di Chiara Ferraris
La piazza, ora, è deserta. È accarezzata da una luce tenue, quella di un qualsiasi tramonto di maggio. Ogni tanto si alza uno sbuffo di vento e qualche foglio svolazza qui e là, per poi posarsi di nuovo a terra. Sono gli spartiti dei ragazzi, di sicuro.
Ne raccolgo uno: “Imagine”.
Già, avrei davvero immaginato, solo una settimana fa, che sarebbe capitata una cosa del genere?
Mi avvicino alla tastiera che troneggia in mezzo alla piazza, di fronte al palazzo della questura. Ne accarezzo i tasti. Qualcuno è ancora macchiato di inchiostro, ma sbiadito. È diventato tutto di un grigio tenue, il nero intenso che c’era all’inizio del concerto si è lentamente diluito sugli altri tasti, lo ha reso meno visibile, ma questo non vuol dire che lo abbia cancellato.
Sospiro e mi siedo sullo sgabellino. Converrebbe smontare tutto, penso, ma intanto continuo a starmene seduto con lo spartito tra le mani.
Io non lo so quale sia il vero nome di Babi. Il primo giorno di scuola, facendo l’appello, ho tentato di pronunciarlo. Dodici lettere in fila, consonanti tutte attaccate. Ho fatto la cosa che faccio sempre, in queste situazioni. Faccio un tentativo, poi guardo il diretto interessato, chiedo quanto ho sbagliato e infine propongo un diminutivo. Qualcosa che mi permetta di fare l’appello, che mi permetta di chiamare lo studente senza dover cercare il registro ogni volta, e che non metta a disagio nessuno, né me né, soprattutto, il mio alunno.
Non so se è proprio corretto così. Forse, dovrei impegnarmi di più, dedicare una buona mezz’ora al registro, tentare di imparare bene i cognomi più difficili. Ma poi, mi dico: ha davvero importanza? Quel nome e quel cognome mi dicono tutto, dei miei alunni? O sono solo un codice come un altro, che usiamo per rappresentare la realtà? E la realtà è così semplice?
Posso scovare qualche indizio, nell’elenco che mi trovo davanti ogni anno, ma è nel momento in cui alzo gli occhi dal registro che si dispiegano davanti a me esistenze ricolme di possibilità.
Nella 1A, la classe di Babi, ad esempio, c’è Luca Pittaluga. Se fossi andato avanti a leggere l’elenco dei nomi, in quella prima lezione di settembre, senza sollevare uno sguardo su di lui, che cosa ne avrei potuto pensare? Genovese, da generazioni. Avrà una parlata strascinata come tutti i genovesi, la còcina, userà espressioni come belin, prof, e mangerà focaccia a volontà.
Ebbene, Luca Pittaluga ha la còcina, dice belin, prof e mangia focaccia a volontà, ma Luca Pittaluga è nero come la pece. Luca Pittaluga è talmente nero che nell’aula video, durante la visione di un filmato, lo trovi solo per il bianco dei suoi denti. Già, perché Luca Pittaluga, nato in Costa d’Avorio, adottato appena nato da una coppia genovese, nero come la pece, sorride sempre.
E suona da dio.
Babi non suona da dio, invece. Ma le piace la tastiera.
In questa classe, in questa prima media, tutti amano la musica. Come in tutte le classi, del resto. Per cui, quando inizia il ciclo delle medie, la prima volta che vedono me, il loro prof di musica, sono esaltati. Pensano che faremo cose mirabolanti, vogliono attaccarsi agli strumenti, vogliono scrivere pezzi loro, vogliono il rap, la trap, l’indie, il rock.
Io, invece, li raffreddo subito. Devono capire che la musica, oltre all’emozione che regala, oltre al fuoco che ti accende in pancia, è anche regola, è pausa, disciplina, è la pazienza dello studio, della nota stonata che non ci deve stare ma che capita spesso, è stare davanti a uno spartito e farselo venire a noia.
Per cui: teoria, almeno i primi tempi. Poi, se mi seguono, nel secondo periodo tentiamo con gli strumenti. In seconda e in terza ci approcciamo già a dei pezzi da sottoporre al piccolo concorso musicale organizzato dai vari istituti della zona, ma in prima no. Tranne che nella classe di Babi, la 1A, perché sono stati bravi, bravissimi fin dall’inizio. Si sono sciroppati tutte le lezioni teoriche, si sono applicati e hanno avuto buoni risultati. Ho voluto premiarli e ho detto: “Va bene, ragazzi, porteremo un brano solo, fuori concorso, una piccola esibizione per aprire la gara e intanto vedete che effetto fa suonare tutti insieme davanti a un pubblico”.
