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Reportage dal Pronto Soccorso del San Martino

che racconta fatti vissuti tra il pomeriggio del sabato 6 e l’alba di lunedì 8 aprile 2024



Foto di Andrea Acquarone

di Andrea Acquarone


M’ha punto una zecca in un posto sconveniente, me la tolgo, ma dopo qualche giorno: rossore, gonfiore, ghiandole ingrossate. “Vatti a far vedere”. L’ultima volta al Pronto Soccorso a Genova sarà stata quindici anni fa, una caduta in vespa. Vivo a Barcellona ormai da un po’ e in testa ho le Urgencies catalane, che sono luoghi lindi, luminosi, stai poco e non vedi altri pazienti. Così che lo scontro con la realtà sanitaria cittadina, di cui pure avevo letto – ma diverso è toccare con mano – ha messo in moto quel meccanismo automatico che attacca gli scrittori: annotare. Quanto segue è il resoconto fedele, il più preciso possibile, di quel che m’è capitato vivere.


Arrivo al San Martino alle 17.32; è sabato. La porta è chiusa. Due o tre persone chiacchierano in un casottino che regola gli accessi, devi dirgli perché vuoi entrare. Molti pensano sia il triage, così spiegano i malanni, si forma un po’ di coda; la struttura è anni ‘80, tipo grande cabina telefonica SIP. Mi danno una mascherina azzurra, aprono, vado verso l’accettazione. Sono le 17.36.

Una del personale sanitario ci invita a “sederci un po’ più in là”, non ne colgo la ragione. Ci sono certe logiche nelle strutture che chi le vive quotidianamente domina e interpreta, ma che sfuggono al visitatore occasionale; Kafka ci ha costruito sopra una poetica immortale. Non è mai bello quando si inizia ad avere quella sensazione; uno la reprime come può.


Al triage, ad ogni modo, non c’è nessuno. In coda in quel momento siamo in tre, in ordine di accesso: una signora col marito, vittima di una storta (si saprà dopo che aveva un osso rotto); il sottoscritto e la sua zecca; una ragazza sudamericana che ha avuto un’incidente in macchina a Davagna: le fa male la cassa toracica. Alle 17.42 chiedo a qualcuno del personale ausiliario se è normale che la postazione del triage sia vuota, e mi dicono di sì: “si vede che c’è qualcosa di più importante, in questo momento”.

Intanto, dalla panchetta la vista si apre alla corsia: cosce, barelle, flebo, voci. Arriva una signora dai capelli scuri (tinti), chiede chi è l’ultimo. Le spiego che ci sono io e poi la sudamericana (la situazione si è sbloccata e la signora della storta è entrata a raccontare). La donna bruna ci dice che non riesce a muovere la bocca: “stavo girando il caffè, e sono rimasta così, vede?”. Vedo. Mi consulto con la ragazza sudamericana e decidiamo di farla passare avanti. Visto che l’attesa si allunga, la ragazza trova una presa per caricare il telefonino, un infermiere passa e fa quello che chiude un occhio: lei il telefonino lo può caricare perché lui, in quel momento rappresentante dello Stato, glielo concede, ma a rigore non potrebbe. O almeno, così lascia intendere.


Infine arriva il mio turno, mi assegnano un codice verde e mi avvio con una vaga indicazione verso la sala d’attesa. Passo oltre diversi cartelli di “divieto di accesso”, “solo codice rosso”, anche in inglese, frutto di un’organizzazione e un disegno non più attuali, travolti dagli eventi; la mia entrata coincide con l’inizio dell’orario di visita. In corsia ci sono così decine e decine di persone, forse più di cento: pazienti e parenti, camici verdi, bianchi, tutti insieme. Mi perdo, travolto da un fiume umano che sotto luci giallastre si muove in corridoi pieni di barelle; passo anche io tra corpi con lesioni, lividi, tumefazioni; carni bianche, facce devastate, voci cavernose segnate dalla vecchiaia e dalla malattia: nessuna tendina, nessun riserbo. Chiedo altre informazioni e raggiungo la saletta. Sono le 18.02.


