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  • Immagine del redattoreArianna Destito

Da eroi a scarti: dialogo tra un farmacista e un'infermiera in tempo di Covid

di Arianna Destito


Un dialogo immaginario, di fantasia che si basa su alcune testimonianze di chi ha lavorato nella sanità nel periodo della pandemia. Alcuni eventi si ispirano alla realtà ma ogni riferimento a persone, fatti e luoghi è puramente casuale.


Qualcosa è cambiato.

Mi dico mentre mi preparo per uscire. Sono le 14 di una assolata giornata di inizio

estate. Preparo la borsa per andare in piscina. Asciugamano, libri,

ciabatte, cuffiette…”

Qualcosa è cambiato?

Metto il costume, i leggings, la maglia. Sono pronta ma la sensazione di dimenticare

un pezzo è sempre lì in agguato tra una ciabatta che non trovo e gli occhiali lasciati lì

sulla mensola.

Mi sembra strano in un lunedì qualunque non dovermi recare al lavoro.

Ma per forza, continuo a ripetermi, deve essere cambiato qualcosa se sono a zonzo

per la città anziché dare la terapia ai vecchietti della casa di riposo.

Guadagno l’uscita con la certezza di aver dimenticato a casa qualche pezzo.

Ti ci vorrebbe una persona dietro, diceva sempre mia madre.

Ogni volta è così. Sono distratta, soffro di iperattività immaginativa, come Woody

Allen in Io e Annie, la mia mente rimbalza di qua e di là, corre, le idee si accavallano,

si sorpassano l’una con l’altra per poi bloccarsi in un ingorgo cerebrale, non ci posso

fare niente. Oltre tutto, prima di uscire devo fare i conti con i soliti rituali ossessivi:

controllare se è tutto a posto, se ho staccato il ferro da stiro (fortuna che non stiro

mai), se ho spento il forno, chiusa la luce, serrata la finestra, prese le chiavi (che

trovo dopo aver rovistato a lungo nella borsa), gli occhiali da sole, la mela per la

merenda, altrimenti addio alla dieta, addio ai cinque pasti al giorno, allo yogurt, alle

proteine e al gluten free. Ma ecco che la mia mente salta già al pezzo successivo: hai

preso il cellulare?

Il cellulare, dannazione, dove diavolo è? Frugo nelle tasche, nella borsa. Niente. Ma

sì, lascialo a casa mi dice la voce zen, chi se ne frega di tutto e di tutti. In effetti, non

sarebbe male staccare, per una volta. Ma no, e se poi servisse? Se arrivasse una

telefonata importante, di quelle che ti cambiano la vita? Metti che proprio quando

lo dimentico mi chiamano per un lavoro speciale, mica posso perdermelo così.

Dunque, dopo alcuni minuti di estenuante lotta all’ultima ossessione, nei quali entro

ed esco dieci volte di casa, forse comincio a intravedere uno spiraglio di luce, quella

del portone semiaperto.

(Com’è che dicevi? Il lavoro speciale? La mente fa una piroetta e si sbellica dalle

risate)


Ormai esausta mi ritrovo in strada. Finalmente fuori! L’aria calda e ventilata mi

accarezza le narici, profumo d’estate. Le narici?! Davvero? Non dovrebbero essere al

calduccio sotto una mascherina?

Cazzo, la mascherina! Ecco cosa ho dimenticato!

Devo correre assolutamente in farmacia. Ce ne sarà una aperta nel raggio di pochi

metri. Da quando è iniziata la pandemia non sono più abituata a girare per strada

senza protezione, mi sento quasi nuda.

Mi avvio con aria colpevole per la strada, abbassando di tre quarti il capo, come per

nascondermi, vorrei avvolgermi su me stessa, ma non saprei come, porto la mano

alla bocca nell’illusione che faccia da filtro, quando incrocio qualche passante infilo il

naso nella piega del gomito, come per proteggermi. Arrivo nella solita farmacia, è

aperta, fa orario continuato. È deserta. Entro.

“Vorrei una mascherina. D’urgenza” gli dico coprendomi la bocca con la mano

“Ma guarda che ora non sono più obbligatorie”

“Eh ma io preferisco portarle, non si sa mai…”

“Fpp2 o chirurgiche?”

“Chirurgiche.”

“Ah, ma tanto queste non fanno niente.”

“Vabbè, ma se le portassimo tutti, sarebbe meglio no?”

“Sì, forse. Io sono fatalista il virus t’acchiappa lo stesso con mascherina o senza.”

Forzo un sorriso. Se prestassimo più attenzione forse limiteremmo i danni. Ma non

ho voglia di discutere con il farmacista.

“La verità è che qui è tutto un allarme ma nessuno ci capisce niente”.

“Ecco appunto”, quindi dammi questa cazzo di mascherina, penso.

“Comunque stai tranquilla, ora le trovi sempre, non resteremo più senza”

“Bene, se penso come ho lavorato in questi mesi” dico quasi pensando ad alta voce.

“Ah, sì? Dove?”

