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  • Immagine del redattoreArianna Destito

L'uomo che inventava le città, Daniel Guebel (Amos edizioni)

traduzione di Marino Magliani e Riccardo Ferrazzi

di Alessandro Gianetti



L'uomo che inventava le città (Amos Edizioni, 2020) è anzitutto un bel titolo, e poi è esatto: il pittore Zarlanga, fattosi scultore e poi architetto su richiesta del presidente Juan Domingo Perón, non costruisce, non pianifica, non pensa: inventa. Forse sarebbe ancora più esatto dire che immagina le città; e neanche tante, solo una, la città che doveva riflettere le linee estetiche e gli ideali del movimento politico del peronismo, che in gran parte si riassumevano in un’esaltazione del leader in una determinata fase storica dell'Argentina. Per comprendere il nucleo narrativo di questo racconto è tuttavia necessario risalire al titolo originale: La infección vanguardista (L’infezione avanguardista); che dà il segno della progressiva perdita di lucidità di Zarlanga, sempre più immedesimato con la sua opera, quasi fosse un contagio, alla quale trasfonde una millesima parte della propria vita, se è vero che il modellino di plastica comincia a palpitare, a battere, insomma a vivere. Questa fusione intima tra città e inventore è ciò che porterà al fallimento dell’una e dell’altro, ad annullare le distanze tra due ordini che avrebbero dovuto rimanere separati.


“Perón non dava ordini, chiedeva”, scrive Guebel (Buenos Aires, 1956) affermato scrittore, giornalista e sceneggiatore che da noi è pressoché sconosciuto. E all'aspirante pittore impressionista chiede d'inventare la città del futuro, una sorta di Brasilia ma con più anima. I dettami del presidente sono seguiti alla lettera dal nostro Zarlanga, come se si trattasse di un'entità indiscutibile alla quale ci si può solo affidare: una specie di musa. In un'assolutizzazione che si avvicina al mito della storia recente dell'Argentina, anche Evita gli apparirà sotto forma di dea sulle rive del lago Iberà, che si trova realmente nella parte nord-orientale del paese: “una stella fugace che segnava il punto di salvezza della patria”, la definisce.


Eclettico fino a reggere una molteplicità di piani interpretativi, questo testo si presta a essere letto come una metafora. Di che cosa? Per quanto strano possa sembrare, non dell'epoca peronista, della quale si serve per colmare di verosimiglianza le atmosfere iperboliche, né dell'artista infatuato dal Potere, bensì di una materia difficile da affrontare in una prosa fittizia: le avanguardie, di cui viene descritto il sistematico travalicamento delle regole per spingersi verso forme e materie teoricamente impraticabili, fino a precipitare in una città in cui nessuno potrebbe vivere. L'astrattezza di Daniel Guebel, ben segnalata da Luigi Marfé nella sua postfazione, dove si cita opportunamente Luís Borges e il suo Del rigore della scienza (1946), fra i rimandi più espliciti del libro, appare in questo caso in tutta la sua versatilità. Lo scrittore argentino ha concepito un personaggio mai esistito che si mette al servizio dell'uomo che ha invece inciso sulla storia moderna del suo paese più di ogni altro. E non lo ha fatto per sciogliere i nodi più o meno conosciuti della Storia, bensì per raccontare la deriva di un'arte che s'illudeva di poter cambiare il mondo attraverso se stessa. Zarlanga finirà per dormire all'interno dei modellini della sua città utopica, di cui la polizia, fattasi nemica dopo il colpo di stato militare del 1955, finirà per crederlo un custode ammattito, senza mai consegnarli a Perón. La sua idea peronista del futuro diventerà un gioco da tavolo che intrattiene adulti e bambini.


Il disordine in cui precipita il suo progetto è quello di qualsiasi idea fissa, di qualsiasi ossessione disancorata dalla realtà, in definitiva di qualsiasi utopia. Per questo l’opera di Zarlanga, che a ben vedere non esiste (L’arte senz’opera è anche il concetto centrale di un bel saggio di Jean Galard, e si ritrova spiegato e contestualizzato, tra gli altri, in L'arte espansa di Mario Perniola) finirà per essere venerata in patria come esponente di un’epoca sì gloriosa, ma ormai tramontata. In quanto incarnazione di un certo paradigma limitrofo, come tutte le avanguardie di quel tempo, Zarlanga non salirà mai la scalinata delle onorificenze ufficiali. Quelle sono appannaggio di chi si mantiene agganciato alla sfera più pragmatica del Potere, non alla sua dimensione utopistico-romantica. Guebel usa ironicamente la scrittura per parlarci dell’arte, per dirci qualcosa sulle avanguardie del Novecento, con la stessa dedizione, illusorietà e forza dirompente con cui nacquero e si affermarono per poi estinguersi, lasciando in questo caso un mucchio di schizzi incompiuti, perché come afferma l’autore per mezzo del protagonista: “Un uomo anziano, che ha fatto il suo dovere, non ha paura di morire fra uccelli e alberi, soprattutto quando ha vissuto tutta la vita dominato dal terrore di essere alla mercé di un errore antico”. E con l'errore si salderà quel debito che l'avanguardista aveva giurato di non pagare mai.



Alessandro Gianetti è scrittore e traduttore. Pubblica nel 2012 La Guida di Giuda (Miraggi) e nel 2018 Storie di baci (Robin Edizioni). Collabora con diverse riviste quali Doppiozero, Il Lavoro Culturale e Gli Stati Generali.

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