Un’eccitazione incredibile.
Abbiamo aumentato le ore di prove. Ci siamo ritagliati un’ora dopo le lezioni pomeridiane del lunedì. In questa piccola band ci sono: tastiera, due chitarre, un basso, diverse percussioni, le maracas, un cembalo, due cantanti e il coro. Partecipano tutti. E Babi, la ragazzina dal cognome impronunciabile, suona la tastiera. Zoppica un po’, è lenta, talvolta, in alcuni passaggi, ma ha una determinazione pazzesca. Credo si eserciti a casa di continuo. Non dice mai nulla, se ne sta lì, uno scriccioletto sorridente, con due occhi neri e accesi, i capelli scuri sempre chiusi in una coda alta. È bassina e passa spesso inosservata, ma è stata lei a chiedermi di tentare con la tastiera. Non ha mai aperto bocca dall’inizio dell’anno, fino a quando non ho chiesto se qualcuno avesse una preferenza nella suddivisione degli strumenti. Mi ha quasi impressionato vederle alzare il braccino.
“Prof, io vorrei suonare la tastiera”.
“Abbiamo una pianista, allora!” ho esclamato e lei ha accennato una specie di sorriso.
Una settimana fa ho salutato i ragazzi, dopo la nostra ora di prove supplementari:
“Ci vediamo lunedì prossimo, ultima prova prima dell’esibizione. Mi raccomando, dobbiamo esserci tutti”.
Mentre riordinavo la stanza, Babi si è avvicinata.
“Prof, io lunedì pomeriggio non posso proprio”.
L’ho guardata sbalordito. Babi non ha mai saltato una lezione. Proprio adesso, proprio la più importante doveva saltare?
“Ma come, Babi? Sono le prove generali”
“Ho un impegno con la mia famiglia”.
“Non si può rimandare? Chiamo io i tuoi genitori, spiego la situazione…”
“Eh, no, prof. Non si può. Devo andare a rinnovare il permesso di soggiorno”.
E già non ho interiorizzato quel primo concetto, ero da un’altra parte, ero proiettato all’esibizione.
“Non possono andarci i tuoi?” le ho chiesto, di getto.
“Prof, devono prendermi le impronte digitali, per il permesso di soggiorno”.
Silenzio. Non sono riuscito ad aggiungere nulla. Ho accennato un sì, forse ho balbettato qualcosa, Babi ha raccolto il suo zaino, quello zaino tanto più grosso di lei, e se n’è andata.
Le impronte digitali. Il permesso di soggiorno.
Ecco, in quel momento mi sono accorto di una cosa. Mi sono accorto che le diversità che vedo io non sono le diversità del mondo. Per me ci sono Babi, che suona la tastiera, Luca Pittaluga, il dio delle percussioni, Sonia, con una voce melodiosa, Miguel, chitarrista, Chin-Li, che tenta il basso, e così via. Non lo so, io, chi è nato a Genova, chi ha genitori immigrati, chi è nato altrove, io non lo so. So che hanno culture diverse dalla mia, certo, me ne accorgo, mi accorgo che per merenda qualcuno porta qualcosa di inconsueto, esattamente come uno di Prà troverebbe inconsueto il pesto fatto a Recco.
Tutto qui. Per me, sono solo i miei studenti, che amano la musica, ognuno a modo suo.
E questa cosa che Babi dovesse mettere le dita sull’inchiostro per poter stare in Italia, il suo paese, dov’è nata, dove va a scuola, con i suoi amici, invece che metterle sui tasti del piano, questa cosa mi ha davvero smosso qualcosa dentro.
Il mattino dopo sono entrato in 1A, anche se non avevo lezione con loro e ho detto che avremmo dovuto spostare il giorno delle prove. Babi doveva esserci.
L’ho vista sollevare un po’ la testa e guardarsi attorno, all’erta. Lei, forse, non la vorrebbe questa attenzione. È timida, riservata.
Gli altri si sono guardati un po’ spaesati.