“In una residenza per anziani”

“Oh, deve esser stato difficile”

“Non difficile. Impossibile.”


All’inizio non avevamo neanche mezzo dispositivo di protezione. Abbiamo accudito

gli anziani, li abbiamo curati, li abbiamo assistiti come potevamo, con i mezzi che

avevamo a disposizione, è stata una lotta contro l’invisibile, dove ogni giorno

perdevi qualcuno, o perché malato o perché impaurito. Siamo rimasti in pochi,

poche unità di personale su un’ottantina di ospiti. Loro non capivano nemmeno cosa

stesse succedendo. Alcuni sono morti senza nemmeno accorgersene. È stata tutta

una corsa senza direzione. Nessuno di noi sapeva dove andare. Non avevi un nemico

davanti su cui accanirti o dal quale proteggerti. Ogni cosa attorno a te e nell’aria era

una minaccia. L’atmosfera era straniante. Non potevi fidarti di nessuno, neanche di

te stessa, perché chiunque di noi poteva essere il “virus che cammina”. Ora, dopo

tre mesi, sembra tutta un’appannata visione distopica, quasi un incubo che non sai

se sia stato reale, ma allora, quando c’eravamo dentro fino al collo, ci sentivamo

tramortiti dall’incredulità.

Mille morti al giorno, diceva il bollettino. Lavatevi le mani. È l’unico modo per

proteggersi. E quando ti dicono così vuol dire che siamo proprio nella merda,

pensavo. Mi sono scorticata la pelle da quanto le ho disinfettate, le mani.

Mi sono intossicata con l’amuchina che ho spruzzato ovunque. Ho indossato due

mascherine per volta, quando finalmente sono arrivate. I guanti, poi i camici, ma

dovevamo usarli più volte perché non ce n’erano abbastanza. Sembravano abiti

preziosi da custodire con riguardo. Ricordo le prime mascherine. Ero commossa

quando le ho trovate. Ricordo la ricerca disperata e inutile in tutti i negozi: le

farmacie, i supermercati, i ferramenta. Ricordo la mia collega che mi passa in un

sacchetto una FFpp3, quelle con il filtro. Me l’ha data mio marito, fa il muratore, lui

le usa. L’ho presa, stretta e infilata nella borsa, quasi di nascosto, come se si

trattasse di una dose di cocaina.

Ci si abitua a tutto, e in breve anche alla catastrofe, sebbene non la si voglia vedere.

“Fra quindici giorni il picco, poi la curva discendente” proclamava la protezione

civile. Ma il picco era ancora lontano.

Quanto manca ai quindici giorni? Quando ne usciremo? Forse la domanda vera era

un’altra: ne usciremo?


Quando ci sei non percepisci più il pericolo. Vedi la donna anziana al lavoro che ti

dice: “Mi cola il naso”.

“Cosa hai detto?!” domandi come se avesse annunciato che stava per perdere una

gamba.

“E vabbè, cosa vuoi che sia, un po’ di raffreddore” farfuglia con gli occhi cerchiati e

l’aria stanca. E allora già sai che probabilmente non sarà solo un raffreddore, e il

giorno dopo vieni a sapere che non riesce a camminare. E sai che potresti trovarla

sempre peggio. Insieme a lei altre tre quattro, dieci, persone, tutte con gli stessi

sintomi, tutte in isolamento, con febbre alta e ossigeno. Qualcuna ha gli occhi aperti

ma non ti vede.

Solo dopo pensi che sei stata a contatto con loro. E allora riprendi a fregarti le mani,

le scortichi in maniera ossessiva, come i pazzi. Non conti più le volte in cui infili e sfili

i guanti. La mascherina devi tenerla con riguardo. Non ce ne sono per tutti.

Qualcuno di nascosto le ruba. Qualcuno decide di rivenderla insieme ai camici. E ti

domandi come sia possibile che esista gente così, che sembra che voglia aiutare e

invece ti frega per tirare su due centesimi che puzzano di morte. Quella delle loro

anime.

Il responsabile attacca un biglietto al portone d’ingresso: grazie a tutti gli operatori

che lavorano con responsabile ed eroico senso del dovere.

E, nonostante la rabbia, ci credi che lo fai per una giusta causa. E scopri che sono

proprio le persone più squinternate, quelle che nella normalità vengono additate

come strane e balenghe, quelle un po’ pazze, quelle depresse che normalmente si

trascinano dietro la vita come un cencio, a tirare fuori una grinta e una forza che

nessuno si aspettava. Le vedi trasformarsi in macchine che macinano lavoro,

caterpillar dell’assistenza e dell’esistenza. Non hanno il tempo di stancarsi. Usano

sempre lo stesso camice come scudo di latta di fronte al virus malefico, “quella

bestia” lo chiama l’infermiera ucraina che ormai non conta più i turni, tre, quattro

consecutivi. Non c’è più notte né giorno, tutto si confonde. Molti dipendenti hanno

deciso di dormire lì, nella casa di cura, per non rischiare di infettare gli altri, fuori. E

anche per proteggersi perché uscire è un rischio che nessuno vorrebbe correre. A

parte quelli che negano il problema, perché sono ancora più spaventati e rifiutano la

realtà.