Vero, l’ospedale non è un luogo di piacere, ma il Pronto Soccorso del San Martino questo sabato è un viaggio nel dolore; bisogna avere un cuore assai indurito, altrimenti è impossibile non cadere in uno stato di profonda prostrazione. Scrivo a mia moglie, che è a Barcellona con le bimbe: “È indescrivibile. Da dove sono seduto vedo almeno quaranta malati in barella, alcuni gravi, altri no, tutto mischiato, non si capisce niente. Gente che sta in questi corridoi diversi giorni, perché i visitatori gli portano la biancheria, come in una degenza prolungata. Sembra San Pedro Sula”.


La sala d’attesa di noi non barellati, potrei descriverla: quattro metri per quattro, tre in altezza. Piastrelle marroni al pavimento, neon fortissimi al soffitto, pareti bianche coperte da un lambrino di linoleum grigetto striato, che dovrebbe richiamare il marmo; diversi buchi al muro eredità di installazioni rimosse; qualche macchia; un bidoncino della spazzatura; un totem con materiale informativo; una pompa di calore spenta; quattro panchette blu elettrico da tre posti l’una; diversi quadri elettrici giallognoli e altre prese più moderne; in un angolo un lavandino a muro il cui montaggio si è lascato, con distributore di sapone finito; la carta invece c’è. Un attaccapanni minimale. La finestra è aperta, su iniziativa dei pazienti – magari è vietato – e dal cortile entra un rumore sordo ma forte, un ronzio perpetuo da impianti di condizionamento marci. L’unica cosa nuova, “bianca”, è il cartello che spiega i criteri dei codici rosso, arancione, eccetera, in diverse lingue. L’impressione che dà è quella di un potere lontano, del suo sforzo velleitario, del suo ignorare la situazione sul campo.


Così si aspetta. In questo spazio che ha tutto quel che deve avere, ma al tempo stesso trasmette uno squallore da socialismo reale, si creano dei dialoghi, vive l’umanità. Ognuno porta il suo dolore in mano, letteralmente. Noi siamo i non gravi; un ragazzo cui una spalla “è uscita”, una signora albanese con un grande dolore alla schiena, la donna della storta, un giovane corpulento che non ho capito che problema avesse, ma loquace. Ci si racconta. I motivi per cui si è qua, l’ora di entrata, le esperienze; si passa alla “politica”; ascolto. “I soldi per le armi li hanno, per la sanità no, poi questo è il risultato”. Il rimorso lo fa da padrone, “perché siamo venuti, “solo se stai morendo!”, “ma ormai siamo qua”, “mai più”.


Mi alzo, vado in bagno, cerco di capire “come gira”. Ma è una logica impenetrabile. Uno non può non avere la sensazione di essere dimenticato. Una coppia di signori carinissimi, parlano in genovese.Chì ti gh’æ e miande, t’aveiva portou a blosa, ma ò visto che ti gh’æ quello giacchetto lie”. Il ricoverato è lui. Lei porta quelle scarpe che usava anche mia nonna. Cerca una presa per caricargli il telefono, non la trova, le lascio la mia. Dico una battuta in genovese. La signora si rivolge al marito: “mia sto foento che gentî, o t’â lascia”. Anche altri parlano in genovese, fa piacere: si sarebbe potuto salvare, negli anni ’80-’90, quando era il momento.


Si sentono grida disperate, gutturali: “Infermiera!”. È una signora. Quelli del personale si mettono le mani sulla fronte: “riattacca”. E lei: “muoio”. Corpi, flebo, sacchetti di urina estratta de vesciche sfinite. Immagini di morte in agguato. La donna grida; gli infermieri ridacchiano: “è un’aquila”. Un’altra chiede ripetutamente da bere. Penso a quanto si riesca a normalizzare. La donna grida ancora: “dov’è la ragazza che porta la frutta?”. Ma non stava morendo? Insomma.


