminare ondeggiando. Quell’andatura è musica per gli occhi e il cuore di un uomo”.

Esther è commossa e lo abbraccia.

A questo punto Jakub pronuncia la frase che, a mio avviso, rispecchia il pensiero dell’autrice e che costituisce il senso più profondo di tutta una narrazione percorsa da una densa spiritualità: “Imparate a prendere e a dare finché siete in vita. Il resto è polvere”.

Goffredo Feretto è direttore editoriale di Internòs Edizioni.

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page