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  • Immagine del redattoreAntonella Grandicelli

Anticorpi letterari: dove trovarli e come usarli

In questi giorni la forzata reclusione ci ha messi di fronte all’evidenza di quanto abbiamo sottovalutato la pericolosità e gli effetti catastrofici che un submicroscopico organismo può avere su di noi e sul nostro destino. È lui, il COVID-19, il virus che si è subdolamente insinuato nella nostra quotidianità. Non è nemmeno un organismo cellulare autonomo, ha bisogno di un ospite per sopravvivere e dare continuità alla propria specie. È un nemico che non vediamo a occhio nudo, che non possiamo combattere a mani nude, di cui spesso ignoriamo l’esistenza e la pericolosità. Un nemico quindi invisibile e silenzioso. L’essere umano, che da sempre ha corrisposto qualità di grandezza alla potenza - immensi eserciti, armi deflagranti, vastità di territori – deve giocarsela con un’altra dimensione del potere, quella microscopica.

“Non serviva proprio a niente uccidere mosche, uccidere falene, uccidere moscerini. I Maligni erano troppo astuti.

Si possono uccidere tutti gli insetti del mondo, distruggere i cani e i gatti e gli uccelli, le donnole e le tamie, e le termiti, e tutti gli animali e gli insetti del mondo. Ci si può riuscire, si può uccidere uccidere uccidere, e quando si è finito, quando il lavoro è fatto…restano sempre i microbi." Gli insetti, Ray Bradbury .

Il Coronavirus si sta dimostrando un visitatore difficile da cacciare, tanto che per sconfiggere il suo vitale bisogno di socialità, abbiamo dovuto ricorrere alla nostra asocialità. Certo, ci ha colti di sorpresa. L’idea di rinunciare all’aperitivo, al passeggio sul corso, alla pizzata con gli amici, alla spesa al centro commerciale ci ha messo un po’ a farsi strada nella nostra mente poco avvezza al concetto di “solitudine sociale”. Abbiamo quindi scorrazzato, felici e forse anche un poco ignari, per molti giorni prima di riconoscere al nemico una capacità che non gli avevamo affatto conferito: il potere di fermarci. E il potere di farci paura.

"I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. (…) La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi, il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni." La peste, Albert Camus.

Gli abbiamo lasciato spazio, additando spesso come pusillanimi e ipocondriaci tutti coloro che esprimevano dubbi o timori e sottovalutando tutti i segnali e tutte le avvertenze, più o meno esplicite, delle autorità mediche. Abbiamo fatto spallucce, così come ci piace fare con qualcosa che riteniamo potrà forse toccare ad altri ma non a noi. Obiettivamente, quanto ci sembravano esagerati - quando non ridicoli, ammettiamolo – i primi che hanno incominciato a girare con mascherina e guanti?

“Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri. […] Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento”. I promessi sposi, Alessandro Manzoni.

Le epidemie, le pestilenze, il diffondersi di morbi assassini hanno sempre fatto parte dell’immaginario apocalittico di ogni civiltà, in qualsiasi tempo. Dai flagelli biblici alle epidemie di peste del Medioevo o del Seicento, dalla cosiddetta “spagnola” all’inizio del secolo scorso ai più recenti Ebola o Sars, senza tralasciare HIV, che può essere considerata a tutti gli effetti una vera e propria pandemia. Strumento apocalittico per eccellenza, sono molti gli esempi nelle scritture sacre, la Bibbia in primis, che utilizzano il diffondersi ciclico di epidemie quale segno dell’ira divina e della sua conseguente punizione. Lo stesso meccanismo si attuò anche durante le numerose pestilenze medievali, spesso individuate come l’inizio della fine del mondo.

Il racconto di tali epidemie e dei loro effetti sulla Storia ha da sempre costituito uno spunto per la letteratura, per narrare della fragilità dell’essere umano, della sua particolare tendenza a non riconoscersi in tale fragilità e delle reazioni, sia esse positive o negative, che la paura provoca all’interno della società.

Nel timore del diffondersi inarrestabile del virus è insita la nostra paura ancestrale di estinguerci, ma anche la nostra tendenza a cercare un colpevole, un untore, che facilmente vogliamo individuare in ciò che ci è estraneo o nemico. Così cominciamo a guardare con sospetto il collega che è stato in trasferta, il vicino di casa che ha visitato i parenti nelle zone più a rischio, l’anziano che fa la spesa nel market sotto casa, il postino, il corriere, e via via così restringendo sempre di più il cerchio. Passando in ventiquattrore dall’ammassarci tutti in spiaggia come se fosse Ferragosto, infrangendo ogni possibile cautela igienico sanitaria, al rinchiuderci a chiave in bagno terrorizzati quando nostro figlio di due anni per gioco fa finta di tossire.