“Prof, ma io il giovedì ho danza”
“Io al martedì ho ripetizioni di matematica”.
“Prof, è un casino. Pazienza, se Babi non può”.
Lei mi interrogava con gli occhi. Fin dove arriviamo, prof? Sembrava volermi chiedere.
Non potevo aggiungere altro.
E allora si è fatta avanti lei.
“Ragazzi, devo andare in questura per il permesso di soggiorno”.
I compagni si sono scambiati qualche occhiata.
Sonia, la cantante, si è fatta avanti per prima:
“Scusa, perché?”
“Perché i miei sono indiani”.
“Ma tu sei nata qui. Andavamo all’asilo insieme, io e te, Babi, te lo ricordi?” ha insistito Giacomo.
“Non c’entra” è intervenuto, a quel punto, Yusef, figlio di immigrati algerini: “Se i tuoi sono nati da un’altra parte, tu non sei italiano, e basta. Devi avere il permesso di soggiorno”.
Le parole di Yusef hanno fatto calare il silenzio in classe. Molti compagni non la sapevano, questa cosa. Anche loro, abituati a questa policromia, non si sono mai fatti problemi: si scambiano le merende, gli appunti, le penne, trascorrono mattinate insieme a scuola e pomeriggi a dare calci al pallone in piazzetta. Ora, questa diversità, qualcuno gliela stava imponendo. I documenti e la burocrazia e le leggi stavano disegnando un noi e un loro. Questo muro, questo filo spinato che si era improvvisamente innalzato, faceva male ai ragazzi quanto faceva male a me. Lo sentivo.
“Dobbiamo fare qualcosa, prof. “è intervenuto Luca Pittaluga.
“Non saprei cosa”.
Ho sollevato le spalle, impotente. Che potevo fare? Chiamare in questura? Tentare di convincerli che Babi doveva stare con noi, a fare le prove? Che poi, il problema, a quel punto era un altro. Non erano più le prove o l’esibizione. Era Babi, laggiù, in questura. A chiedere il permesso.
Permesso. Entro. Posso?
“Andiamo con lei” mi è uscito di bocca all’improvviso.
“Cioè?” ha chiesto qualcuno.
“Andiamo… andiamo noi con Babi. Andiamo in questura e suoniamo. Suoniamo lì. Perché Babi ha tutto il diritto di essere lì con noi. Facciamo sentire da che parte stiamo, noi!”.
Un boato è esploso in classe. Applausi, urla goliardiche, fischi. Babi ha di nuovo sorriso e gli altri l’hanno abbracciata.
Bisognava organizzare, a quel punto.
Primo passo: la preside.
Sono entrato nel suo ufficio quasi volando e, nel mio solito modo impulsivo e disorganizzato, le ho spiegato la mia idea.
Un flash-mob, le ho detto, davanti alla questura. Un brano solo, suonato con Babi.
Lei mi ha ascoltato immobile, un sorriso appena accennato sul margine delle labbra e gli occhi che inseguivano pazienti i miei passi furiosi nel suo piccolo ufficio.
«Bravo, Caveri! Ottima idea. Mi piace quando entriamo così nel sociale per far sentire la nostra vicinanza agli studenti!»
Sapevo che sarebbe stata d’accordo, lei è una tipa tosta, il fatto è che di solito le sue frasi proseguono con un…
«… ma deve avere il permesso di tutti i genitori. E spiegare bene le intenzioni dell’esibizione davanti alla questura. I genitori devono aver chiaro il motivo per i quali lei chiede il coinvolgimento dei loro figli. Prepari un modulo ben dettagliato e lo faccia portare firmato da entrambi i genitori. Mi raccomando, non basta una manleva, dev’essere tutto ben esplicitato».
L’ho guardata un po’ sperso. Io e la burocrazia siamo due nemici giurati. Ma ogni impresa richiede un piccolo sacrificio.
Ho annuito e mi sono diretto sul campo di battaglia: sala professori, pc, cartella “Documenti per uscite”. Dopo innumerevoli tentativi, finalmente sono riuscito a elaborare una specie di autorizzazione con descritte le finalità sociali di quello che ho definito “un atto di vicinanza” e “un gesto simbolico”. Ottenuto il consenso della preside, ho consegnato i documenti ai ragazzi.