Intanto sono le 19.30, la luce scema, i volti si fanno più stanchi. Una signora si rifiuta di andare in bagno, perché non c’è separazione tra donne e uomini. Cerco di parlare con qualcuno in camice, osservo i movimenti degli altri pazienti: il problema per quelli che hanno questioni ortopediche è che l’attesa tra le lastre e i risultati è lunga ore; e i traumi si sa, dolgono. Allora chi è più intraprendente cerca un’infermiera più gentile, gli spiega il suo caso, quella risponde che “vedrà se potrà fare qualcosa”. Torna dopo qualche minuto, ha sbirciato la cartella, espone il responso. I risultati quindi ci sono, ma non vengono comunicati. La signora della storta prova a muoversi in questo senso, e ottiene un riscontro ufficioso: c’è frattura.


Verso le 20 viene gridato che l’orario di visita è finito; dopo una decina di minuti il concetto è ribadito da una voce più decisa. Intorno alle otto e mezza restano solo i malati; chi lavora al Pronto Soccorso a volte è scostante, ma anche il pubblico non scherza. È un si salvi chi può. Nei corridoi diversi cartelli ricordano che parlare male o insultare il personale sanitario è passibile di conseguenze penali. Deve succedere spesso, perché l’attesa e la sofferenza sollecitano i nervi.

Dopo tre ore domando a un infermiere se è normale; mi chiede che codice sono; con me è la signora della storta che attende ancora il gesso: siamo entrambi “verdi”. L’infermiere dice: “signori, abbiamo cento-centocinquanta persone, ne entrano di morenti, capirete che il vostro caso non è urgente, verrete visti, ma coi tempi giusti”. I tempi giusti. Mi rimane in testa: “i tempi giusti”. Capisco l’infermiere, la sua logica, la sua quotidianità. Ma mi fa enormemente tristezza pensare che lui abbia interiorizzato che tre ore almeno di attesa per un piede rotto siano “tempi giusti”.


Si salvi chi può. Una signora in visita poco prima di uscire si raccomanda: lei è amica (o millanta) di un primario, di un qualcuno. Parla come se questo santo in paradiso dovesse essere per forza conosciuto. Il suo parente-paziente viene dunque fatto passare. Lei si smanica, “dai che ti prendono, muoviti, su”. La signora albanese dentro dalle tre si lamenta, ma ha molta forza; ormai sono le nove, è entrata alle tre. Come in ogni situazione italiana, non possono mancare gli sbirri: è sparito un telefonino, anzi due. Nelle visite si vede che entrano dei ladri. “È sempre così”. Verso le dieci e mezza parlo con un’infermiera simpatica, mi dice che per un caso come il mio è possibile che aspetti ancora molto; così dopo quattro ore desisto. Mia moglie mi scrive: “ma qualcuno deve dirti se devi prendere o no l’antibiotico”. Rispondo: “tornerò domani con cibo, acqua e il computer per lavorare; bisogna essere preparati”.  Andando a casa con la vespa passo in una via che percorrevo con mia madre da bambino; l’odore dei gelsomini di Albaro nelle notti primaverili. Penso che è tanto bella Genova, e che peccato.


Dormo, ma al mattino il gonfiore è peggio che alla sera; faccio dunque colazione, mi preparo e torno al Pronto. Entro alle 10.30, raggiungo la “stanzina blu” (la chiamano così per via delle panche), mi metto a scrivere. Di fronte a me due signore, una con una ciste alla mano, la aveva da anni ma le si è ingrossata nella notte, l’altra un trauma alla spalla. Inizia lo stesso discorso, con diversi interpreti: “come è finito in basso il sistema sanitario”, “un tempo quando capitava di andare”, “si figuri che una volta”. Penso all’impotenza, ma anche all’incapacità di spostare quella terza plurale metafisica (“non fanno niente”: ma non “fanno” chi?) verso una prima plurale, ovvero immaginarsi, anche solo per un attimo, di essere un attore collettivo di cambiamento. Almeno io posso scrivere queste cose, mi illudo, ma chi è senza voce?


