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L'uomo che inventava le città: chi è Rafael Zarlanga

di Guido Festinese

Daniel Guebel, nato nel 1956 a Buenos Aires, è uno scrittore ben poco conosciuto in Italia. Il suo romanzo El Absoluto ha vinto il Premio Nacional de Literatura in Argentina, e il seguente El hijo judio (Il figlio ebreo) il premio della critica della Festa internazionale del libro. Guebel appartiene a quella generazione che, per così dire, è approdata a una seconda declinazione letteraria del fantastico dopo che il tempo si è incaricato di dissipare molte ombre manieristiche sedimentate sul genere, e si sono palesate e rafforzate altre piste urgenti, una su tutta quella, memorabile e possente, di Roberto Bolaño. Giustamente nella prefazione al racconto di cui qui tratteremo si fa riferimento a un autore come il prolifico Cesar Aira, con cui Guebel condivide uno stile al contempo preciso, apparentemente semplice, e in realtà risonante di mille rifrazioni armoniche ironiche, a cogliere e congelare la distanza tra quanto è scritto sulla pagina, e quanto si vuole (o deve) intuire, pena lo scambiare la traccia scritta per un mero resoconto neutro di eventi.

L’uomo che inventava le città, nella traduzione di Riccardo Ferrazzi e Marino Magliani, e appena pubblicato per i tipi di Amos Edizioni, si intitolava in originale L’infezione avanguardistica, e faceva parte della raccolta La Carne de Evita, del 2012, ancora inedito in Italia. E’ la storia di un uomo semplice, Rafael Zarlanga, che dopo aver iniziato il suo iter lavorativo come modesto ma assai motivato pittore provinciale per una serie di eventi finisce a New York. Lì tenta invano di rivendicare la propria ricerca e i propri meriti artistici, mentre in realtà tutto quello che gli viene richiesta è una produzione seriale. Viene però contattato dalla resistenza peronista che lo convince a mettersi al servizio di Juan Domingo Perón, in esilio in Spagna. Il primo incarico che gli assegna il leader esiliato è quello di realizzare una sorta di “opera totale” che per così dire trasfiguri in una sorta di agglomerante sintesi finale tutti i simboli nazionali argentini che, nella mente del grande populista, avrebbero costituito una sorta di mobilitante scaturigine di rivolta nazionale, per facilitarne il ritorno in patria. Il secondo incarico è quello di realizzare un monumento che, per le medesime ragioni, possa celebrare e consacrare il potere riconquistato, e lì Zarlanga si inventa un impossibile compromesso tra una torre di Babele e quella di Pisa, un cono rovesciato che sfiori le nuvole. Il terzo e ultimo incarico è la commissione di una città ideale futuristica e tradizionale assieme, una sorta di megalopoli finale che coincida con lo stesso sogno, o incubo populista, del peronismo: la concrezione pratica e sfrontata di uno slancio fiero e selvaggio, caotica e ordinata come lo stesso e indefinibile populismo peronista sbilanciato e apparentemente “anti” tutto, in forza del plebiscito popolare.

Zarlanga passerà la sua vita inventando e disegnando l’impossibile e l’impraticabile, concependo e disegnando quanto non può essere concepito e disegnato, e lasciando al peronismo ormai privo anche fisicamente di Perón un mare magnum di carte, abbozzi, modelli e cartoni proliferati sino a costituire, essi stessi, una sorta di impraticabile città disegnata del non senso, un superfetazione di prospettive impossibili. Apoteosi , racconta scrive Guebel, di uno “stato di febbrile ricerca senza concretezza”. C’è qualcosa di maniacale anche nel pacificato crepuscolo finale di Zarlanga, che torna, ormai vecchio, alla pittura delle sue origini. Una circolarità avvinghiata al non senso di un’epoca irrisolta, furibonda e illusoria, che continua a marcare carne, memoria e scrittura degli argentini.

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