“Ma quale virus” pontificano “è un complotto dei cinesi.”

“No, degli americani.”

“Maledetti milanesi.”

Mugugnano in coda al supermercato. Il vecchietto esce dal panettiere con la

focaccia fumante tra le mani, e lo vedo infornare la striscia nella bocca spalancata.

Non ricorda di avere la mascherina. Rido per la sua incosciente ostinazione a vivere

la normalità.


C’è un dentro e c’è un fuori, in questa storia, e un muro invisibile fatto di

esasperazione. Dall’incredulità iniziale si passa alla paura, alla tristezza e poi alla

rabbia. Il mondo diventa improvvisamente immenso, da perdercisi. Le distanze da

un quartiere all’altro si fanno abissali. Gli spazi dentro una casa di riposo diventano

voragini. Siamo soli. Noi e loro, gli ospiti. In silenzio. Non dicono niente. Quasi non si

lamentano. Quelli che stanno bene sono chiusi in camera. Quelli che stanno male

sono in isolamento. La signora del raffreddore ora non c’è più. Insieme a lei tante

altre e tanti altri. Non c’è il tempo per realizzare quello che sta succedendo. Non c’è

tempo e basta.

I parenti chiedono notizie, i telefoni sono incandescenti. Ci viene affidato un

cellulare in tutta fretta. Appartiene alla caposala, ci sono ancora le sue foto

personali, quelle del compleanno della figlia e della festa della porchetta. Usate

WhatsApp. E finalmente sfruttiamo la tecnologia a nostro vantaggio in una residenza

dove il tempo sembra essersi fermato, cristallizzato in una dimensione sospesa.

Effettuiamo le prime video-chiamate: emozionante, straziante.

Come fai a mostrare un vecchio che sta morendo nel letto? Come fai a preparare i

parenti a quello che vedranno? Non lo sai. Non ci sono parole adatte. Non c’è un

modo giusto. Ti senti anche fuori luogo, vorresti sparire, invece che stare lì a fare il

guardone; ma sei il tramite vivente di quella connessione stabilita tra padre e figlia,

tra madre e figlio, tra nonni e nipoti, tra nuora e suocera. E non sai se gioirne o no. Il

telefono all’inizio suona di continuo. “La prego, mi faccia vedere mio padre, ancora

una volta” supplica la donna.

“È stazionario, come ieri. Non è cosciente.” In realtà sta peggio. Ma come posso

impedirle di vederlo? Chi sono io per farlo? E come posso rendere l’impatto meno

crudele? Guardo l’uomo, ormai in coma. “Provi a richiamarmi tra cinque minuti,

vedo se riesco a svegliarlo” prendo tempo. Cerco il modo di rendere l’impatto con

quella visione meno traumatico. Ma è un’impresa impossibile.

Le prime volte piangevano tutti, ospiti e parenti.

Oppure fingevano di stare bene ma, una volta spento il collegamento, gli anziani si

asciugavano gli occhi. “Non mi resta altro che mio figlio” ripeteva scuotendo il capo

sconsolata la signora della 242.

Alcuni invece non ne volevano sapere delle video-chiamate. Neanche il tempo di

vedere la nipote che già la salutava congedandosi: “Ti chiamo dopo”. Rimandando la

conversazione a un futuribile intimità, quando saremo solo noi due, senza l'infermiera che ci mette in contatto.

Poi le domande strane, buffe, sciocche, perché la quotidianità è fatta di sciocchezze

che ti fanno anche sorridere. “Mamma mi senti? Mi senti?”

“E ti sento sì, ma se dici sempre mamma e non dici altro… cosa vuoi che ti

risponda?”

La signora della 250 è una vecchia genovese e ha sempre avuto un gran senso

dell’umorismo.


“Sono 5 euro” mi dice il farmacista. Lo guardo stranita.

“Cosa?”

“Le mascherine, dieci, cinque euro” ripete sollecitando una mia reazione.

È successo di nuovo, la mia mente ha fatto salti di qua e di là. Nel giro di pochi

secondi.

“Quindi lavori in una residenza per anziani. Pensa che alcuni miei amici li stanno

licenziando perché non servono più.”

“Già” gli dico mostrandogli la borsa del mare. “Secondo te dove sto andando, il

lunedì pomeriggio, anziché a lavorare?”

“Capisco. Anche noi siamo in crisi. La ripresa è lenta. Avere una farmacia vicino a

una zona turistica senza turisti non è il massimo, lo vedi, è tutto vuoto non c’è

nessuno.” Scuote la testa, il giovane farmacista.

“Speriamo in tempi migliori.”

“Sì, speriamo.” Pago e faccio per andarmene, quando da fuori sento la voce di un

uomo.

“Ehi capo, mi dai una mascherina a 50 centesimi?” urla.

È trasandato, probabilmente senza fissa dimora.

“Non le vendo singole” gli dice con aria tronfia.

"Ah, sì? Ma va a cagar!" biascica il clochard.








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