Anche nei corridoi è uguale al giorno prima: barelle, lamenti, dolore. Tutto in vista come in una rappresentazione straziante ed oscena. L’unica dolcezza è affidata a una madonnetta, che da sopra un altarino veglia e consola chi ci crede. Mi astraggo completamente nella scrittura. Verso l’una mangio il polpettone, un po’ insipido, comprato prima al forno; un paio di volte esco a fumare e lascio detto alle signore che se per caso chiamassero “Acquarone”, sono in bagno e torno subito. Ma è uno scrupolo, non succede.

Alle quattro e mezza finisco quanto m’ero proposto, e inizio a patire l’attesa. Sono dentro da cinque ore e mezza, indolenzito; da stanco passo a irrequieto. La signora con l’ascesso alla mano l’hanno chiamata, era entrata poco prima di me, così verso le cinque chiedo a un’infermiera se può controllare quante persone ho davanti, se c’è un modo per saperlo. Non ci sarebbe, mi dice, ma vede cosa può fare. Dopo poco torna col responso, sono dodici, e considerando che nel frattempo arrivano anche dei codici rossi, vuol dire alcune ore. Bandiera bianca: sarò un debole, ma non ne posso più; desisto un’altra volta. Cerco di convincermi che guarirò.  


È una domenica di sole, gli amici hanno pranzato insieme a Nervi, ora stanno rincasando; prendo la vespa e vado a Nervi anch’io, come a cercare di acciuffare qualcosa di quelle belle ore non vissute. Mangio un pinguino e un pezzo di focaccia seduto su un gradino. Guardo le persone intorno, discreto come un gatto, pensando a come fanno a sorridere sapendo che in città c’è quell’inferno; come si fa ad esser orgogliosi della focaccia nel cappuccino se poi esiste quello.

Ma non sto niente bene, torno a casa. Mi ispeziono il punto dolente e scopro con orrore che il gonfiore è aumentato, le ghiandole fanno un bugno; da solo in bagno mi sento Don Rodrigo di ritorno dalla cena. Ansia. Idea: la Guardia Medica. Chiamo, mi dicono che dovrei tornare in ospedale, ma mandano ugualmente un medico: “valuterà con lui”. Che in realtà è una lei e arriva dopo poco, ribadendo il parere espresso per telefono: “bisogna che la veda uno specialista. Se non ha voglia di andare al Pronto Soccorso, può farlo privatamente”. Il ché è già un’indicazione; se siamo certi che abbiamo individuato lo specialista necessario, mi rassegno e pago. Così prenoto per l’indomani alle 13.15 in una struttura privata e mi metto il cuore in pace; informo amici e parenti che la cosa si è risolta. Mia madre scherza: “ha da passà a nuttata. Lì per lì fa sorridere, ma dopo poco mi vengono brividi e mal di testa. Avrò la febbre? Trentasette e due. Pazienza, passerà. È l’ora del tramonto, un filo di luce entra in stanza e accompagna dolcemente lo spegnersi di una domenica perduta. L’ideale sarebbe dormire fino a domani. “Una bella dormita”, quelle speranze da contadini, “e poi stai meglio”.


Ma come Don Rodrigo, mi rigiro, ho freddo e caldo insieme; rimisuro: trentotto e mezzo. Prendo una tachipirina e mi corico di nuovo, cerco di distrarmi. Vengono le dieci, è passata un’ora e mezza, misuro ancora : trentotto e tre. Non scende. Parlo al telefono con mia moglie, ragioniamo che se quando finisce l’effetto sale a quaranta e sono in casa solo non è per niente bello. “Devi tornare in ospedale”. Le spiego che forse non mi vedranno prima della visita prenotata l’indomani. “È come essere in una città africana, praticamente”, dice con incredulità barcellonese. Ad ogni modo, adesso in vespa non mi sento. “Chiama l’ambulanza”. Davvero? “Se no il taxi”. Non so se ne avessi diritto, ma l’ho fatto. Così torno al San Martino, terza volta, ora di ingresso 23.21, però adesso in grande stile: da barellato. Nessuno si impressiona: codice verde e ripartiamo dal via.


