Antonella Grandicelli
Anita parla con la pioggia.
di Antonella Grandicelli

Anita parla con la pioggia. Io lo so, la vedo vicino alla finestra, le narici invase dall’alito umido del mondo, le parole brevi come lampi azzurri, sommesse come preghiere stanche. Lei è lì, le mani sul cuore, nel cuore un coltello. E la ferita è profonda, che dal cuore va via e raggiunge le mani e i piedi e il centro del mondo.
Anita è uno spettro, un’ombra, è un bambino perduto ed è per questo che l’oste la lascia lì, seduta vicino alla finestra e ascolta le sue canzoni bagnate, che stridono tra i denti e il silenzio dell’aria.
Avevo camminato tanto e la pioggia pesante mi aveva spossato. Avevo bisogno del caldo, del sonno, del vino. Entrai e la pioggia mi seguì, strisciando vischiosa dietro ai miei passi come un serpente freddo.
La stanza era grande, ma vuota e un odore di vita spenta mi strinse, mi diede le vertigini. L’oste mi guardò, non sorrise, mi versò un bicchiere di rosso con il gesto di chi vuol farti coraggio. Bevvi tutto d’un fiato, mentre il vino raschiava la mia gola, cercai con gli occhi quell’odore e lo vidi seduto all’unica finestra, aperta sulla pioggia. Era una donna, non era bella, ma una luce cilestre le percorreva le vene, illuminando il mio cuore di uno strano singulto. L’oste se ne avvide, scrollò la testa e mi chiese se volevo mangiare. Risposi, no grazie, sono ancora un po’ stanco. E lui, lentamente, mi mise davanti pane e fagioli e un altro bicchiere di vino. Presi un morso di pane e lo tenni in bocca, assaporando la sicurezza del suo molle e dolce sapore.
Mi chinai e raccolsi un giornale, che giaceva straziato per terra tra una sedia e il bancone. Era datato lontano eppure le sue parole parlavano di quelle ore. La pioggia, il prezzo del pane, tredicimila morti in una guerra sconosciuta, le lacrime di una donna seduta al suo balcone. Ero stanco e avevo bisogno di parlare, di confondere il riflesso di quella pena che macchiava i muri e riluceva fioca come un focolare freddo. Presi la bottiglia che l’oste aveva lasciato vicino a me, versai due bicchieri di vino e gli feci cenno di avvicinarsi. Il suo viso, composto in un usuale silenzio, faceva fatica a versare le parole, quindi parlai io per tutti e due. Il vino mi gorgogliava dentro, come un ruscello in piena e trasformava la mia voce in una litania strana, a tratti urlata, a tratti sussurrata. Gli raccontai della strada che avevo fatto per giungere fino lì, del fango che si attaccava alle scarpe e che non riuscivi a scrollare via, e – perché no – dell’immensa, incommensurabile paura che sopravviveva dentro di me, dormendo di giorno, quando il cielo s’intinge d’azzurro e il sole asciuga il pianto, urlando di notte, quando solo il letto mi accoglieva, ma non mi salvava.
Era la storia della mia solitudine, vissuta per anni come una condanna, cercata per anni come una salvezza, odiata, amata, come una madre triste dal cui seno non riesci a staccarti e da cui ti lasci dolcemente avvelenare.
Mi parve a questo punto di sentire un rumore, un fruscio leggero che accompagnò l’aria sino a me. Mi volsi verso la finestra e guardai quella donna. Solo allora mi accorsi che da quando ero entrato – dovevano essere passati almeno cent’ anni – quella donna non si era mai mossa. Cercai di osservarla con più attenzione, anche se i suoi confini, labili e imprecisi, si perdevano nel silenzio della stanza e giungevano a me diversi. Aveva i capelli chiari, quasi grigi, ma su di lei non era passato il tempo, bensì il riflesso argenteo della pioggia. Mi girava le spalle, voltata verso il mondo al di fuori e pareva non essersi neanche accorta della mia presenza. Provai a chiamarla ma non mi rispose. L’oste mi guardò e scrollò la testa. Non sente nessuno, mi disse, ascolta la pioggia.
Non riuscivo a capire, non riuscivo a vedere nulla che fosse vita tra quei capelli opachi. L’oste si fregò le mani sul grembiule e bevve del vino, che disegnò una rossa e sottile ragnatela sul suo viso di bambino invecchiato. Anita, mi disse guardandola. E’ sola e vive qui da me. Non ha una storia da raccontare, ha una vita passata, che la tortura e non la vuole lasciare. Amava gli uomini in ogni parte del mondo e non faceva mai promesse. Portava con sé ovunque andasse i suoi capelli e le sue fotografie. Ne aveva una valigia piena e pesante, con cui spesso parlava, su cui spesso piangeva. Le sue dita sapevano intrecciare i loro dolori, trasformandoli in comodi giacigli su cui dimenticare. Ma non poteva fermarsi, non lo aveva mai promesso.