Certo, non mi sarei aspettato applausi e commenti di profondo entusiasmo, ma neanche un’abdicazione al problema. Qualcuno ha consegnato il modulo con la voce “Non autorizzo” barrata e qualcuno, invece, non lo ha consegnato proprio. Al giovedì pomeriggio avevo, in totale, dieci autorizzazioni.
Una vocina nella mia testa mi suggeriva di lasciar perdere, di aver azzardato troppo. Poi ho pensato a Babi, a quel timido sorriso che è nato spontaneo quando si è accorta che qualcuno sarebbe stato dalla sua parte. All’entusiasmo della classe, ai loro commenti, quando è nata la questione. E allo sguardo triste di alcuni di loro, quando mi hanno detto che non avrebbero partecipato.
Da che parte devo stare, mi sono chiesto.
Ho aperto il registro elettronico e ho chiamato i genitori di chi non ha aderito all’iniziativa.
Sono riuscito a convincerne qualcuno e il giorno dopo è arrivato qualche modulo in più. Sì, un paio di studenti non ci sarebbe stato, con la scusa di un impegno, anche se credo sia stato soprattutto per la posizione dei genitori in merito alla questione. Ho vacillato, al pensiero che non ci fossimo tutti, perché l’idea era di essere compatti, una classe intera pronta a spalleggiare la propria compagna. Ma il mondo non è tutto bianco o nero, mi sono detto, e alla fine ho deciso di andare.
È stato il fine settimana più lungo della mia vita, ho alternato momenti di euforia a momenti di sconforto, ho preso il telefono in mano diverse volte, con l’intenzione di annullare tutto.
Alla fine, il lunedì pomeriggio è arrivato. Ci siamo dati appuntamento davanti alla questura.
Babi è arrivata con i suoi genitori, che mi hanno salutato con un po’ di diffidenza. Chissà, magari non gradivano tutta questa attenzione, mi sono detto, ma ormai eravamo tutti lì.
Ero disorientato, guardavo i colleghi che avevano voluto unirsi all’iniziativa, senza sapere bene cosa fare, ora. Mentre Babi s’incamminava verso il portone, l’ho chiamata.
Lei si è voltata appena.
«La tastiera ti aspetta qui. Non iniziamo, senza di te» le ho detto.
Ha annuito.
Mi sono voltato verso la 1A. Anche loro sembravano smarriti e un po’ sfiduciati, e allora ho capito che dovevo sotterrare la mia ansia per infondere loro il coraggio di cui avevano bisogno. Dovevo essere la guida sicura, in quel momento, anche se un mare di insicurezze mi dilagava dentro.
«Forza, ragazzi, montiamo strumenti e amplificatori» e ho sorriso spavaldo.
Si sono aperti timidi sorrisi anche tra di loro. Persino i più disinibiti, quelli che di solito in classe tirano fuori battute a raffica, facevano fatica a commentare.
Si sono avvicinati due poliziotti, a quel punto, e mi hanno chiesto cosa stesse capitando. Ho cominciato a pensare ai permessi, alle multe, a un insieme enorme di cose che sarebbe ancora potuto intervenire per interrompere la nostra piccola iniziativa. Ho spiegato del flash-mob ai polizotti mentre, imperterrito e con le mani tremanti, montavo la tastiera di Babi.
Uno dei due mi ha chiesto di mostrargli un documento, con il tono di chi non si sarebbe ammorbidito facilmente. L’altro, invece, mi ha sorriso cordialmente: «Bravi, che bella cosa. La ragazzina ne sarà felice» ha detto, mentre io tendevo la carta d’identità al collega. Infine, si sono scambiati uno sguardo d’intesa e si sono allontanati e io ho cercato di non mostrare quanto mi avessero preoccupato quei brevi istanti.
Ma la tensione si è allentata del tutto, quando sono spuntati, in mezzo alla folla che intanto si era creata intorno a noi, i compagni che non avevano ottenuto l’autorizzazione dai genitori.
«Ci hanno detto che non possiamo partecipare, ma nessuno ci ha detto che non potevamo uscire» hanno spiegato.
Appena finito di sistemare tutto l’occorrente, insieme ai ragazzi abbiamo distribuito un volantino che spiegava le finalità del nostro piccolo concerto. Poi ci siamo seduti, in attesa che arrivasse Babi.