Vengo parcheggiato in uno slargo assieme a una ventina di persone. Un tempo si aveva diritto a un accompagnatore, adesso i pazienti sono soli. E certi, un po’ spaesati. Alcuni, sostanzialmente, delirano. E siccome siamo tutti insieme, come dopo un terremoto, il delirio lo viviamo tutti. Il signore a fianco a me, ad esempio, si chiama Giorgio B. e parla con sua moglie Rita, che non c’è. Povero signore: gli hanno legato le mani perché ha il catetere e altrimenti si vede che lo tocca e finisce a farsi male. Non è lucido ma facondo; dice: “Rita, vai un po’ a prendere le forbici, nel cassetto, così vediamo di levare sta roba, che non riesco a muovermi”. Rita però non può fare granché. E allora Giorgio passa tutti gli stati d’animo, dalla supplica (“sei mia moglie, siamo stati insieme una vita, ti sto chiedendo solo una cortesia”) alla rabbia, alla disperazione. Ma si vede che il signor B. è una persona pragmatica, non si lascia scoraggiare, cerca una soluzione. Nel delirio della vecchiaia e del morbo, vuole liberarsi dai lacci, pensa solo a quello. Prova a convincere le infermiere (“signorina, lei che è così in gamba, me la farebbe una cortesia?”), a un certo punto chiede a me, “giovane, lei che può muoversi”. Così capisco ed empatizzo col personale ausiliario, perché mi trovo a far come loro, ossia finta di niente. Che è una cosa disumana, ma altrimenti si viene trascinati nella follia. A volte il delirio prende cammini inaspettati, tipo che ci vorrebbe un giradischi, “che ognuno ci mette il suo disco, e siamo tutti contenti”. Non è sgradevole, ma molto persistente. Il signor Giorgio ha una voce familiare, forse quella che potrebbe avere mio padre alla sua età. Un brivido mi coglie nell’immaginarmi papà anziano, delirante e legato: ma la città prevede questo, se uno si trova in quella condizione.


Ad ogni modo il vicino non è l’unico a manifestarsi; c’è un altro che ogni dieci-quindici minuti grida, con certa flemma e molta rassegnazione, “aiuto!”. Più triste il caso di una signora, dentro per una scivolata. “Signorina, gentilmente, dovrei andare in bagno”. Gli anziani sono educatissimi, anche in queste ore estreme. È tutto una “cortesia”, un “per favore”, un “sia gentile”. E insomma questa signora chiede per piacere se può andare a fare pipì. “No cara, che se mi cade la responsabilità è mia; le porto la padella, oppure le metto il pannolone”. La signora inorridisce; prova a difendersi  e ad argomentare, che non è una che cade, che è solo scivolata, e che lì davanti a tutti si vergogna, ma la caposala non ne vuol sentire. Il portantino cerca di mediare, che l’accompagna lui, ma lei impone la sua autorità. Un vicino di barella, coetaneo della disgraziata, prova a suggerire: non potete magari portare la signora un momento in un angolo più appartato? Ma il Pronto Soccorso “non è un albergo”. Così procedono alla pannolonizzazione. “Ma non l’ho mai messo”. “E c’è sempre una prima volta, cara”. “Ma perché siete così cattivi?”.


