di Miriam Sassani
Avete mai guardato le cipolle soffriggere? Quelle stesse cipolle che vi hanno fatto piangere mentre le affettavate ed ora si dorano lentamente, quasi indolenti, nell'olio bollente? Io ci ho fatto caso stamattina, mentre preparavo il ragù, quello napoletano che deve bollire per ore. Ho pensato alle cipolle che si trasformano, che da bianche diventano color oro, quasi a significare che il cambiamento, anche se doloroso, rende migliori. Lo so, non sono in grado di fare grandi ragionamenti filosofici dalla mia cucina, dal mio regno, però certi pensieri arrivano così, senza grossi sforzi. Come la mia riflessione, appunto, sulle cipolle.
Del resto, non ho granché su cui filosofeggiare: praticamente vivo in cucina, non ne esco mai se non per andare in bagno, ci dormo anche, su una poltrona con lo schienale reclinabile. Non ne esco, vediamo...si, da almeno un paio d'anni, dal primo lockdown dovuto alla pandemia. All'inizio è stata dura, ma adesso perché dovrei uscirne? Sto così bene qui dentro, protetta come in un ventre materno, abbracciata dal mio adipe, cucino praticamente sempre, mentre in sottofondo la tv mi fa compagnia. Cucino, ma soprattutto sperimento.
Ecco, potrei definirmi come una ricercatrice, una scienziata del gusto che studia quotidianamente i vari accostamenti, le deviazioni fantasiose dalle ricette tradizionali, i vini da abbinare, il conteggio delle calorie per ogni boccone, i risultati che darebbero le analisi mediche dopo aver mangiato un determinato cibo.
In questo periodo, poi, raggiungo il top, arrivo alle vette della degustazione, stimolo le papille gustative fino ad arrivare al piacere supremo del sapore, in questo periodo sublimo il mio non essere nella preparazione del menù di Natale.
Mio marito e i miei figli all'inizio erano molto contenti di mangiare prelibatezze tutti i giorni, erano entusiasti del fatto che mentre gli altri mangiavano pasta al pomodoro, loro si nutrivano di pietanze degne dei più sofisticati gourmet. Ora invece sono molto preoccupati: per me ovviamente, perché non esco più. Ma io sto bene così. Prima - oddio mi sembra un secolo fa - ero un medico affermato e benvoluto della mia città, professionale e disponibile, un medico di base come ai vecchi tempi, un vero medico di famiglia, custode delle vite degli altri, sia sotto il profilo sanitario che sotto quello privato. Correvo sempre, ovunque mi chiamassero e a qualsiasi ora.
Durante il lockdown mi sono fermata, ho avuto paura. No, non del virus. Ho avuto paura della gente e della sua trasformazione, della sua totale perdita di umanità. Ho avuto paura delle bestie feroci, delle esecuzioni capitali sui social, delle persone che mi circondavano chiedendomi le cose più assurde, le prescrizioni più improbabili e i consigli sulle questioni più intime. Non ce l'ho fatta, mi sono spezzata. Si è infranta quella parte di me che mi consentiva di farmi scivolare i problemi addosso, che mi permetteva di essere empatica quanto bastava e al tempo stesso di mantenere la giusta distanza dai problemi altrui: in pratica, si è frantumata la mia capacità di relazione, è venuto meno lo spessore del cuore mitigato dal rigore della mente. Da allora, tra me e gli altri un mare profondo e tempestoso, un abisso profondo che mi paralizza e blocca ogni possibile invasione, un lago ghiacciato impossibile da attraversare. In mezzo a questo inverno, ho smesso di soffrire le persone, ho smesso di soffrire le cose, non mi interessa più il possesso e tutto quel che ci definisce in seno alla società. Ho scelto il cibo e la sua preparazione come l'unica possibilità concreta di nutrire me stessa, di mettere da parte i fantasmi dei vuoti che si avvicendano sulla strada. Così, nel tempo di un pasto e della sua preparazione, riesco ad ignorarli, per poi ricominciare da capo.
Il cibo è diventato una forma di resistenza, intima e discreta, il cibo mi salva dai sensi di colpa, dalle incertezze, dai sogni mancati, dalle frustrazioni, dai silenzi ostinati e dai compromessi inevitabili. Ho scelto il cibo, con gli odori che entrano in tutte le stanze e che si aggrappano ai mobili, ai vestiti appesi negli armadi, che ricoprono le bomboniere inutili e che occupano spazi vitali. Ho scelto il cibo, per riuscire a cambiare la mia identità, senza dover rinunciare troppo a me stessa. Forse riuscirò a venir fuori da queste sbarre di burro, forse no. Forse riuscirò a recuperare il confronto con altro che non sia me stessa in questo girovagare perpetuo, apparentemente senza alcuno scopo. Ogni tanto, ma molto raramente, provo un po' di nostalgia per quella che ero e per gli affetti che avevo. Ma dura poco, il tempo di far dorare le cipolle.
Mi mancano le parole per dirti qualcosa. Se non la condivisione.
Cucini (per gli altri) e scrivi (per gli altri).
Non hai bisogno alcuno di venir fuori: ci sei già.
Al massimo, dalla cucina, che dopotutto non è un brutto posto, a cui anche tornare, talvolta, per un po'.