C’è voluto un po’. Devo dire che il silenzio che è sceso sui nostri spartiti ha perso quasi subito la magia della sospensione che si crea prima di un concerto o di uno spettacolo teatrale, quell’atmosfera carica di attesa ed elettricità. Sembrava di essere in coda alle poste, nella speranza che il tabellone luminoso mostrasse il nostro numero, senza sapere quale fosse.
Poi, però, Babi è uscita. E aveva un sorriso. E degli occhi. Brillavano in un modo che se non ci fosse stato il sole, non ce ne saremmo neppure accorti.
Ci siamo alzati in piedi e ognuno, con disciplina, ha preso il proprio posto.
Babi si è accomodata alla tastiera e ci siamo guardati. Come deciso, avrebbe iniziato lei, da sola, con le prime note.
È stato un istante. Ma io l’ho vista, l’ho vista che si è preoccupata di sporcare i tasti, con le dita nere d’inchiostro. Le ho fatto un cenno di noncuranza. Non importa Babi, non importa.
Lo cancellerai con la musica.
Ho dato il quattro e abbiamo iniziato.
Imagine.
Imagine there’s no countries.
Immagina.
Immagina.
Immagina.
E ora sono seduto qui, a rigirarmi tra le mani lo spartito e quattro pensieri che girano impazziti intorno a un punto essenziale.
Decido di alzarmi, finalmente.
Lo spartito lo tengo, può essere che domani qualcuno me lo chieda, a scuola.
La domanda che temevo più di tutte, adesso, si staglia gigante sulla facciata della questura.
A cosa è servito a tutto questo?
Quando abbiamo finito di suonare, la folla ci ha applaudito, sì, il piccolo gruppetto di persone che si è raggrumato intorno a noi non si è disperso subito, ha aspettato qualche minuto e qualcuno si è portato via il volantino, il poliziotto che mi aveva sorriso mi ha fatto un cenno da distante, come a dire è andato tutto bene, e un collega mi ha sorriso dicendo che è stato un successone. Qualche ragazzo, invece, di quelli più bravi, che già suonavano prima di incontrare me alle medie, mi ha detto che ha sentito un paio di stonature, qui e là, qualcuno fuori tempo, che dovremmo fare un’altra prova prima dell’esibizione per le scuole ma la verità è che io non lo so, come abbiamo suonato.
Io non ho sentito nulla.
Io ero perso su quelle dita, su quell’inchiostro che spariva nel bianco della tastiera.
E continuavo a pensare a questa domanda che avrebbe inchiodato tutte le mie intenzioni.
A cosa è servito tutto questo?
Guardo la questura ancora una volta, i fogli sparpagliati a terra, la tastiera ancora collegata all’amplificatore che rilascia un ronzio di sottofondo.
Una mano sulla mia spalla.
Mi volto, e davanti a me c’è Babi.
Non sorride, come sempre.
«Dici che lo hanno capito?» chiedo, accennando al palazzo della questura, consapevole che i destinatari del mio messaggio sono ben altri e, di certo, non sono seduti dietro quelle scrivanie.
Babi alza le spalle.
Lo sguardo di entrambi si sposta altrove, verso il tramonto che lambisce un mare che non possiamo vedere, inghiottito dalle strade del centro città. Se facciamo due passi più in su, però, lo vedremo, lo vedremo sicuramente.
Babi accenna un: «Prof».
E mi accorgo che è la prima volta che sento la sua voce, in tutto il pomeriggio.
«Non so se loro hanno capito».
Fa un sorriso timido: «Ma io sì».
Questa storia è una storia a metà tra quello che è successo e quello che sarebbe potuto succedere.
Il racconto prende spunto da un post pubblicato dal collega Alessio Anelli, che riportava un episodio nato nello stesso contesto qui raccontato. Qualcuno, nei commenti, ha chiamato la protagonista dell’aneddoto: “la pianista dalle dita d’inchiostro”. E da lì, il racconto.
Chiara Ferraris, nata a Genova, è biologa, insegnante e scrittrice. Vive in campagna con la sua famiglia. Ama leggere ed essere a contatto con la natura. L’impromissa, il suo romanzo d’esordio, è pubblicato da Sperling & Kupfer. Scritto in un lungo inverno, ha vinto la seconda edizione del Premio nazionale per opere inedite «Parole di Terra», sezione Narrativa, con il titolo Il giorno dei grilli verdi.
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