"Fu intorno all’inizio di settembre del 1664 che, insieme ai miei vicini, appresi che la peste era tornata a flagellare l’Olanda; già nel 1663 essa aveva colpito con violenza il nostro paese, e particolarmente Amsterdam e Rotterdam, portata dall’Italia, secondo alcuni, arrivata dal Levante, secondo altri, fra le merci introdotte dalla flotta turca; altri ancora suggerivano che provenisse da Candia, o da Cipro." Diario dell’anno della peste, Daniel Defoe.

“Si chinò lo Schroder, con la fatica di un vecchio cadente raccolse il pacchetto, spiegò lentamente gli spaghi, trasse fuori dell'involto una campanella di rame, col manico di legno tornito, nuova fiammante. " Al collo! " gli urlò il Melito. " Se non ti sbrighi, perdio, ti sparo! "

Le mani dello Schroder erano scosse da un tremito e non era facile eseguire l'ordine dell'alcade. Pure il mercante riuscì a passarsi attorno al collo la cinghia attaccata alla campanella, che gli pendette così sul ventre, risuonando ad ogni movimento.

"Prendila in mano, scuotila, perdio! Sarai buono, no? Un marcantonio come te. Va' che bel lebbroso! " infierì don Valerio, mentre il medico si tirava in un angolo, sbalordito dalla scena ripugnante.

Lo Schroder con passi da infermo cominciò a scendere le scale. Dondolava la testa da una parte e dall'altra come certi cretini che si incontrano lungo le grandi strade. Dopo due gradini si voltò cercando il medico e lo fissò lungamente negli occhi.

" La colpa non è mia! " balbettò il dottor Lugosi. "è stata una disgrazia, una grande disgrazia! "

" Avanti, avanti! " incitava intanto l'alcade come a una bestia. " Scuoti la campanella, ti dico, la gente deve sapere che arrivi! "

Lo Schroder riprese a scendere le scale. Poco dopo egli comparve sulla porta della locanda e si avviò lentamente attraverso la piazza. Decine e decine di persone facevano ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva.” Una cosa che comincia per elle, Dino Buzzati.

Per fortuna l’ancestrale paura della contaminazione (o forse lo spirito di conservazione, chissà) alla fine attiva gli anticorpi del nostro cervello e cominciamo a capire che anche noi, nel nostro piccolo, siamo parte di un organismo più grande, la società per l’appunto, e che dobbiamo fare la nostra parte per preservarci e per preservarla. Cominciamo a uscire solo se necessario, facciamo la fila composti e distanziati al supermercato, ci laviamo le mani con frequenza (e i vestiti che sono stati a contatto con l’aria, il volante dell’auto, il telecomando), lasciamo fuori di casa le scarpe (innumerevoli file di scarpe sui ballatoi), cantiamo la nostra solitudine dai balconi per unirla a quella degli altri.

E infine riconosciamo gratitudine a tutti coloro che - medici, infermieri, personale ospedaliero - si prendono cura di noi rischiando in prima persona.

Sperando che tutto questo ci aiuti almeno a sviluppare altri anticorpi, i più importanti, quelli che ci servono per combattere l’ingratitudine, l’impazienza, l’egoismo da cui non esiste per ora vaccino alcuno e di cui rischiamo, ogni giorno di più, di essere malati terminali.

“Quando José Arcadio Buendìa si accorse che la peste aveva invaso il villaggio, riunì i capi famiglia per spiegar loro quello che sapeva sulla malattia dell'insonnia, e fu deciso di adottare delle misure per impedire che il flagello si propagasse ad altre popolazioni della palude. Fu così che si tolsero ai capri le campanelle che gli arabi barattavano coi pappagalli, e furono messe all'entrata del villaggio a disposizione di coloro che trascuravano i consigli e le suppliche delle sentinelle e insistevano nel voler visitare il villaggio. Ogni forestiero che in quell'epoca percorreva le strade di Macondo doveva far suonare la sua campanella perché i malati sapessero che era sano. Non gli si permetteva né di mangiare né di bere nulla durante il soggiorno, perché non c'era dubbio che la malattia si trasmetteva soltanto per bocca, e tutte le cose da bere e da mangiare erano contaminate di insonnia. In quel modo si mantenne la peste circoscritta al perimetro dell'abitato. La quarantena fu così efficace, che giunse il giorno in cui lo stato di emergenza venne considerato come cosa naturale, e si organizzò la vita in modo tale che il lavoro riacquistò il suo ritmo e nessuno si preoccupò più dell'inutile abitudine di dormire.” Cent’anni di solitudine, Gabriel Garcia Marquez.

Redazione@themeltingpop.com

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