Dunque al dramma di Rita e delle forbici, a chi grida “aiuto!”, al solito che domanda acqua, si aggiunge quello della signora che non se la vuol fare addosso e, in bilico tra lucidità e delirio, non smette di chiedere se la portano in bagno, per cortesia. In questo mentre vengono a spostarmi: “dove mi portate?”. Non sia mai che il dottore mi veda. Finisco in un corridoio meno frequentato: “hai fatto colpo sulla caposala. Ha detto: quel bel ragazzo lì, mettilo in un posto un po’ più tranquillo”. Sorrido ma penso all’arbitrarietà del tutto. Ad ogni modo, è vero che non sono più in mezzo al circo, però sentire sento, e posso seguire l’evoluzione delle vicende. Il signor Giorgio è riuscito a liberarsi da una mano, e fatalmente s’è staccato il catetere, così viene legato nuovamente. Inizia da capo: “giovane, lei che è così alto, mi aiuti un po’. Mia moglie non ha voluto portare le forbici, sa, aveva paura di sporcarsi il vestito”. E povera Rita. Ma poveri tutti. Non ultima la signora. “Per cortesia dovrei andare in bagno”. Viene straccionata dalla caposala, quella su cui ho fatto colpo: “signora, mi sta facendo arrabbiare: ha il pannolone! Se deve fare pipì, la fa lì. Sta svegliando tutti”. Ma quella non demorde.


Vado in bagno, io che posso, e ripasso per i luoghi del giorno: è un tetris di barelle, di gemiti, di umanità dolente. Di ritorno origlio un dialogo: “e poi c’è uno che ha un zecca, giusto?”. Mi elettrizzo: “sono io!”. Sorridono: “stiamo facendo un briefing”. “Posso chiedere quando mi vedranno?”. “Prima dell’alba”.

Arriva un ubriaco, poi un possibile infartuato: il posto nuovo è più isolato, ma con vista sull’ingresso, e sempre in dolby surround. “Rita”, “aiuto”, “acqua”, “pipì”. Inaspettatamente la signora ce la fa: la caposala per disperazione le concede il permesso, il barelliere è contento di spingere la sedia a rotelle, e dopo poco tornano: “che siate benedetti tutti!”. “Adesso dorma, signora”. È incredibile come possa la dignità svanire in una notte.


Esco a fumare, tanto devo far passare il tempo, e se la signora ha risolto, gli altri persistono; in ultimo è giunta una donna che vomita in continuo, e poi le tossi, i rantoli, i bip degli strumenti. Per dormire bisogna essere un professionista. Chiacchiero con un barelliere anziano, gli chiedo se è sempre così. Mi dice: “Galliera e Scassi, appena hanno un po’ di sovraccarico, chiudono baracca. Noi non mandiamo via nessuno; prendiamo tutti, noi. Però da noi– e rivolgendosi alle corsie fa un gesto con la mano, come il contadino indicando i campi – da noi però è così”. Grande carisma. Constato comunque che non ho più la febbre, o molta meno. Forse va meglio! Libero dal mal di testa, attacco a leggere i giornali sul telefono, sono uscite le edizioni del mattino, finché verso le cinque sento gridare il mio cognome, mai suonato così dolce. In sala visite un medico arabo sulla cinquantina e due specializzandi italici sono un’immagine di redenzione; il dottore non domina la lingua ma sì, sembra, l’arte sua, ed è gioviale. Mi tasta. Si rivolge agli studenti: “Vedi? Non c’è la formazione. È gonfio, ma non ha la formazione”, e poi a me il responso: “Sei fortunato, non ha fatto la malattia”. Contento, un po’ sorpreso, chiedo: “ma che malattia?”. “La malattia! Non ha fatto la malattia, dunque non c’è febbre!”. Capisco che “la malattia” è l’infezione.

Sono fortunato. E se in tutte queste ore l’avesse fatta, la malattia? Ma chi se ne importa! Hai sentito cosa ha detto il dottore? Posso andare a casa; il referto segna l’ora: 05.02.


Fantastico sarebbe trovare un forno aperto. Sono ancora dolente, ma non ho “fatto la malattia”. Me lo ripeto. E mi scopro anche a pensare, rivolgendomi – come si fa nella stanzina blu durante l’ora delle conversazioni politiche – al famoso “loro” metafisico: “devono fare qualcosa!”. Lo dico silentemente con lo stesso animo del delirio più lucido del signor Giorgio, quando con la persuasione cercava di convincere sua moglie: “Rita, se mi porti quelle forbici, tagliamo lì in basso che viene via più facilmente. Fatto quello, abbiamo aggiustato metà della situazione; tutta ormai ho paura che non la si recupera più…”.     

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