Tra gli innumerevoli giorni incontrò un uomo, lo amò così come la terra ama i suoi frutti, accompagnandoli e nutrendoli perché trovino il loro compimento. Il tempo passava e Anita scorreva dentro di lui ogni giorno ed ogni notte come una linfa d’argento e guardandolo dormire, intrecciava le sue dita nei suoi capelli e lo amava così forte che promise di non lasciarlo mai più.
Ma il tempo divorava l’aria intorno a lei e il suo respiro si faceva affannoso. Raccolse le fotografie e la sua valigia e la pioggia la portò via. L’uomo, che dormiva nel suo caldo giaciglio, non sopportò quel vento freddo, all’improvviso e pensò che il dolore dovesse essere la vita di Anita e non la sua tomba.
L’oste si alzò con gesto pesante come le ombre intorno ai suoi occhi e io guardai quella donna, ascoltai il suo lamento e mi sembrò una canzone. La stanza si era fatta ormai quasi buia, per una sera che era dentro di noi, solo dal corpo di Anita nasceva una debole luce. Allora anche io mi alzai e andai verso di lei, chiamandola. Anita, Anita, lei non si volse, io mi avvicinai ancora. Pensai come si pensa di un bambino che deve nascere, che non avevo mai visto il suo viso. I miei occhi la raggiunsero e in un attimo il mondo non aveva prodotto nulla di più bello. I suoi occhi, muti di pianto e di sorriso, fissavano la pioggia incessante e le sue labbra pallide ne seguivano la nenia. La guardai e, agghiacciato e inorridito, indietreggiai raggiungendo il suo cuore, trafitto da un lungo coltello. E la chiamai, Anita, la chiamai ancora, più forte e più forte. Come una bambola che risponde ad un richiamo, si volse e mi guardò e la sua voce mi scosse come un tuono. Non aver paura, mi disse, ho sentito che sei solo, vieni qui vicino a me. Presi una sedia e mi avvicinai alla finestra. Sì, sono solo. Sono anni che i miei passi tracciano lunghi sentieri nella polvere e io cammino, forse fuggo, ma non so dove, non so da chi.
Sono come un cavallo che corre sudando e cerca un padrone; sono come un uomo che si è chiuso fuori dal mondo e quando cerca di entrare si sente estraneo, sconosciuto, stupido.
A mano a mano che lo attraversavo il mondo mi ha strappato qualcosa, mi ha lasciato povero, vuoto, solo.
Lei mi accarezzò i capelli, districando con le sue dita sottili infiniti dolori che vi si annidavano. Siamo malati, siamo molto malati, la vita ci opprime, ci uccide, non ci basta.
L’oste tornò – non mi ero neppure accorto che se ne fosse andato – portò con lui una candela e un mazzo di carte. Ci sedemmo ad un tavolo e cominciammo a giocare, mentre lunghe ombre lambivano i muri. Le carte sorridevano davanti ai miei occhi, un esercito di fanti, di re, di regine. Un circo di volti e numeri che sparivano e ricomparivano, come le ombre sul muro, ora colombe fra le mie mani, ora lame taglienti. Il fumo sottile della candela mi bruciava gli occhi e avevo voglia di piangere. E piansi, piansi, mentre lei era là e guardava la pioggia, con un coltello piantato nel cuore. Anita. E le presi le mani, le toccai i capelli. Ti porterò via con me, ti toglierò il dolore dal cuore. Andremo lontano, vivremo la nostra vita randagia, senza scuse, senza peccati. Tu mi chiamerai con il tuo nome e io ti chiamerò con il mio. saremo insieme e divisi, saremo oggi e domani, per sempre. Tu guarderai le tue fotografie e io porterò la tua valigia e piangeremo tutte le sere per un giorno finito, sorridendo per quello che verrà. E la notte dimenticherai il nome dei fiori, per impararlo dalle mie labbra il giorno dopo. Ti insegnerò nuove canzoni, che canterai in silenzio mentre io dormirò, mi narrerai vecchie favole di principi e fate, che io sognerò. Vivremo la vita come ciottoli in un fiume, trascinati dalla corrente, levigati dal tempo, fino a che di noi non rimarrà che sabbia sottile, soffiata via dal vento. E tu sarai con me per sempre, per sempre. Promettilo.
Anita parla con la pioggia. Io lo so perché l’ho vista tanto tempo fa vicino alla finestra, con un coltello piantato nel cuore. E dentro le sue labbra sparivano i fanti, i re, le regine e tra le sue dita sottili rimanevano solo i numeri.
Anita è pietra, è dolore, è un bambino tradito ed è per questo che l’oste la lascia lì, seduta vicino alla finestra e ascolta le sue canzoni bagnate, che stridono tra i denti e il vuoto silenzio dell’aria.